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I Fumetti della Memoria
scenari di sterminio
Anna Marini


La Galleria Civica di Monza ospita dal 23 gennaio fino al 21 febbraio la mostra dedicata a “I Fumetti della Memoria”, offrendo ai visitatori tavole tratte da tre celebri opere che interrogano sulle possibili espressioni del linguaggio polisemico del graphic novel. All'interno di un unico spazio espositivo vengono trattate importanti tematiche dei “momenti” salienti nella Storia moderna del popolo ebraico: dalla fabbricazione dell'odio antisemita, allo sterminio nazista, affrontata nella dimensione della memoria, fino alle drammatiche vicende dello scontro israelo-palestinese. Molto discutibile l'aver accostato due fumetti relativi alla Shoah, lo sterminio del popolo ebraico, di cui si celebrava in quei giorni la memoria, con quello relativo alla strage di Sabra e Shatila, gravissima ma certamente non comparabile.



La complessa vicenda dei Protocolli dei Savi di Sion, il grande falso, forse l'archetipo delle teorie complottistiche, che attribuisce agli ebrei la volontà di tessere oscure e potentissime trame per il controllo e il dominio del mondo, si articola dalla nascita fino ai giorni nostri in una forma artistica inedita per gli avvenimenti storici: il fumetto. Un'espressione che in precedenza era impiegata esclusivamente nella narrazione di storie, affronta in questa occasione l'inganno drammatico che per secoli ha animato e tentato di giustificare l'odio antisemita, dando alla luce un racconto documentaristico. “Il complotto” di Will Eisner ripercorre le fasi principali del falso documento, fabbricato dai servizi segreti russi sul modello dell'accusa mossa a Napoleone III da Maurice Joly nel suo celebre “Dialoghi agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu”.
La necessità di trovare attraverso i decenni un capro espiatorio e soprattutto di legittimare politiche di esclusione e persecuzione ai danni del popolo ebraico, anche nella piena consapevolezza delle menzogne alla base di teorie accettate e trasmesse come veritiere, mette a dura prova la fiducia di chi vuole credere nella razionalità e nella buona fede dell'uomo. Il grapic novel, un genere dalla fruizione snella ed efficace, diviene così la dimensione per trattare forse il più affascinante paradosso della follia umana, ad uso e consumo di un pubblico anagraficamente eterogeneo e non esclusivamente giovane. La condizione dell'autore, quale figlio di genitori divenuti emigrati per sfuggire alla persecuzione razziale, diventa fattore ispiratore di un'opera sperimentale dalla grande valenza artistica.



Un'opera autobiografica, narrata con la tecnica del fumetto ed incentrata sul tema drammatico della Shoah, vissuto da una coppia di ebrei polacchi, è il romanzo “Maus” di Artie Spiegelman. Le memorie dell'Olocausto, ricordate da Vladek Spiegelman per volere del figlio Artie, intenzionato a tramandarne la testimonianza, si intrecciano con il complesso confronto generazionale che si instaura tra un genitore, sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz, e il figlio, cresciuto negli Stati Uniti degli anni Sessanta. Tratto caratteristico dell'opera è l'interpretazione dei personaggi, affidata al mondo animale, in una sorta di metafora e di rispettosissima parodia. Il rapporto vittima-carnefice tra i nazisti e il popolo ebraico viene risolto dalla contrapposizione topo-gatto; nelle rane vengono identificati i francesi, nei maiali i polacchi e nei cani gli americani.
L'originalità dell'opera, unitamente alle difficoltà tecniche incontrate nella sua realizzazione, suscita nello stesso autore comprensibili dubbi, che vengono espressi all'interno del romanzo: la possibile mancanza di rispetto nei confronti delle vittime dell'Olocausto interrogano Artie Spiegelman circa l'appropriatezza di un'opera tanto sui generis. Il senso di inadeguatezza, percepito da Artie nel confrontarsi con il vissuto del padre, viene affrontato alla fine del testo, quando l'autore sperimenta pienamente il significato di essere figlio di un deportato: testimonia così le profonde ripercussioni della persecuzione razziale anche sulla generazione futura a quella segnata dall'orrore dello sterminio.



Una strage di bambini, donne ed anziani che si impone nei frammenti di immagini offerti dalla propria mente e un grande, incolmabile vuoto di memoria. E' il drammatico episodio del massacro di palestinesi e sciiti libanesi dei campi profughi di Sabra e Chatila, avvenuto nel 1982 per mano dei falangisti cristiani, che vendicavano così l'uccisione di Gemayel Bashir. Sono trascorsi vent'anni dalla guerra del Libano, ma l'incubo bellico, riemerso dall'inconscio e seppellito dalla memoria, tormenta Ari Folman, protagonista e autore del fumetto, fino ad indurlo a ricercare il filo degli accadimenti attraverso i ricordi dei commilitoni. Il tentativo di riaffacciarsi a quel passato tanto doloroso, e per questo abilmente rimosso, è il tema centrale di un film d'animazione tradotto in una graphic novel dal genio di Ari Folman e dalla grafica inconfondibile di David Polonsky.
L'assurdità della guerra si trasforma nella banalità della vita sperimentata in una diabolica assuefazione e interrogata dall'autore in chiave intimistica. L'esperienza dell'orrore della morte si articola così nella dimensione privata di ciascun commilitone e rivive nei ricordi di Ari, finalmente emersi da un passato soffocato e represso.



Come introduzione alla mostra è stato esposto anche un bel fumetto, realizzato dalla giovane Elena Mistrello, che racconta l'incursione alla caserma di PS di Monza di tre giovani partigiani (Raffaele Criscitiello, Vittorio Michelini e Alfredo Ratti) subito catturati, torturati alla Villa Reale e fucilati davanti al muro di via Boccaccio vicino all'entrata dell'attuale Liceo artistico. Il fumetto è stato realizzato sulla base della testimonianza di Franco Rossi, 17 anni all'epoca, che aveva collaborato all'azione.

Anna Marini


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  16 febbraio 2016