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Paolo Branca a Monza per Novaluna
Giuseppe Pizzi


Paolo Branca
Paolo Branca

Diavolo d'un professore, ci ha spiazzato.
Da lui, che insegna lingua e letteratura araba e islamistica all'Università, ci aspettavamo una dotta e documentata relazione su quella invisibile ma impenetrabile “linea di confine” che separa noi, che ci diciamo italiani per diritto ereditario -- chissà quanto propriamente perché, a forza di invasioni straniere, le torme vacanziere di oggi probabilmente più contaminanti degli eserciti d'occupazione di ieri, siamo un po' tutti bastardi -- e gli altri, i milioni di uomini e di donne che qui sono venuti a vivere e lavorare, e hanno messo su casa e famiglia, e hanno generato figli cui l'esser nati cresciuti ed educati in Italia non basta per essere italiani, e restano sempre immigrati, “immigrati di seconda generazione”.

Ma Paolo Branca non ha perso tempo a disquisire dello jus sanguinis e dello jus soli, ci ha introdotti alle difficoltà, alle diffidenze e alle ipocrisie in cui versa la condizione dell'immigrato, specificamente l'immigrato di origine arabo-muulmana, e subito dopo ha ceduto il ruolo di protagonisti della serata ai due giovani che sedevano accanto a lui.

Lubna e Akram
Lubna Ammoune e Akram Idries

Una donna e un uomo, lei Lubna, 21 anni, ascendenze siriane, nata a Milano, studentessa di Farmacia, con un viso di composta dolcezza incorniciato dal velo (una sua recente libera decisione, non un'imposizione della famiglia, le sue due sorelle vanno a capo scoperto); lui Akram, 26 anni, padre sudanese madre egiziana, nato al Cairo ma arrivato in Italia quando ancora era lattante, laureando in Ingegneria, con una trionfante chioma crespa e nera a mo' di corona su un volto nobilmente affilato.

Ci hanno parlato di loro stessi, della loro eterogenea identità, del marchio di diversità che li distingue, della eccezionale normalità che è propria dei ragazzi italiani di origine arabo-musulmana. Il loro linguaggio era fervido e insieme misurato, il tono mai lamentoso o Lubna Ammoune acrimonioso e il loro italiano fluido e sicuro, senza gli ehm, i cioè, i
diciamo che, e le mille interiezioni, pause, ripetizioni, sospensioni e sincopi che frastagliano l'eloquio dei giovani di oggi (come anche di quelli di ieri). Raccontavano storie di vita vissuta nel difficile ruolo di mediazione fra l'ancoraggio affettivo alla famiglia e l'adesione ai comportamenti tipici della società secolare in cui sono nati e cresciuti. Un processo di definizione della propria identità che non è difficile immaginare come una faticosa, estenuante ricerca del compromesso e della sintesi fra le diverse, talvolta opposte sollecitazioni provenienti dalle due culture.

Renato Salvatori e Alain Delon
Renato Salvatori e Alain Delon

Le cronache di ogni giorno ci dicono, talora con la descrizione di fatti raccapriccianti, che non tutti ce la fanno, che per alcuni diventare italiani può risultare impossibile, così come è stato impossibile per Simone, il fratello interpretato da Renato Salvatori nell'indimenticabile capolavoro di Visconti “Rocco e i suoi fratelli”, sopravvivere allo sradicamento causato dall'emigrazione e alla disgregazione del microcosmo familiare conseguente all'inurbamento per diventare un italiano unitario.
Ma i più superano la prova e diventano Lubna, diventano Akram. E Lubna e Akram, basta vederli e ascoltarli per riconoscerli come nostri concittadini, per capire che sono italiani con qualcosa in più, non con qualcosa in meno degli altri, e che è un imperdonabile errore continuare a tenerli confinati nel ghetto degli “immigrati di seconda generazione”.

Giuseppe Pizzi

Le conferenze del ciclo LINEE DI CONFINE:

– Immigrati: seconda generazione – Paolo Branca – giovedì 15 ottobre 2009
– L'Afganistan dopo loe elezioni – Barbara Schiavulli – giovedì 29 ottobre 2009
– Confini geopolitici della ricerca scientifica – Pietro Greco – giovedì 12 novembre 2009
– Testimonianze dal confine orientale – Boris Pahor – giovedì 26 novembre 2009


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  19 ottobre 2009