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Democrazia ed estrema destra
Il caso monzese
Umberto De Pace

fasci

L’affrontare temi della realtà contemporanea, pur in un contesto locale, non ci può esimire dall’approfondirli in un’ottica più ampia: storica, culturale, politica e sociale. Lo studio, l’analisi, la critica, il sano esercizio del saper distinguere e del dare il proprio significato alle parole, il ricostruire i fatti per quello che sono è un esercizio complesso e impegnativo che richiede il suo tempo; un esercizio al quale non si può rinunciare se si vuole tentare, quantomeno, di interpretare al meglio la realtà che ci circonda. Neofascismo, antifascismo e democrazia sono i grandi temi alla base del fenomeno dell’estrema destra monzese e non solo. Avere una maggiore consapevolezza su questi temi ci permetterà di avere una più chiara comprensione del fenomeno che stiamo analizzando.
Sull'antifascismo - 4


Sergio Ramelli
Sergio Ramelli


Per alcuni dei protagonisti e dei testimoni delle vicende politiche degli anni '70 la morte di Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte della Gioventù, avvenuta a Milano nel 1975 a seguito di una brutale aggressione a colpi di chiavi inglese da parte di alcuni militanti di Avanguardia Operaia, rappresenta il tragico culmine del cosiddetto “antifascismo militante”, accompagnato dalla consapevolezza che in quegli anni tanti furono gli episodi che avrebbero potuto portare allo stesso tragico sbocco. Interessante ed esemplificativo il dibattito sul tema che si aprì, fra gli altri, nel corso del convegno tenutosi a Milano il 12 ottobre 1985, organizzato da Democrazia Proletaria (Dp) a seguito dell'arresto di ex militanti di Avanguardia operaia, accusati e in seguito condannati per l'omicidio di Sergio Ramelli e dell'assalto a un bar ritrovo di neofascisti nel '76 a Milano (“Le vere ragioni. 1968/1976”, edizioni Mazzotta, dicembre 1985). Nell'introduzione al convegno, Mario Capanna – all'epoca segretario nazionale di Dp – spiega come l'antifascismo militante fosse una pratica sorta spontaneamente all'interno del movimento di protesta degli studenti e lavoratori dell'epoca, ancor prima di divenire pratica quotidiana dei gruppi politici della nuova sinistra. Una pratica militante atta a garantire: “… l'autodifesa delle scuole e dei cortei dagli attacchi delle forze di polizia, e lo sradicamento della presenza fascista … Non si trattò solo della strage di piazza Fontana, si trattò anche e soprattutto delle giornaliere provocazioni e aggressioni dinnanzi alle scuole, da parte qui delle forze di polizia, lì dei fascisti, altrove delle forze di polizia e dei fascisti insieme … Non ci furono errori e degenerazioni? Ce ne furono certamente. Certa inclinazione a episodi di violenza gratuita, certo gusto dell'azione dura fine a se stessa, un modo spesso incongruo di risolvere contraddizioni, che erano in seno al popolo, come se fossero tra noi e il nemico.”


Errori e degenerazioni fra i quali l'agguato e l'uccisione di Sergio Ramelli che fu per Mario Capanna: “ … un tragico errore umano e politico. Umano, perché una vita fu spezzata, anche se si può essere certi che nessuno dei partecipanti all'azione … volesse e tanto meno desiderasse la morte del giovane. Peraltro aborrire l'assassinio fu sempre una costante dei valori dell'intero movimento di lotta di massa. E fu un errore politico per due motivi: perché l'agguato era gratuito, contro un bersaglio oramai sconfitto; e perché, anziché tener conto del fatto che si apriva una nuova fase più difficile, con molti pericoli di ripiegamento, per il movimento, tirava troppo la corda, con un pericoloso effetto di isolamento. Per sottolineare questo punto e per rimarcare che questa valutazione la esprimemmo pubblicamente già allora, ricorderò che all'Istituto tecnico Molinari, ove studiò Ramelli, e ove la nuova sinistra era egemone in modo schiacciante, l'assemblea degli studenti deplorò duramente l'agguato mortale.” Per comprendere il clima di quegli anni va ricordato che pochi giorni prima dell'aggressione mortale, sempre al Molinari in una precedente assemblea studentesca ci fu una sorta di processo pubblico contro Sergio Ramelli: “L'aula magna è gremita, centinaia di studenti con l'eschimo verde, professori e preside presenti in platea, ragazzi in piedi in fondo alla sala. Quella che segue è una cronaca folle, surreale. Una pedana sopraelevata, un tavolo, uno studente che amministra la seduta, che dà e toglie la parola. I pochi professori che intervengono invitano alla moderazione, gli studenti ribadiscono la necessità di condurre la lotta antifascista anche al Molinari. A un tratto sale sul palco Melitton (ndr: professore di Sergio Ramelli): dice che questo modo di ragionare “ha prodotto un grave errore, la violenza contro Ramelli”. Gli risponde immediatamente una professoressa di Avanguardia Operaia, che – sempre senza mai nominare Sergio – ripete: “Anche gli episodi che si sono verificati nella nostra scuola sono parte della mobilitazione antifascista che è in atto nel paese”. Così come le parole di Melitton erano cadute nel gelo, quelle della professoressa sono soffocate dagli applausi. Il giorno dopo, sulle porte della sala professori viene affisso un tazebao con questo titolo: “Ecco perché Sergio Ramelli è un picchiatore nero”. Per giorni, fino all'aggressione, resterà attaccato lì senza che nessuno si preoccupi di rimuoverlo.” Questo quanto riporta Luca Telese nel suo libro “Cuori neri” (ed. Sperling & Kupfer, giugno 2015). La riflessione autocritica dell'ex leader del movimento studentesco della Statale di Milano, Mario Capanna, va comunque oltre quella tragedia, individuando fra i limiti e gli errori della nuova sinistra dell'epoca anche il mutuare altri elementi negativi “… dalla storia, dalla pratica e dall'ideologia del comunismo internazionale…”. Fra i tanti presenti che si dichiarano solidali con gli arrestati, Adriano Sofri, leader di Lotta Continua all'epoca dei fatti, in quanto “ … avrei potuto fare quello che loro hanno fatto, direttamente e indirettamente.” così come invita a non chiamare “errori” quelli che in realtà sono dei “ … veri e propri misfatti. Perché dobbiamo scandalizzarci tanto se un delitto, che è evidentemente un delitto, viene chiamato delitto? Solo per una ragione pregiudiziale; noi fra noi possiamo ritenerlo solo un delitto. Il che non vuol dire che riteniamo chi l'ha commesso un assassino o che so io, un delinquente, o una persona da tenere in galera.” Non la pensa così Claudio Petruccioli, deputato del Pci, il quale ricorda quello che scrisse su “l'Unità” il 30 aprile 1975 a commento della morte di Ramelli: “… Quando il tredici scorso, Ramelli venne aggredito, scrivemmo su questo giornale che si trattava di un'azione criminale, compiuta da cultori della violenza ottusa che porta sistematicamente acqua al mulino dei nemici … La lotta antifascista, dicevamo, fu certo una guerra, guerra contro le radici storiche del fascismo, contro gli uomini e le classi sociali che portavano la responsabilità del ventennio nero, ma fu anche per molti aspetti soprattutto, una lezione di fiducia nell'uomo, nella possibilità di conquistare la grande maggioranza delle coscienze agli ideali di libertà, di progresso sociale e di uguaglianza. A maggior ragione oggi non saremmo fedeli a quell'insegnamento, non saremmo dei veri rivoluzionari se pensassimo che un giovane di diciannove anni possa essere condannato al fascismo come ad una malattia cronica ed inguaribile, se non credessimo di poterlo recuperare agli ideali della democrazia. Questo è il vero e unico modo di fare dell'antifascismo tra i giovani. Gli aggressori di Ramelli hanno compiuto un atto criminale, chi non sapesse o non volesse comprendere quanto quel gesto sia ignobile e vile si collocherebbe fuori e contro l'antifascismo, perché offenderebbe la sua umanità. Ai giovani tutti offriamo queste riflessioni in un momento di tristezza perché è morto fascista un giovane che avremmo dovuto e voluto far vivere democratico in una democrazia sicura.” Una condanna dura e netta come duro e netto fu il contrasto in quegli anni tra il Partito Comunista Italiano e l'insieme dei movimenti di protesta e di rivolta così come con la sinistra extraparlamentare. Testimone di quegli anni Paolo Hutter – a metà anni '80 consigliere comunale a Milano come indipendente nelle liste del Pci – pur dichiarandosi “poco incline all'uso della forza” e vivendolo con un certo fastidio, ricorda come nel corso degli anni '70 si fosse messo in testa che anche lui prima o poi avrebbe dovuto imparare a sparare. Pur esprimendo la sua solidarietà verso gli arrestati con l'imputazione dell'uccisione di Ramelli e dell'assalto al bar Porto di Classe, Paolo Hutter esprime la sua disapprovazione per l'”antifascismo militante” che non gli “ … piaceva neanche allora, come probabilmente a molti di quelli che partecipavano alle lotte della sinistra extraparlamentare, ma tendevo in genere a comprendere questi episodi medi dell'antifascismo militante – l'andare a cercarli, andare ad aspettarli sotto casa, certi processi popolari ecc. – come una triste necessità … Oggi, dieci anni dopo, posso dire che probabilmente non solo era triste, ma probabilmente non era neanche una necessità. Oggi posso dire che probabilmente bisognava allora limitarsi a organizzare l'autodifesa in senso stretto, e non andare oltre …”. Riconoscere e farsi carico dell'esperienza storica, politica e umana di quegli anni, nel bene e nel male, per Paolo Hutter vuol dire anche chiaramente che: “ …se oggi ci fosse un gruppo di persone che a Milano va ad aspettare i fascisti sotto casa per sprangarli, io non solo non protesterei contro il loro arresto, ma lo auspicherei.” Un pensiero condiviso da Rossana Rossanda: “Non penso che ammazzare un ragazzo a randellate fosse la qualità principe e l'occupazione permanente del movimento a Milano, ma se lo fosse stato si configurerebbe, nel mio modo un po' vetero di veder le cose, un diffuso squadrismo, assolutamente perseguibile.” Al di là delle questioni giuridiche rimane una valutazione politica “… che una pratica del dieci contro uno, del forte sul debole, della spranga al posto dell'assemblea sia tutt'altro che esorcizzata nella società moderna. Quel reato cadrà in prescrizione, ma quell'ideologia ci viene trasmessa dai media tutti i giorni, assai più contagiosa ed eterna della sua veste in camicia nera o bruna. Io non chiedo prescrizioni. Penso che uno sguardo vero su questa storia ed altre vada gettato, e poi si può anche assolvere. Non prescrivere, politicamente mi si intenda, non dimenticare.” Per Bianca Guidetti Serra – avvocato, consigliere comunale di Dp a Torino – che partecipò alla guerra partigiana e pur consapevole che molta violenza in quel contesto fu giusta, testimonia come “… anche da quella parte io ho ben in mente le discussioni che sorgevano tra noi quando per esempio qualcuno pensava di picchiare i prigionieri o di giustiziarli senza processo; erano forme di violenza che spesso sono state contrastate, qualche volta no.” Per questo non ha dubbi nel dichiarare che “ … episodi come quello che ci ha indotto a incontrarci oggi vanno letti con moltissima chiarezza. Quando dico per esempio che io ho difeso dei terroristi, io non ho mai detto che il terrorismo era una cosa che mi stava bene; mi è sempre stata male. Vi dirò che mi sta male su un piano politico senza alcun dubbio, ma mi sta male anche su un piano personale perché io credo che la vita e l'incolumità delle persone debbano essere rispettate, che si possa discutere sempre magari animatamente, ma che si possa trovare altri sistemi. E con lo stesso criterio vi dico che quell'episodio è un episodio che non riesco a classificare se non come omicidio. Poi si discuterà; i difensori, noi stessi tutti insieme diremo sarà preterintenzionale o meno.” Questo discrimine sull'uso della violenza da parte di chi fu protagonista della guerra partigiana era ben chiaro a Giovanni Pesce – comandante partigiano, medaglia d'ora della Resistenza: “E' innegabile che la morte di Ramelli sia stata un'azione da condannare, non un errore come ho letto in alcune interviste sui giornali, ed è giusto che anche a distanza di dieci anni si faccia giustizia, ma, e qui bisogna avvertire il pericolo, un conto è fare giustizia, e un conto è servirsi della giustizia, dell'onestà al fine di lucro politico come hanno fatto i soliti e sempre presenti sciacalli che si aggirano come fantasmi intorno alla nostra democrazia.”.

Saverio Ferrari fu protagonista diretto in quegli anni. Sconta in carcere dopo l'arresto avvenuto nel 1985 un anno di carcere in quanto ritenuto organizzatore dell'assalto con bottiglie molotov al bar frequentato dai fascisti in largo Porto di Classe a Milano il 31 marzo 1976. Ferrari faceva parte del servizio d'ordine di Avanguardia Operaia. In un'intervista a La Repubblica del 04/09/2018 conferma di non essere stato spettatore: “ Io ci sono stato, dentro la storia di quegli anni.. Non sono pentito ma allo stesso tempo penso che tante cose non andavano fatte, certe scelte, tornassi indietro, non le rifarei. C'è stata una deriva inutilmente violentista che poteva essere evitata.” In quegli anni dichiara: “Accettai la sfida allo scontro coi fascisti. Fu Giorgio Almirante, in un comizio a Firenze nel '72, a dire che erano pronti allo scontro fisico con i comunisti. Da studente di Scienze politiche mi trovai dentro questa spirale semplicemente perché decisi di entrarci. Per me è stata una lotta di classe. Una risposta al tentativo dei fascisti e delle classi dirigenti di sovvertire le istituzioni repubblicane ... Premesso che ognuno ricorda e celebra i suoi morti, e sottolineato che il terrorismo di sinistra fu una risposta sbagliata al terrorismo di destra, non ho difficoltà ad ammettere che certi atti sono stati feroci e insensati. Direi proprio sbagliati, inutili. L'omicidio di Sergio Ramelli. Un ragazzino di 17 anni colpito selvaggiamente sotto casa a colpi di chiave inglese. E' vero, era un avversario, stava dall'altra parte, ma non doveva essere colpito così. Non era un dirigente o una figura di peso ... Dico solo che Ramelli fu un errore. Non sono pentito ma la mia valutazione su quegli anni e quelle vicende è una valutazione complessa. Intendiamoci: la deriva violentista è stata praticata da tutti. Noi privilegiavamo lo scontro fisico, i fascisti usavano coltelli e lanciavano le bome: Milano è stata la città degli stragisti neri. E potrei ricordare che qui in quegli anni si moriva soprattutto a sinistra, con l'eccezione di Ramelli e Pedenovi.” Furono anni di speranza: “Ma anche di insensata violenza. Vorrei tanto tornasse il fermento di quella stagione, il clima di partecipazione, l'attenzione ai diritti, ai temi della casa, del lavoro, la tutela degli operai e delle classi svantaggiate. Non è vero, come dice qualcuno, che eravamo dei giovani stupidi – di sinistra e di destra - che si picchiavano insensatamente. Noi volevamo difendere la democrazia. Il che non significa che non abbiamo commesso degli errori anche gravi. A ogni modo, tanto rimpiango quella voglia di cambiamento, quanto non vorrei mai che tornasse la tensione e la violenza politica di allora.” Proprio per questo Saverio Ferrari oggi dirige l'Osservatorio democratico sulle nuove destre e se tornasse a quegli anni farebbe una scelta diversa: “...non starei con quelli che accettarono lo scontro fisico, farei più partecipazione politica.”

Umberto De Pace

GLI ARTICOLI PUBBLICATI
0 - Prologo
1 - Perché Monza?
2 - Bran.Co. e Lealtà Azione - 1
3 - Bran.Co. e Lealtà Azione - 2
4 - Forza Nuova - 1
5 - Forza Nuova - 2
6 - CasaPound - 1
7 - CasaPound - 2
8 - CasaPound - 3
9 - Lorien e Progetto Zero
10 - Lorien e Compagnia Militante
11 - A.D.ES.
12 - Le radici dell'estrema destra monzese - 1
13 - Le radici dell'estrema destra monzese - 2
14 - Sul neofascismo - 1
15 - Sul neofascismo - 2
16 - Sul neofascismo - 3
17 - Sul neofascismo - 4
18 - Sull'antifascismo - 1
19 - Sull'antifascismo - 2
20 - Sull'antifascismo - 3
21 - Sull'antifascismo - 4



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  26 giugno 2019