Democrazia ed estrema destra
Il caso monzese
Umberto De Pace
A riguardo del passaggio dagli anni '80 agli anni '90, Roberto Cartocci professore ordinario di Scienza Politica all'Università di Bologna in un saggio pubblicato sul libro La coscienza civile degli italiani di Carlo Tullio Altan (Gaspari Editore, gennaio 1997) ricorda: Come più attenti osservatori della realtà europea avevano preconizzato, il crollo dei regimi comunisti dell'Est avrebbe avuto precisi e diretti effetti anche sulla politica dei paesi occidentali; effetti che non potevano non essere dirompenti nel paese con il Partito comunista più forte dell'Occidente. Oltre a questo cambio epocale degli assetti internazionali nel nostro paese, dopo il successo economico e l'edonismo consumista degli anni ottanta (sotto cui si occultava un enorme debito pubblico e un sistema fraudolento che coinvolgeva la politica e l'imprenditoria nella gestione dei beni comuni) si registra nel decennio successivo un cambiamento della situazione economica e politica accompagnato dalla scomparsa di quasi tutti i partiti che avevano dominato la scena a partire dagli anni del Comitato di Liberazione Nazionale costituitosi il 9 settembre del 1943.
Nel febbraio del 1992 a Milano inizia la prima e più importante delle inchieste che passeranno alla storia sotto il nome di Mani pulite e Tangentopoli. Ma per rimanere nell'ambito della nostra indagine riprendiamo dal saggio di Roberto Cartocci uno degli effetti che ebbe questo cambio d'epoca negli equilibri culturali e politici del nostro paese : il riattivarsi del dibattito, in parte storiografico ma in buona misura politico, sulla fase di transizione dal fascismo alla democrazia, con le accuse al Pci sui suoi legami anche finanziari con l'Unione sovietica, e sul triangolo rosso dell'Emilia con le morti sospette dopo la Liberazione.
Da parte della sinistra si mirava invece a mettere in luce lo spirito antidemocratico che aveva presieduto alla formazione di una forza armata segreta, sospettata di inquinamento da parte di elementi eversivi dell'estrema destra, chiamata Gladio, e che avrebbe dovuto agire da formazione clandestina di resistenza in caso di invasione armata dall'Est o in caso di presa di potere da parte dei comunisti. Si ripresenta insomma, secondo l'autore: la persistente ambiguità dell'evento fondante della democrazia italiana la Resistenza e la fragile legittimità che la Repubblica era riuscita ad acquisire in oltre quarant'anni di storia. Al suo primo congresso nazionale, tenutosi a Fiuggi dal 25 al 29 gennaio 1995, Alleanza Nazionale erede del Msi che in quell'occasione celebrava, sciogliendosi, il suo XVII e ultimo congresso al capitolo secondo delle tesi congressuali, dove si trattano i valori e principi fondativi del nuovo soggetto politico, prende in modo chiaro le distanze dal fascismo: non si può identificare la destra politica con il fascismo e nemmeno istituire una discendenza diretta da questo. La Destra politica non è figlia del fascismo. I valori della destra preesistono al fascismo, lo hanno attraversato e ad esso sono sopravvissuti. Le radici culturali della Destra affondano nella storia italiana, prima, durante e dopo il Ventennio. Ma ciò che è particolarmente interessante è il paragrafo successivo intitolato Sciogliere tutti I fasci che qui riporto integralmente: Di un chiaro rapporto con la storia del Novecento non ha tuttavia necessità solo la Destra, che deve fare i conti con il fascismo al pari di quanto altri debbono fare con l'antifascismo. Se è infatti giusto chiedere alla Destra italiana di affermare senza reticenza che l'antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato, altrettanto giusto e speculare è chiedere a tutti di riconoscere che l'antifascismo non è un valore a sé stante e fondante e che la promozione dell'antifascismo da momento storico contingente a ideologia fu operata dai paesi comunisti e dal PCI per legittimarsi durante tutto il dopoguerra. Nel dopoguerra non tutto l'antifascismo è stato infatti antitotalitarismo. Erano certamente antifascisti anche coloro che proponevano, col modello di Stato sovietico, una gerarchia di valori assolutamente totalitari negatori della democrazia, dei diritti più elementari della persona umana e della libertà; il comunismo era antifascista, ma nessuno può negare che il totalitarismo è entrato nella scena politica europea di questo secolo con la Rivoluzione d'Ottobre e ne è uscito 72 anni dopo con la caduta del muro di Berlino. Quindi prima e dopo il regime fascista. Oggi i post-comunisti italiani se hanno i consensi sufficienti possono governare. La logica di Yalta non c'è più: oggi la Destra politica fa propri i valori democratici che il fascismo aveva negato. Perché mai dovrebbe sopravvivere l'antifascismo? L'antifascismo è sopravvissuto 50 anni alla morte del fascismo per ragioni internazionali e interne oggi non più presenti. La fine del socialismo reale ha chiuso un'epoca, quella del totalitarismo rosso, in cui il riferimento all'antifascismo era sopravvissuto alla fine del regime fascista ed era obbligato quanto strumentale. Con la fine del socialismo reale e del dopoguerra si impone quindi la definitiva storicizzazione anche dell'antifascismo. È tempo che anch'esso raggiunga il fascismo perché entrambi affrontino il giudizio della storia. Poco importa se ciò significa sciogliere tutti i fasci, quelli fascisti e quelli antifascisti, come chiede Buttiglione, oppure se ciò significa liberare la politica italiana dal demone dello scontro ideologico. Bisogna farlo, perché solo così si può davvero dar vita ad una nuova fase della storia politica italiana alle soglie del XXI secolo. Nell'introduzione al libro già citato, Fascismo Antifascismo. Le idee, le identità, pubblicato pochi mesi dopo il suddetto congresso, Giovanni De Luna e Marco Revelli, evidenziano come mass media e forze politiche in generale abbiano assunto le tesi approvate al congresso di Fiuggi con una certa superficialità intestandogli un esplicito riconoscimento del valore dell'antifascismo, e quindi una vera e propria rottura culturale e politica nella vicenda della (estrema) destra italiana. Per gli autori in realtà ciò che si trova scritto nelle tesi è una sintesi dei principali argomenti che nell'arco della Prima Repubblica, e in misura crescente nel suo ultimo decennio, hanno alimentato con continuità la tradizionale critica dell'antifascismo come valore fondamentale del modello politico italiano. Vi si trova, riproposto alla lettera, il consueto argomento defeliciano circa il carattere non democratico dell'antifascismo Né manca l'affermazione della sua natura contingente e, di conseguenza, la sottolineatura dell'aspetto strumentale della sua assunzione a valore nell'ambito della strategia di legittimazione comunista Infine, e soprattutto, vi domina la denuncia del suo carattere anacronistico. Del suo essere artificialmente trapassato oltre le proprie ragioni storiche Certo, non manca un riconoscimento formale all'antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato (il passaggio, appunto, su cui si è focalizzata l'attenzione dei commentatori). Ma esso opera, tuttavia, esplicitamente in funzione di una sua radicale relativizzazione, e soprattutto di una contestuale assunzione del fascismo e antifascismo come parti integranti di una comune storia nazionale. Come momenti, appunto, congiuntamente storicizzati e, per questa via, equiparati tra loro nel quadro di una nuova retorica della pacificazione, della fine degli odi e delle discriminazioni. De Luna e Revelli concludono evidenziando il paradosso, a loro dire uno dei tanti del nostro paese: che tocchi proprio al partito che per quasi mezzo secolo ha incarnato memoria ed eredità del fascismo, che ha fatto dell'apologia del fascismo il fondamento di un'identità che non intendeva passare, tentare, con la propria metamorfosi formale, e soprattutto con la propria realistica candidatura alla gestione del potere, il trapasso dell'intera comunità nazionale al di là del fascismo e dell'antifascismo. Un'operazione possibile grazie a quell'armamentario argomentativo messo in campo nel corso degli anni '80 ed elaborato dalle componenti più tipiche della odiata partitocrazia. Dagli esponenti di quel consociativismo oggi tanto deprecato, i quali nella distruzione del paradigma antifascista avevano visto, appunto, la condizione per una piena deideologizzazione della politica, per il compiuto dispiegarsi di una logica da mercato politico non più limitata da valori non negoziabili, né da alleanze vincolate a principi o a forme storiche della memoria.
Pochi giorni dopo la pubblicazione del libro, alla Camera dei Deputati il 9 maggio 1995, viene eletto quale presidente dell'assemblea, Luciano Violante ex magistrato, docente, nonché parlamentare prima del Partito Comunista Italiano e quindi del Partito Democratico della Sinistra. Nel suo discorso in aula https://storia.camera.it/presidenti/violante-luciano/xiii-legislatura-della-repubblica-italiana/discorso:0#nav , dopo l'investitura, riferendosi alla mancanza di valori nazionali comunemente condivisi si domanda in riferimento alla Resistenza e alla lotta di liberazione: cosa debba fare quest'Italia perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale, e perché si possa quindi uscire positivamente dalle lacerazioni di ieri. Mi chiedo se l'Italia di oggi - e quindi noi tutti - non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all'interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni.
Secondo lo storico Giorgio Rochat sull'onda della profonda crisi di trasformazione del quadro politico negli anni Novanta, l'intento del neoeletto presidente della Camera, ma non solo, non è quello di mettere in discussione la realtà e il significato della lotta antifascista, né di alleggerire la responsabilità dei regimi nazifascisti, quanto piuttosto quella di affermare su un piano prettamente politico la necessità di costruire una coscienza nazionale unitaria e democratica, in cui antifascismo e Resistenza siano elemento costitutivo, ma non più discriminatorio. In un articolo apparso qualche anno dopo sulla rivista Micromega 1/1998, Giorgio Bocca, in una Lettera aperta a Luciano Violante spiega il suo personale fastidio per le parole del presidente della Camera: Ma l'aspetto, onorevole Violante, che più mi ha dato fastidio nella sua apertura ai neofascisti nostrani è stato il suo appello, che più ipocrita non si può, a capire i ragazzi di Salò. Un appello che in pratica annulla il giudizio della storia, tutti parificando. Cercar di capire? Ma sono cinquant'anni che noi non ecumenisti cerchiamo di farlo, percorrendo tutte le ramificazioni della psicologia umana: quelli che andarono a Salò perché ignoravano la storia, compresa quella del fascismo, quelli che per l'onore, per il mussolinismo, perché orfani di fascisti, per un ritorno al diciannovismo, per il Duce tradito, anche quelli che erano più nazisti che fascisti. Ma cercar di capire i moventi e le pulsioni personali o di gruppo non significa cancellare, stravolgere quella che fu la storia di Salò in quei venti mesi, la storia di uno Stato fantoccio, tenuto in piedi dagli occupanti nazisti, e subìto per sopravvivere o alimentato dalla speranza che i tedeschi vincessero, che cioè si attuasse il mondo della rigenerazione razziale, dei popoli eletti pronti a praticare una nuova schiavitù mondiale. Umberto De Pace GLI ARTICOLI PUBBLICATI 0 - Prologo 1 - Perché Monza? 2 - Bran.Co. e Lealtà Azione - 1 3 - Bran.Co. e Lealtà Azione - 2 4 - Forza Nuova - 1 5 - Forza Nuova - 2 6 - CasaPound - 1 7 - CasaPound - 2 8 - CasaPound - 3 9 - Lorien e Progetto Zero 10 - Lorien e Compagnia Militante 11 - A.D.ES. 12 - Le radici dell'estrema destra monzese - 1 13 - Le radici dell'estrema destra monzese - 2 14 - Sul neofascismo - 1 15 - Sul neofascismo - 2 16 - Sul neofascismo - 3 17 - Sul neofascismo - 4 18 - Sull'antifascismo - 1 19 - Sull'antifascismo - 2 20 - Sull'antifascismo - 3 21 - Sull'antifascismo - 4 22 - Sull'antifascismo - 5 23 - Sull'antifascismo - 6 EVENTUALI COMMENTI lettere@arengario.net Commenti anonimi non saranno pubblicati 12 luglio 2019 |