prima pagina pagina precedente





Monza e la “giornata del ricordo”
Una lunga cronaca che aiuta a riflettere
di Umberto De Pace


Ho partecipato all'iniziativa organizzata dall'amministrazione comunale il 10 febbraio alla Sala Maddalena, per la “giornata del ricordo”, sulla tragedia delle foibe e degli esuli della Dalmazia, di Fiume e dell'Istria.
L'aspettativa era quella di partecipare ad una serata di approfondimento sul tema, con testimonianza e riflessioni e quella di capire se a circa 60 anni dai fatti, si fossero in parte lenite le ferite e le lacerazioni provocate da quel dramma, e se in qualche modo ci si fosse affrancati dallo scontro ideologico che per decenni è stato il principale (anche se non il solo) ostacolo, all'affermarsi di una ricostruzione seria e rigorosa di quanto accaduto in quegli anni.
Al mio arrivo fuori dalla sala dell'incontro, alcuni giovani distribuiscono un volantino. Lo prendo e mi accorgo che è lo stesso testo di un manifesto, che avevo già avuto modo di vedere nei giorni precedenti sui muri della città. Il testo a caratteri cubitali riportava: “Un urlo, uno schianto, 60 anni di silenzio, le foibe, 10.000 Italiani uccisi dai partigiani comunisti Jugoslavi, da non dimenticare”, firmato “Associazione Culturale Lorien - Monza”.
Entro e prendo posto all'inizio di una delle file centrali, dove poco dopo, prima dell'inizio della proiezione del filmato, si viene a sedere un signore robusto e barbuto.

L'assessore Paolo Pilotto introduce la serata, comunicando tra l'altro, cosa interessante, che anche nelle scuole sono previste iniziative di sensibilizzazione sul tema e che il Comune ha donato ad ogni libreria scolastica tre libri sull'argomento.
Dopodiché la proiezione del filmato; un vecchio Dossier del TG2 del 1995, in cui pesavano a mio parere tutti gli 11 anni di “vecchiaia”, ma che a quanto pare, mi diceva a fine serata l'assessore Annalisa Bemporad, rappresentava quanto di meglio si era riusciti a trovare sul tema.
Nel corso della proiezione cruda e drammatica, dal cui insieme usciva comunque una visione ampia e documentata della tragedia, alle volte dei borbottii provenivano dal mio vicino, tant'è che a un certo punto gli chiedo un po' più di silenzio; tempo un attimo, una sedia con i cappotti ci divideva, sporgendosi verso di me, mi rimbrottava, in quello che in seguito scopro essere dialetto istriano, dicendomi “che lui è di Pola e qualche commento se lo può pure permettere”.
Incasso, comprendo e tempo un attimo gli dico che “se è così ha diritto di dire tutto ciò che vuole!”.
In effetti scopro poi in seguito che altre persone presenti (molte le persone anziane sui circa 100 presenti), sono profughi di quelle terre, in quanto Monza ai tempi dell'esodo fu sede di uno dei tanti campi profughi che furono approntati per loro.
Devo essere sincero, è da più di 25 anni che vivo a Monza ed è la prima volta che vengo a conoscenza di tale fatto, che a quanto pare è sfuggito anche a qualche monzese doc visto che sentiti, alcuni conoscenti autoctoni, non sapevano dirmi più di tanto, se non di un vago ricordo di un campo profughi.

Nel frattempo il mio vicino, appena finito l'intervento del relatore Paolo Sandrini, che con tono mite di “uomo di una volta”, ci ha raccontato la sua esperienza di ragazzino profugo da Fiume, irrompe sulla scena chiedendo di parlare.
In realtà il suo è stato il primo intervento della serata da parte del pubblico e debbo dire che ha ottenuto l'obbiettivo che si prefiggeva, e cioè quello di “rompere l'atmosfera ovattata” della serata, contrapponendo al sorriso mite del relatore, il muso duro dell'istriano arrabbiato.
Rivolgendosi al relatore in dialetto fitto, fitto (ma in fondo quasi del tutto comprensibile), l'avvocato di Pola, apre in modo virulento le ferite mai lenite, provocate dall'esodo forzato dalla sua terra. Come un fiume in piena abbatte gli “argini” storici, politici, nazionali che a suo dire in modo improprio trasparivano dal documentario, inficiando quella che era la verità di quanto accaduto e che cioè, i “drusi” ( e qui non ho capito bene se si riferiva ai partigiani titini o agli slavi in modo indistinto), con la complicità dei partigiani comunisti di quelle zone, fecero strage degli italiani e li cacciarono dalle loro terre. In un crescendo di rabbia, definisce gli slavi tutti quali “bestie”, tesi che verrebbe confermata dai tragici avvenimenti svoltisi nella ex Jugoslavia negli anni '90. Conclude il nostro, dicendo che gli unici italiani impegnati a difenderli furono quelli della X MAS!
L'obbiettivo è raggiunto, l'atmosfera “ovattata” è infranta e un sostenuto applauso da buona parte della platea suggella l'evento.

Alzandomi lascio che l'avvocato di Pola, riprenda il suo posto al mio fianco.
A quel punto mentre l'assessore Pilotto, ricordava che è inaccettabile qualificare come “bestie” un intero popolo, il sottoscritto alzava il braccio, chiedendo di intervenire , perché in fondo non avevo molte possibilità , o me ne andavo con una profonda pena e squallore dentro oppure accettavo quella che spero fosse veramente una “provocazione”, pur brutale.
Concessami la parola, mi avvicino al microfono e una volta presentatomi, come giustamente aveva gentilmente richiesto di fare a tutti l'assessore Pilotto, spiego che intervengo mio malgrado, spinto da quanto sentito nell'intervento che mi aveva preceduto, raccogliendo l'invito ad andare oltre le “frasi di circostanza” per entrare nel “vivo” della questione.
Rivolgendomi direttamente alla sala, accenno alle aspettative che avevo della serata, rammaricandomi di dover constatare invece che forse siamo ancora lontani da esse.
Accenno al lavoro di ricostruzione storica sugli avvenimenti oggetto della serata, che per quanto mi risulta risale alla fine degli anni '80. Ricordo che è nel 1993 che viene istituita dai ministeri degli esteri italiano e sloveno, una commissione bilaterale che ha visto congiuntamente al lavoro 14 storici, i quali nel luglio 2000, hanno presentato il loro rapporto, che ha saputo delineare il contesto storico nel quale collocare tali avvenimenti.
Purtroppo però, debbo constatare che qualcuno, invece che partire dalla ricerca di una base storica comune, usando toni degni dello scontro politico degli anni del dopoguerra, fomenta ancora oggi quello scontro ideologico che ha per anni contribuito a bloccare qualsiasi iniziativa sul tema.

ricordo

Spiego chiaramente alla sala, che il mio riferimento è al volantino distribuito per l'occasione dall' “Associazione Lorien”. A quel punto aggiungo che tale associazione, che mi sembra di aver capito visitando il loro sito su internet, appartenga alla destra radicale, non è nuova all'uso provocatorio, anzi mistificatore delle parole. Difatti è dell'ottobre scorso un'iniziativa indetta da Lorien (insieme ad altre associazioni), intitolata “Da El-Alamein a Nassirya. Per la Patria e per la pace.”. Come si può accostare la parola El-Alamein alla parola Pace? Con quale acrobazia logica si può arrivare a tanto?
Avrei voluto continuare con altri accenni a questo filo “mistificatore”, a questo tentativo di piegare la storia alle proprie convenienze politiche che attraversa in questo ultimo periodo proprio la nostra città. Avrei voluto ricordare, che Indro Montanelli, il quale nel corso del filmato accennava alle accuse a suo dire infondate sui comportamenti razzisti del fascismo in terra d'Africa, che l'anno successivo al filmato lo stesso Montanelli chiedeva pubblicamente scusa allo storico Angelo Del Boca, per avere negato per anni l'utilizzo delle armi chimiche in Africa da parte dei fascisti; utilizzo che il Del Boca aveva già allora ampiamente dimostrato.
Ci consoliamo, in fondo però non erano razzisti!

La cosa più grave però, è che ancora oggi (seduta del consiglio comunale del 25 ottobre 2005), qui a Monza, il capogruppo di Alleanza Nazionale, proprio facendo riferimento al convegno su El-Alamein e Nassirya, in modo vergognoso e inqualificabile ricordava l'emancipazione dell'Etiopia condotta dal primo ministro Benito Mussolini.

Riprendo quindi il discorso rivolgendomi all'avvocato di Pola, ricordandogli che sarà sicuramente vero che la X MAS abbia difeso lui ed altri in quelle terre, ma che la stessa “banda di assassini aveva ucciso centinaia, migliaia di persone nel resto del paese e che questo non poteva essere dimenticato”.
L'avvocato di Pola a quel punto prende la porta ed abbandona la sala.
Forse la mia affermazione peccava anch'essa di una eccessiva semplificazione e seguiva la china della “provocazione” dell'istriano di poco prima e forse anche i “toni” da 1948 del volantino già più volte citato.
Una caduta di stile, pur circoscritta e pacata. Mi consolo pensando che in fondo, non ho iniziato io. Concludo dicendo che la storia la facciamo noi, ma lasciamola scrivere agli storici, e che compito di ognuno di noi è quello di cercare di trasmettere ai nostri figli e nipoti, una lettura della storia il più possibile separata da letture ideologiche e interpretazioni di parte, nella sua complessità.
Dicendo questo non voglio sminuire l'importanza delle testimonianze dirette, ma sottolineare come il testimone racconti una sua personale vicenda, che è unica e soggettiva e pertanto non può essere assunta come generale. Come qualcuno ha già scritto “il rigore storico deve accompagnare il valore delle testimonianze dirette”.
Un certo numero di applausi alla fine del mio intervento, devo dire inaspettati, mi fanno pensare che forse non ero il solo a non essere d'accordo con i toni dell'avvocato di Pola e del volantino quarantottino.

Seguono quindi altre due testimonianze di esuli, delle quali mi colpisce in particolare il fatto che la memoria del trattamento da loro ricevuto all'epoca, si traduca oggi in una recriminazione verso il trattamento a loro dire “privilegiato” riservato agli zingari e agli extracomunitari oggi.
Verrebbe naturale pensare il contrario. Attendersi cioè una maggiore comprensione. Forse la ferita e la sofferenza di un tempo, sono state così profonde da aver reso sterile l'animo.
Anche queste due testimonianze, confermano questo sentirsi come “corpi estranei” alla città che li ospitava, già riportato dal relatore.
Sarebbe interessante saperne di più su questo aspetto della vicenda, magari anche senza aspettare la ricorrenza del prossimo anno, oppure proprio per allora. Visto che si parla tanto di memoria, cosa ricordano i monzesi di quella vicenda? Quale è stato il livello di coinvolgimento della popolazione locale? Quali erano i sentimenti verso i profughi? E tante altre questioni che forse ci porterebbero a capire meglio anche i sentimenti di oggi e di ieri di alcuni di questi (ex) profughi, verso chi sta vivendo oggi una condizione in parte simile alla loro.

Tra le due testimonianze riportate il presidente della Lorien, intervenendo per “fatto personale” e riferendosi più volte “al compagno che mi ha preceduto”, sottopone alla sala il suo volantino, chiedendo cosa c'era di non vero in quello scritto; e che anzi gli unici appunti avuti su quel testo nei giorni precedenti erano che il numero delle vittime era sottostimato e che per identificare i carnefici bastava definirli partigiani comunisti, senza specificarne la nazionalità.
La cosa che mi ha stupito è che, dopo aver anche chiarito che Lorien un'associazione che si occupa di musica (sic); che non appartiene alla destra radicale (ne prendo atto visto che ho capito male); che il convegno di ottobre si è occupato di …. etc., etc., non ha detto nulla sul tema della serata. Strano! Eppure se non sbaglio quel signore, a suo dire, era anche presidente di una associazione legata alle terre di confine. Forse era lì per altro.

Per ultimo l'intervento di un triestino, che si definisce esempio della “par-condicio” , visto che una sua zia è stata uccisa nella risiera di San Sabba, unico esempio di lager nazista in Italia, e un suo cugino invece nelle foibe. Il suo intervento mette finalmente in luce una ricostruzione storica complessiva di quel periodo, con l'instaurazione della dittatura fascista, la guerra dichiarata dal nazi-fascismo contro il resto del mondo, l'italianizzazione forzata e le repressioni, le deportazioni e i massacri perpetrati dal regime fascista in quelle terre di confine; i massacri, le deportazioni delle formazioni partigiane jugoslave verso gli italiani e chiunque potesse eventualmente opporsi alle mire territoriali jugoslave che comportavano l'annessione dell'intera Venezia Giulia.

Allora non ero l'unico a pensare che se memoria ci deve essere, per tragedie come quella delle foibe, dell'esodo dalle terre di confine (come per qualsiasi tragedia che veda coinvolti esseri umani di qualsiasi nazionalità), occorre comprendere fino in fondo quali sono state le cause, il contesto storico, le motivazioni, le parti coinvolte, senza cedere a semplificazioni o ancor peggio a strumentalizzazioni di parte.
Questo perché lo scopo che ci deve accomunare è quello di fare in modo che tutto ciò non si ripeta più e che le generazioni future facciano tesoro della storia passata, quale monito lungo il loro cammino.

Leggevo giorni fa su “il Cittadino”, un articolo in cui Azione Giovani (suppongo che siano i giovani di Alleanza Nazionale) oltre a sostenere la richiesta di indire un concorso nelle scuole sulla tragedia delle foibe, donava quale possibile premio il libro di un proprio militante sul tema, dichiarando “vogliamo proporlo come verità storica ora che lo scontro tra le ideologie è superato”.
Ecco è proprio di ciò che dobbiamo diffidare, delle “verità storiche”, sopratutto quando giungono da persone che militano in una qualsiasi organizzazione politica.
Così come dobbiamo contrastare, anche di fronte a uno sfogo di una persona che ne ha sofferto, le generalizzazioni, le semplificazioni, le demonizzazioni dell'altro. Gli altri non sono “bestie”.
“Se fosse così semplice! se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del suo cuore? Nel corso della vita di un cuore quella linea si sposta, ora sospinta dal gioioso male, ora liberando il posto per il bene che fiorisce. Il medesimo uomo diventa, in età differenti, in differenti situazioni, completamente un'altra persona. Ora è vicino al diavolo, ora al santo. Ma il suo nome non cambia e noi gli ascriviamo tutto.” Così Solzenicyn nel suo “Arcipelago Gulag”.

La serata era conclusa.
Mi alzo per vestirmi e nel frattempo alcune persone mi si avvicinano, chi per complimentarsi con il mio intervento, chi per scambiare una e-mail e per risentirci. Tra essi il presidente della circoscrizione, il quale invece mi dice che voleva rispondere a quanto da me riportato su una mia lettera inviata tempo addietro a “il Cittadino” in merito al convegno già citato “Da El-Alamein a Nassirya”, nella quale mi chiedevo , dato che l'iniziativa era patrocinata dalla Circoscrizione 2, se aveva aderito tutto il Consiglio. La sua risposta è stata sì e che non dovevo a suo dire, pensare a strumentalizzazioni da parte di nessuno dietro quella che secondo lui è stata una bella iniziativa. Non faccio in tempo a ringraziare della gentile risposta e quindi dire la mia in merito, che un anziano signore, ponendosi di fronte a me, mi dice molto pacatamente, ma con fermezza: “allora saremmo degli assassini, che hanno ucciso centomila persone”, rispondo “mi scusi, ma non capisco”, e lui “sì perché io ero della X MAS, saremmo allora tutti degli assassini”. Più chiaro di così , “bella roba“ rispondo “comunque non ho parlato di centomila morti ma di centinaia, migliaia di morti e che se non li avete fatti voi della X MAS, qualcun altro ci ha pensato pur sempre della vostra parte”.
Preso dalla discussione con l'anziano signore, mi accingo in sua compagnia ad abbandonare la sala, che vista l'ora tarda stava chiudendo. Continuo la discussione con il vecchio combattente lungo la strada, mentre un ultimo signore passa a complimentarsi per il mio intervento prima di andare a casa.
“Guardi che da entrambi le parti se sono fatte di tutti i colori” prosegue nel frattempo il mio interlocutore “ ma le giuro che io e i miei commilitoni non abbiamo mai sparato su chi aveva le mani alzate. Ho ucciso sì, ma sempre in combattimento”.
Rispondo che per quanto mi riguarda“…non ho dovuto aspettare il libro di Pansa per sapere che anche alcuni partigiani hanno commesso delle nefandezze, mio padre me lo diceva già quando io ancora adolescente ascoltavo i suoi racconti della guerra. Ma ciò non cambia di una virgola il fatto che lei caro signore era dalla parte sbagliata, mentre dall'altra parte pur fra mille difficoltà, errori, tragedie si era dalla parte giusta, dalla parte che ci ha dato la libertà di cui oggi noi godiamo”.
Fra le tante cose che ci siamo detti, ricordo le vicissitudini legate alla sua salvezza dalle vendette del dopoguerra, una delle tante storie di umanità solidale che per fortuna resistono anche agli scontri più duri; oppure il suo ricordo della prima volta che seppe, finita la guerra , dei lager nazisti e si mise a piangere.
Parlando ci guardiamo negli occhi, uno di fronte all'altro. Non ho dubbi sulla sua sincerità. Mi faccio dare il suo numero di telefono e gli prometto che leggerò qualcosa sulla sua unità militare e che lo chiamerò per scambiare qualche parola ancora insieme.
In fondo, penso, non è stata una brutta serata.

P.S.: leggo oggi quanto riportato dai giornali locali sulla serata in oggetto. Mi viene da pensare che è la Monza di sempre. Ieri accoglieva con ostilità e diffidenza i profughi e oggi fa finta di niente, tanto in fondo una ricorrenza è lunga un giorno. Spero tanto di sbagliarmi. Dobbiamo fare in modo che non sia così.

Umberto De Pace


in su pagina precedente

  18 febbraio 2006