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Opera universale?
Sul romanzo “il Cavallo Rosso” di Eugenio Corti
Umberto De Pace


Il mondo non si esaurisce nell'immediata apparenza – sostiene giustamente Paola Scaglione, biografa di Eugenio Corti, in risposta alla mia lettera – né, aggiungerei, in ciò che si vorrebbe far apparire; il mondo, va da sé, è ampio e articolato. E' un mondo in cui per un credente “l'arte indirizza a Dio” e per un non credente l'arte può racchiudere in sé l'essenza dell'essere umano, ma anche queste due definizioni sono solo una parte di tante altre che si potrebbero aggiungere.
L'arte è anche “l'universale nel particolare” – ci ricorda sempre Paola Scaglione, riprendendo le parole di Manno, uno dei protagonisti de il Cavallo Rosso – sostenendo che quello descritto da Corti è “un mondo in cui l'universale si fa evidenza tangibile di rara suggestione. E conduce naturalmente a Dio… perché – come ricorda l'origine greca del termine – “cattolico” vale appunto “universale” “.
Al di là dell'etimologia delle parole, guardando al loro significato, penso che l'universalità del verbo cattolico, che dalla specificità della propria confessione cristiana ispira il suo magistero a principi di universalità, sia altra cosa dall'universalità di quella letteratura che si eleva al di sopra delle parti, delle confessioni e delle ideologie e che riguarda l'umanità intera, valida per tutti gli esseri umani. Universale è quel messaggio, quel segno, quella voce – alle volte inconsapevole essa stessa del suo destino – che si diffonde, suscitando sentimenti, emozioni, pensieri, ragionamenti, radicandosi nei cuori e nelle menti di moltitudini di persone.
Quell'universalità del messaggio, che a mio modo di vedere, traspare nell'incontro casuale che Mario Rigoni Stern, in “Il Sergente sulla Neve”, ha con un drappello di soldati russi all'interno dell'isba: “Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria.” – e che gli fa dire: “Cosi è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev'esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell'isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un'armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.”
Un esempio di messaggio universale che non ritrovo in alcuna parte del romanzo di Eugenio Corti, dove i rapporti con il nemico, con l'altro, sono sempre “filtrati” e “misurati” attraverso le lenti della fede e/o dell'ideologia. Pur riconoscendo che la parte del romanzo dedicata alla ritirata di Russia, ne rappresenta la sua punta epica, come ho già avuto modo di affermare.
Se Corti nel suo descrivere “non può staccarsi da una prospettiva trascendente” – come sostiene la sua biografa – mi chiedo se sia la mia “prospettiva immanente” a portarmi a percepire quali troppo “leggère” alcune descrizioni dell'autore: “In estate giunse dalla parte opposta, da est, un convoglio di prigionieri giapponesi, e con essi la notizia di quella straordinaria arma nuova, la bomba atomica, fatta, esplodere dagli americani prima a Hiroscima poi a Nagasachi: era stata quella - affermavano i piccoli, tuttora ordinati soldati di levante - la vera causa della resa del Giappone.

bomba atomica

I giornali russi non avevano dato rilievo all'arma atomica, ma i commissari - subito interrogati in proposito dagli italiani - si videro costretti a riconoscerne l'importanza, che più d'uno di loro scoprì appunto nell'esame che ne dovette fare. La loro mortificazione per il fatto di non possederla era evidente, i commenti dei prigionieri finirono con l'incentrarsi su tale mortificazione, e sulla gran novità (per loro) dell'evidente potenza bellica americana; la cosa in pratica finì lì.
Non però per Michele, il quale ponderando tra sé la sbalorditiva novità, si ritrovava intimamente assai turbato. "Se la scristianizzazione continua, eccolo già trovato il mezzo per le future stragi massali" si diceva. Gli tornava in mente la situazione precristiana, la realtà feroce del tempo pagano, certe pagine del 'De bello gallico' di Cesare
per esempio: "In Gallia i romani hanno eliminato in pochi anni forse due milioni di persone, più della metà degli abitanti del paese... E se non l'avessero fatto loro, l'avrebbero fatto i germani, che erano già quasi pronti. Anche i galli del resto avevano pochi secoli prima tolto di mezzo allo stesso modo i precedenti abitatori..." Né in Oriente, stando alla Bibbia, le cose andavano in modo diverso. "Ecco la realtà cui, continuando così, il mondo sta per tornare. Adesso però è troppo più popolato, occorrono quindi altri mezzi di sterminio: ed eccoli." Nella sua immaginazione sempre fervida, gli pareva a momenti di vedere le colonne delle esplosioni atomiche percorrere
impetuosamente l'uno o l'altro settore del globo "spazzandolo come scope di fuoco".
Padre Turla, cui egli partecipò le sue preoccupazioni, lo guardava in faccia con occhi esausti. « Lascia che arriviamo a casa noi » borbottava « è vedrai che, in Italia almeno, di scristianizzazione non se ne parla per un pezzo. »
« Sì, è proprio in questo che noi ci dobbiamo impegnare » affermava con stanchezza Michele: « sarà questo il nostro compito. »
Nelle settimane seguenti ebbe modo di constatare come gli uomini - persino i suoi compagni di prigionia, che avevano una così straordinaria esperienza di sofferenze – fossero disposti ad accettare nel loro mondo l'arma atomica. Rappresentava o no quell'arma un freno per i comunisti? Sì, per un certo tempo probabilmente essa avrebbe trattenuto gli eserciti rossi dal rovesciarsi sul mondo libero. Che fosse dunque la benvenuta.”
Nel leggere questo passo mi è venuto in mente un articolo di Kenzaburo Oe – premio Nobel per la letteratura nel 1994 – per il quale quell'indicibile atto, da una parte, ha suscitato in lui il bisogno impellente di diventare scrittore e dall'altra ha generato l'ossessione di tutta la sua vita per non averlo mai saputo o potuto descrivere.
E' la stessa “leggerezza” con la quale nel romanzo viene “sfiorato” il fascismo, un regime dittatoriale che al carro del nazismo condusse al più grande conflitto di tutti i tempi: la seconda guerra mondiale. “Leggerezza” che a quanto pare condivide lo stesso Francesco Righetti – presidente dell'Associazione culturale internazionale Eugenio Corti – quando testimonia, nella replica al mio intervento, la condanna di Corti della violenza comunista e nazista, senza mai citare quella fascista. Quando Righetti afferma che “non è possibile restare indifferenti davanti alle centinaia di milioni di cadaveri che il comunismo ha sparso per il mondo in nome della libertà e della lotta di classe”, conferma la lettura ideologica della storia così profondamente radicata ne il Cavallo Rosso, una lettura che sinceramente non mi appassiona, così come d'altro canto quella, che le fa da contraltare, della bestia feroce e sanguinaria del capitalismo planetario.
Trovo molto più interessante, a tal proposito, quanto scrisse Maria Cristina Bartolomei, teologa e filosofa, sul mensile “Jesus” in occasione del 90° anniversario della rivoluzione d'ottobre in Russia: “ C'è chi si è compiaciuto di redigere il "libro nero" delle vittime del comunismo: azione, come minimo, incauta. Altri potrebbe infatti redigere il libro nerissimo delle vittime del capitalismo, che non sono finite e comprendono non solo i miserabili del Sud del mondo sfruttati dalle multinazionali e in mille altri modi, ma anche i bambini cui negli USA oggi viene negata assistenza sanitaria gratuita. Dall'alba del capitalismo, quanti milioni sono morti di stenti, fame, fatica, guerre fatte per motivi economici, quante vite sono schiacciate dall'unico criterio del profitto? E qualcuno potrebbe addirittura scrivere un. libro nero del cristianesimo "reale": un libro di persecuzioni e violenze; di repressioni; di inadempienze, ritardi, cecità nel cogliere i bisogni del mondo. Ci ribelleremmo, e con ragione; un ideale non si misura solo dai modi devianti in cui viene realizzato, dai tradimenti dei suoi portatori: un criterio che abbiamo il dovere morale di applicare anche nel caso del comunismo.”
Come consigliatomi da Francesco Righetti ho riletto il brano dell'incontro tra Alma Riva e Michele Tintori, brano che ha contribuito ad accrescere il suo affetto per la ragazza che è poi diventata sua moglie. L'ho riletto e che dire … se non ribadire che la figura della donna, della sessualità, dell'amore, così come descritti da Corti, più che definirli, con discrezione, disarmanti, non saprei cosa aggiungere. Se questi brani hanno contribuito a consolidare in alcuni il loro amore – cosa della quale ne sono lieto – il semplice accenno fattone a mia moglie di tale prosa l'indusse a suggerirmi, con sollecitudine, di cambiare letture, consigliandomi il romanzo storico di Isabel Allende “Ines dell'anima mia”. Il romanzo della Allende mi ha affascinato e coinvolto nella lettura, facendomi gioire e soffrire, ma soprattutto mi ha confermato che in questo piccolo, grande mondo, in cui viviamo, non mancherà mai chi saprà in ogni momento e in ogni luogo, far vibrare le corde di un comune sentire, attraverso semplici parole scritte o parlate, corde e parole che non per tutti sono uguali. Subito dopo ho letto “Guerra e Pace” di Lev Toltstoj che ho apprezzato, nel quale non mi inoltro se non per segnalare l'impressionante similitudine, formale, di struttura e impostazione, che il Cavallo Rosso ricalca.
Comunque sia dopo i vari interventi letti su il Cittadino e l'Arengario, dopo le lettere, pubbliche e private ricevute, non posso che trovare conferma alla mia affermazione iniziale, che quello di Corti è un romanzo – storico, politico, ideologico, autobiografico, per certi versi propagandistico e con un forte radicamento territoriale – che induce ad uno “schieramento delle coscienze” e che il suo linguaggio più che universale, a mio modo di vedere, è alquanto confessionale.
Concludo qui ringraziando innanzitutto Eugenio Corti per il suo romanzo che ha sollecitato in me tutte queste riflessioni, nonché per avermi accompagnato alla lettura di “Guerra e Pace” che da anni attendeva il momento, in bella vista nella mia libreria; ringrazio inoltre il Cittadino per aver pubblicato la mia lettera, dopo l'incontro chiarificatore, ma soprattutto di conoscenza diretta, avuto con Antonello Sanvito; ringrazio tutte le persone che hanno voluto scambiare con me il loro parere, nella comune convinzione, penso e spero, che solo attraverso il confronto di idee e di pensieri si possa rendere migliore il mondo in cui viviamo.

Un grazie e un cordiale saluto a tutti
Umberto De Pace

Gli articoli precedenti:
Il Cavallo Rosso - Il romanzo di Eugenio Corti
Il militante manicheo - Sul romanzo di Eugenio Corti
Il fascismo “sostenibile” - Sul romanzo di Eugenio Corti
L'orrore nei lager sovietici - Sul romanzo di Eugenio Corti



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  11 dicembre 2010