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Avvolta dalla luna
Umberto De Pace


luna
        Alta nel cielo, la luna giocava, riflettendosi nelle chiazze d'acqua lasciate dal temporale che la primavera oramai matura aveva portato con sé nel pomeriggio. Pinuccia, bianca come la luna, camminava leggera, eterea, nella notte mite e silenziosa, lungo gli argini del Lambro, posando i piedi lentamente, uno dopo l'altro; passi brevi, lievi. La brezza accarezzava la sua pelle, increspata come le onde del mare, segnata dal tempo e dalla vita e rendeva leggere, ali di farfalla, le sue braccia sottili. Abbandonando il corpo, la brezza, ancella della notte, accompagnava la sua bianca vestaglia. Quando i piedi incontravano la luna, nelle chiazze d'acqua lungo il marciapiede, Pinuccia si fermava guardandoli, per poi alzare il viso verso il cielo. Non era più sola, in quel momento era avvolta dalla luna.

*****

        La musica diffusa saturava il locale a quell'ora pieno di giovani. Dietro al banco Liala era alle prese con uno dei suoi cocktail, mentre Mario ed Eva servivano ai tavoli. Nicola, il proprietario del locale, era in cantina a prendere un nuovo barilotto di birra alla spina. Da quando aveva ristrutturato il locale, insonorizzandolo, non c'erano più state lamentele da parte degli altri inquilini del palazzo. Certo, con la nuova ordinanza del sindaco che imponeva la chiusura entro l'una ed il divieto di utilizzo di bicchieri di vetro fuori dal locale, la gestione era diventata alquanto complicata. D'altronde Nicola non voleva abbandonare la posizione in via Bergamo; per questo aveva fatto di tutto per non incorrere nel rischio di ingiunzioni di chiusura, cercando persino di sensibilizzare la clientela. Ma che fare … la sosta fuori dal locale è d'obbligo per i fumatori e i loro accompagnatori ed è così che le voci e le risate si accavallano, rimbalzando da un muro all'altro della stretta via, raggiungendo velocemente i piani superiori dove altre vite trascorrono, fra le mura domestiche, la loro serata.

*****

        Quella sera Alejandro faticava ad addormentarsi, nemmeno il tepore di Isabel, oramai sopita, stretta al suo fianco, erano sufficienti a rasserenarlo. Nella stanza accanto, dove dormivano le figlie, regnava il silenzio. Alejandro, scostando delicatamente il braccio di Isabel, si alzò per andare a bere un bicchiere d'acqua. Dalla finestra in cucina filtrava un tenue raggio di luna; si era aperto un varco attraverso i rami degli alberi del giardino di fronte al loro condominio.
Guardando fuori dalla finestra sentì un bruciore allo stomaco, troppa era la rabbia che aveva in corpo.
Ehi tu, sporco negro …” – qualcuno urlò alle sue spalle quella sera mentre stava andando, come tutte le settimane, al corso di italiano dopo il lavoro. Un gruppo di ragazzi appollaiati sulle panchine dei giardini sotto casa lo guardavano spavaldi, puntando il dito minaccioso contro di lui.
“Que yo?” – stupito si guardò intorno per capire con chi ce l'avessero.
Sì, tu, sporco negro …”
De qué hablas …” – non fece in tempo a concludere la frase che uno di loro con la testa rasata e il giubbotto nero, alzatosi, gli urlò contro: “Tornatene a casa tua, non farti più vedere da queste parti!”.
Il corpo s'irrigidì, il sangue fluiva veloce ingrossando le vene ai polsi mentre una mano stringeva la borsa con il libro e l'altra conficcava le unghie nel palmo. In una frazione di secondo, nella mente passarono gli spezzoni della sua vita, come fotogrammi: l'Ecuador, gli ultimi vent'anni trascorsi in Italia, sua moglie, le bambine nate qui a Monza, i sacrifici fatti per avere un lavoro e una casa dignitosa, il mutuo da pagare, i parenti lontani, la casa lì, davanti a lui, poco oltre quei quattro imbecilli. Si girò e proseguì il suo cammino, soffocando nello stomaco la rabbia.

*****

        Come ogni sera intorno al fuoco ci si trovava per condividere le ultime ore della giornata. Mirsada assaporava in piedi la brezza della sera guardando, al di là del muro, la luna già alta nel cielo. Oltre il muro scorrevano veloci le automobili, su e giù tra Monza e Milano e le luci della sera illuminavano le strade ed i marciapiedi; oltre il muro il mondo dei gagè.
I bagliori del fuoco, l'odore rancido dell'immondizia, i ratti che a scatti veloci circumnavigavano le pozze d'acqua e fango, le voci; tutto in quel momento era lontano dalla mente di Mirsada, perché lei in quel momento era al di là, al di là del muro, della strada, del campo, che da anni la vedeva relegata tra stracci e macerie. Era in Grecia, mano nella mano con il suo Drago: ”Chissà se avrà trovato da lavorare?” – si chiedeva, e un attimo dopo era in Romania dal figlio più piccolo: “Avrà ricevuto il pacco con lo shampoo spedito la scorsa settimana?”. Un attimo passa in fretta, ed era già ora di andare a dormire. Nel giaciglio al suo fianco, sotto la tenda, Goran il primogenito era già assopito. Mirsada chiuse gli occhi, doveva riposare, l'indomani l'attendeva, e aveva bisogno di tutte le sue forze per affrontare con coraggio e poche speranze il nuovo giorno.

*****

        L'orologio del Duomo segnava le due, la città sospirava quieta nella notte; per le strade, rare tracce d'umanità tessevano i propri destini in attesa del nuovo giorno. Pinuccia, nel suo vagare, giunse ai giardini di via Grassi dove un signore con una bottiglia in mano si era appisolato, il collo riverso, su una delle panchine lungo il viottolo.
Sedutasi al suo fianco vide, oltre la staccionata, passare il treno in direzione Milano, un merci, ravvivato nella notte dai colori sgargianti dei graffiti. Lo sferragliare del treno scosse dal torpore il suo vicino, le cui palpebre tremule, una alla volta, faticosamente si dischiusero, intanto che la mano coatta stringeva la bottiglia vuota. Sarà stata la sua pelle bianca e delicata, sarà stato il bagliore della luna, resosi conto che al mondo, in quel momento almeno, non era solo, l'uomo si ritrasse al bordo della panchina con un vacuo sguardo di stupore.
Pinuccia, seduta composta come una scolaretta, con le gambe accostate, il busto dritto, le mani sovrapposte posate sulle cosce, voltandosi, gli sorrise con le labbra e gli occhi, stelle nella notte. Alzandosi, prima di andarsene, accarezzò il viso dell'uomo.
Ta sée pròpri bèl …” – pensò – “ … cumè 'l me Mario quand l'era giuin”. Tanto tempo fa.

*****

        Il bicchiere di plastica appoggiato sul tettuccio dell'auto, il membro in mano e il cervello chissà dove, pisciava birra sul muro del palazzo di fronte. Nicola aveva appena chiuso il locale.
Ma cosa stai facendo deficiente!” – dalla finestra del secondo piano, Laura, svegliata, come spesso capita, dal brusio delle voci dei tiratardi, richiamò alla realtà il fedifrago. Il suo urlo destò quel corpo scivolato nell'oblio, ravvivando miracolosamente la corteccia cerebrale, dispersa chissà dove.
Mi … mi scusi … si … gnora e che … “.
Se non vai via subito ti tiro un vaso in testa!” – con la pianta di gerani tra le mani, Laura non lasciava alcun dubbio.
Rinserrate le membra e riposto il membro, nel vano tentativo di chiudere la cerniera, barcollando a destra e a manca il non più giovane trentenne cercò di uscirne indenne. Nicola nel frattempo, spente le ultime luci, usciva dalla porta di servizio, incamminandosi verso l'auto parcheggiata nella via a fianco.

*****

        Dopo aver bevuto un po' d'acqua, Alejandro tornò a letto. Passando di fronte alla cameretta delle figlie si soffermò a guardarle: Gheraldina, la più piccola, dormiva raggomitolata come un gattino in un angolo del letto, stringendo tra le braccia il suo ippopotamo di peluche; Soledad era distesa, i piedi fuori dalla coperta, oramai grande, con i suoi tredici anni, per il lettino da bambina che occorreva cambiare. Mandò loro un bacio e al contempo il bruciore allo stomaco, la rabbia che aveva in corpo, si quietarono. In quel momento Alejandro capì di aver fatto ciò che era giusto fare quella sera di fronte al branco.
Tornò così a letto e posata dolcemente la mano sul ventre di Isabel si addormentò pensando al lavoro che lo attendeva la mattina oramai vicina e alla sua famiglia a cui doveva dedicare ogni forza ed energia. L'ultimo raggio di luna scivolò nel frattempo via dal quartiere addormentato.

*****

        Due ombre si muovevano silenziosamente nel campo. Di fronte alla brace era rimasto solo un vecchio e il suo mozzicone di sigaretta. Arrivati dietro la carcassa di un'auto abbandonata i due spostarono un ammasso di arbusti, rami secchi, e poi, al disotto, delle assi di legno e quindi delle lamiere ondulate. Il tutto venne fatto con perizia, attenzione, silenziosamente. Liberato il terreno, uno dei due, dopo aver prelevato un attrezzo di ferro dall'auto, iniziò a scavare, mentre l'altro si guardava intorno con apparente indifferenza. Era terra di riporto mischiata a sabbia e non dovette scavare molto per liberare una scatola di metallo, dove introdusse velocemente degli oggetti prelevandoli dalle sue tasche.
Rannicchiato com'era, la mano faticava a tirar fuori dalla tasca l'ultimo oggetto che scivolandogli di mano cadde a terra dove intercettò tra il fango l'ultimo raggio di luna, svelando il nobile metallo con il suo luccichio intenso. Ingoiando una bestemmia muta, l'ombra lo raccolse, lo pose nella scatola e cacciò questa nel terreno, ricoprendola di terra, lamiere, assi di legno, rami secchi e arbusti.
Il vecchio se n'era andato, le ultime lucciole rosse animavano la brace, una stretta di mano e le due ombre si ritirarono nelle loro baracche. Nella tenda lì accanto, Mirsada e Goran dormivano un sonno profondo.

*****

        “Sciura Pinuccia! Ma cosa fa in giro a quest'ora?” – Nicola incredulo affrettò il passo fino a raggiungerla. Pinuccia, dopo aver abbandonato i giardini di via Grassi ed aver aggirato l'isolato, seguendo quel filo sottile e antico della famigliarità dei luoghi, rientrava verso casa. La luna l'accompagnava, filtrando tra due abbaini del palazzo di fronte. Pinuccia sorrise a Nicola quando lui, presala per mano, le guardò i piedi nudi sull'asfalto.
Cos'è successo sciura Pinuccia?” – pur non ricevendo risposta il sorriso sereno e gentile di lei lo tranquillizzò.
Venga, l'accompagno a casa ” – le offrì il braccio e Pinuccia, come una dama che accoglie l'invito del cavaliere, vi appoggiò la sua mano e lo seguì. Giunti al suo appartamento, soprastante il locale di Nicola, trovarono la porta aperta e la luce accesa, tutto così come Pinuccia l'aveva lasciato quella sera, prima di uscire.
Sciura Pinuccia, adesso proviamo a chiamare suo figlio … “ – lei, col dito scarno e affusolato le indicò la rubrica a fianco del telefono. Nicola guardò l'orologio, erano le tre, non aveva alternative.
Pronto Sergio, sono Nicola, scusami per l'ora ma è per tua madre … no, non spaventarti sta bene …” – tutto d'un fiato spiegò velocemente quanto accaduto e poco dopo Sergio, che abitava lì vicino, li raggiunse.
Ringraziato e congedato Nicola, Sergio accompagnò la madre in bagno, la fece sedere sulla seggiola impagliata, riempì un catino d'acqua tiepida e iniziò a lavarle i piedi.
Cosa è successo mamma? Cosa facevi in giro a quest'ora?”.
Con la mano percorse il viso del figlio, leggera come leggeri erano i suoi piedi che uno alla volta Sergio lavava e poi tergeva.
Al so' mìnga … s'eri drè a durmì … vus, ridàde … al so' no …”.
“Oh no, ancora … ho capito … adesso è tardi andiamo a dormire
”. L'accompagnò a letto e augurandole la buona notte, la baciò sulla fronte. Pinuccia chiuse gli occhi. Sergio prese una coperta dall'armadio e andò a coricarsi sul divano in sala.

*****

        Il cielo era terso e i primi raggi di sole bussavano alle finestre annunciando il nuovo giorno. Isabel aprì la finestra della cucina mentre preparava la colazione. Poco dopo svegliò Alejandro, poi Soledad, per ultima Gheraldina. Il tempo di salutarle con un bacio e il papà era già sulle scale per andare a lavoro come tutte le mattine.
Mamma, ti ricordi che nel pomeriggio vado a casa di Andrea a studiare?” – finita la frase Soledad rispose al telefono che squillava.
Pronto, oh ciao Andrea stavo giusto parlando … ah … capisco … no, non c'è problema … sarà per un'altra volta, salutami tua nonna, ciao.”- posata la cornetta: “Mamma, purtroppo la nonna di Andrea non sta bene e la portano a casa loro per qualche giorno, quindi ha detto che oggi è meglio che non ci vediamo …”.
Abuela Pinuccia? Lo que pasò?”
L'hanno trovata a girovagare per le vie del quartiere questa notte, pare a causa del solito rumore fuori dal locale sotto casa ”.
Oh, pobre, lo siento mucho, y tan querida … “.
Salutata la mamma e la sorellina, Soledad si incamminò verso la scuola. Al sottopasso di via Grassi incontrò Mirsada che iniziava la sua questua quotidiana.
Ciao Mir, come stai?”.
“Bongiorno Soledad, io bene e tu?”.
“Anch'io, e Goran dov'è?” .
“Lui vie centro
”.
Ma no Mir … te l'ho già detto tante volte, lo devi mandare a scuola …”.
Mirsada con il suo grande sorriso annuì con la testa ma il suo pensiero seguiva i binari tracciati dal destino.
Salutandola, Soledad le lasciò un frutto per merenda e iniziò a correre. Più che alla scuola, in realtà, pensava alle sue compagne che l'aspettavano in piazza Cambiaghi ma Alice, Gnima, Irene e Jasmine, non vedendola si erano già incamminate. Le raggiunse poco prima dell'androne della Confalonieri, entrarono così insieme, sovrastate nel loro chiacchiericcio solo dal suono della campanella che dava l'avvio alle lezioni.

*****

        Quando i primi raggi di sole filtrarono dalla finestra della camera da letto, Pinuccia era già sveglia. Poche sono le ore di sonno che le servono per recuperare le energie necessarie, poche quanto il cibo per il desinare. Il corpo leggero, i passi da formica, i movimenti lenti, come lento è il trascorrere della giornata. Non è solo questione di energie, quanto di saggezza che la vecchiaia porta con sé; perché correre sempre? Perché lasciarsi scorrere le cose addosso senza assaporarle, senza, alle volte, nemmeno accorgersene? E poi non manca un pizzico di piacere. Pinuccia, l'aveva riscoperto all'alba dei suoi novant'anni insieme alla parsimonia nei movimenti e la saggezza maturata nel tempo. Per questo sorride alla vita, anche nei momenti difficili; soprattutto nei momenti difficili.
Quella mattina, a piccoli passi, sottobraccio al suo Sergio e a una valigia con le poche cose che servono sempre, si trasferì a casa del figlio, dove l'attendeva la nuora. Sergio e Luisa si presero per l'occasione un giorno di pausa dal lavoro.
E Andrea indue l'è?” – seduta sulla poltrona in sala, Pinuccia chiese del nipote.
E' a scuola mamma. Oggi esce nel pomeriggio. Se te la senti andiamo insieme a prenderlo”.
Va ben”. La giornata passò tranquilla tra una tazza di the, qualche parola, il pranzo, una rivista. Nel pomeriggio, con suo figlio, si incamminò verso la Confalonieri. Nel costeggiare il Lambro, lungo la Passerella dei Mercanti, di fronte a loro un ragazzo inginocchiato su un cartone, chiedeva l'elemosina. Avvicinandosi Pinuccia gli sorrise e lui, allungando ancor più le mani, le chiese dei soldi.
Sa tà fè cusè dei danée?”
“Mangiare!”
“Se l'è per mangià, ta voret un bel panin?
” – il ragazzo annuì sorridendo. Tiratosi in piedi prese la mano tesa di Pinuccia e tutti e tre si incamminarono verso il negozio di kebab, poco più avanti, allo spalto Piodo. Nel breve tratto un'anziana signora, vista la scena, affiancò Pinuccia sussurrandole di non fidarsi: “E' uno zingaro!”. Sarà stato l'accento meridionale, Pinuccia vide davanti a sé il cartello appeso al portone di un palazzo, cinquant'anni prima: “Non si affitta a meridionali!”. Passò qualche frazione di secondo, la guardò dolcemente, e di rimando: “Ta voret un panin anca ti?”. Contrariata, l'anziana signora proseguì borbottando per la sua strada.        
Pinuccia, prima di salutarlo chiese al ragazzo come si chiamasse.
Goran” – egli rispose mentre ritornava con il panino verso il suo cartone.
Nonnaaaaa … “ – appena la vide fuori dalla scuola Andrea le corse incontro abbracciandola. “Ehi raga, c'è mia nonna venite”. Soledad, Tommaso, Alice, Gnima, Nadim, Irene e Jasmine, circondarono la nonna chiedendole come stesse e lei tra una carezza e un sorriso, godette fino in fondo di quel momento di piacere.
Varda che bela gioventù” – pensò.
Nel frattempo Sergio vide arrivare dall'angolo della via il padre di Soledad.
Ciao Alejandro, come và?
Asì, asì … “ – rispose roteando la mano nell'aria.
Si conoscevano fin dai tempi della scuola materna delle figlie, Alejandro sapeva che di Sergio si poteva fidare, gli raccontò quindi del branco della sera prima. Sergio ascoltò, sforzandosi nel trattenere la rabbia: “Alejandro, sappi che ti siamo vicini. Ne parlerò anche con altri amici e domani sera verrò a trovarti in modo che decidiamo cosa fare”. Raggiunsero quindi la nonna con i ragazzi.
Accompagno per un pezzo i miei amici“. Andrea si allontanò con loro, dopo che tutti ebbero salutato nonna Pinuccia. Alejandro li seguì a una certa distanza, la strada verso casa era la stessa. Nadim, Andrea e Tommaso erano presi dall'organizzazione di una partita per la domenica successiva; Alice e Irene discutevano su quale poteva essere la prossima cover da proporre alla loro band; Gnima e Jasmine si davano appuntamento di lì a poco ai giardinetti della stazione; Soledad, messesi le cuffie dell'i-pod, ascoltava le sue canzoni preferite.
Soledad, Soledad … “ – dal fondo della via, Goran agitava le braccia. “Vieni dai, che facciamo un pezzo di strada insieme fino al sottopasso”, gli urlò lei di rimando. Goran corse, nelle tasche tintinnavano le monete della questua. Tutti insieme proseguirono il loro cammino.
Sa l'è cusè chel udur chi?” – Pinuccia domandò al figlio, passando sotto le finestre di un condominio lungo la strada.
Dev'essere cibo indiano … aroma di spezie”.
Indian? Varda ma l'è cambiada Munscia” – ferma sul marciapiede alzò lentamente lo sguardo fino ad incrociare i suoi occhi.
Mamma!?”
Pinuccia sorrise dolcemente: “L'è propri na bela primavera”.

*****


Finito di scrivere il racconto, dopo qualche giorno, mi è giunta la notizia della morte di Pinuccia. Raggiunti i novantacinque anni di età, attendeva la morte ed era pronta ad accoglierla. Nella notte, prima di andarsene, ha voluto chiamare a se i suoi figli per salutarli un'ultima volta. Voglio qui ricordarla com'era quella prima volta in cui l'ho incontrata: avvolta dalla luna.

Il racconto è stato premiato il 12 novembre 2010 – a pari merito fra i primi tre – al 4° concorso letterario “Storia e storie della Brianza” indetto dall'Associazione Mazziniana Italiana onlus - sezione Monza e Brianza, insieme al Comune di Monza e la Provincia di Monza e Brianza.

Al ritiro del premio questa è stata la mia dedica: “Dopo aver letto su il Cittadino della scorsa settimana: “Caschi, scudi, manganelli: è l'attrezzatura con cui la Polizia provinciale si prepara a respingere eventuali arrivi in massa di rom provenienti da Milano”; e poi ancora, su un quotidiano nazionale, il Giornale, a caratteri cubitali: “Ora possiamo cacciare i rom”. Dedico questo mio premio e tutta la mia solidarietà al popolo rom”.


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  24 novembre 2010