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MARTEDI' 28 APRILE ALLA PROCULTURA MONZESE

Giovane favoloso


Mario Martone
regia: Mario Martone 
Interpreti: Elio Germano (Giacomo Leopardi), Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (Monaldo Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Valerio Binasco (Pietro Giordani), Isabella Ragonese (Paolina Leopardi)..
Durata: 137 minuti - Italia - 2014
Anna Marini

Tre bambini giocano dietro una siepe, nel giardino di una casa austera: sono i fratelli Leopardi. La siepe è una di quelle oltre le quali Giacomo cercherà di gettare lo sguardo, trattenuto nel suo anelito di vita e di poesia da un padre severo e convinto che il destino dei figli fosse quello di dedicarsi allo "studio matto e disperatissimo" nella biblioteca di famiglia, senza mai confrontarsi con il mondo esterno…


Il giovane Giacomo declama i suoi versi nella solitudine della sua stanza e nell' intimità delle rime sembra chiamare accanto a sé la luna, che appare dalla finestra, aperta sulla notte. Presenza cara ed eterna, è a lei che, da poeta maturo, rivolgerà i principali interrogativi del genere umano, da secoli senza risposta. La pallida luce del disco celeste raggiunge la figura del giovane dall'indole riservata e schiva, come la storia ne ha tramandato la memoria. La poesia diviene voce, che Leopardi pronuncia facendo risuonare dentro se stesso: di quest'armonia si alimenta il suo spirito irrequieto. I versi prorompono dal suo animo, agitato da intense passioni; le rime sorgono spontanee, rivelandosi non arte appresa, ma dialogo interiore: tutto diventa lirica, in una figura quasi romantica dell'artista, che nell'immagine collettiva appare come genio creativo e maledetto. Animato da un folle amore per le belle lettere, il giovane ci si abbandona in uno studio disperato, che indebolisce la sua già precaria salute: è il Leopardi classico della letteratura, fedelmente interpretato da Elio Germano.

Ma se il desiderio di conoscenza trova soddisfazione nella biblioteca paterna, le ambizioni di Giacomo vengono soffocate da una realtà locale, intrisa di provincialismo. Un conformismo imperante governa una società che fa ritorno alle dottrine del passato, abbracciando ideologie spiritualistiche e cattoliche. Le parole pronunciate dalla madre del giovane, in occasione della dipartita di una fanciulla, testimoniano la mentalità del luogo: quello in cui il Signore chiama a sé una delle sue anime è giorno di letizia e non di cupa disperazione; nella rassegnazione cristiana la malattia si inserisce in una dimensione escatologica, acquisendo un senso. Unica ancora di salvezza, la sola possibilità di evasione da questa realtà vacua ed opprimente, è per Giacomo proprio ciò che gli procura un'invalidante sofferenza fisica: lo studio, quella linfa vitale che ha sede in una passione dai tratti morbosi. La fuga diviene quasi reale e non più solo spirituale, quando, una notte, il giovane tenta di abbandonare Recanati per centri di più ampio respiro culturale. Ma viene subito fermato dal padre che, ieratico ed autoritario nella sua irremovibile convinzione, tenta di imporre ai figli il pensiero dominante e conservatore. “…le basi e i confini della vera libertà sono la fede in Gesù Cristo e la fedeltà al sovrano legittimo. Fuori di questi confini non si vive liberi, ma dissoluti” afferma durante una cena in compagnia di Pietro Giordani, che si era recato dai Leopardi per far visita a Giacomo.


Il letterato, sostenitore invece del pensiero liberale, diviene la figura di riferimento per il poeta, che vede nel monaco benedettino un maestro e un confidente, al quale comunicare la passione per la rima e l'irrefrenabile desiderio di fama. L'intellettuale gli dimostra da subito aperta disponibilità al colloquio, dopo aver ricevuto dal giovane la traduzione dell'Eneide: intrattiene con lui un fitto scambio epistolare nel quale lo esorta a proseguire nei componimenti.
Al fianco di Pietro Giordani, il santuario di Loreto, dove il letterato conduce un giorno Giacomo e il fratello Carlo, non è più solo il luogo dove rivolgere preci a Dio, ma tempio dell'arte, in cui la perfetta armonia della forma diviene meraviglia tangibile da dover toccare nella bellezza delle sculture. In Leopardi si riconosce l'anticipazione romantica del genio creatore anche dal desiderio di chiamare patria l'Italia, terra non ancora divenuta nazione, ma già tuttavia afflitta dai mali che la caratterizzano da tempo: “non donna di provincia, ma bordello” come canta Dante nel Canto VI del Purgatorio. Il romanticismo è infatti la corrente culturale dell'Ottocento, secolo segnato in Italia dal Risorgimento.


Come il protagonista nel “Dialogo della natura e di un islandese” fugge dalla sua terra in cerca di un luogo che, senza dargli piaceri, non gli infligga almeno sofferenza, così Giacomo si sposta da una città all'altra per una dimensione che possa allievare i suoi patimenti. Lascia così il fratello Carlo e la sorella Paolina, capace di un amore quasi materno nei suoi confronti: protettiva e premurosa, sempre intenta ad alleviare le sofferenze fisiche da cui il poeta era afflitto. Entrambi complici dei suoi desideri ambiziosi e del progetto di fuga da Recanati, rappresentano quella dimensione domestica, che il poeta ritroverà a distanza di tempo, a Napoli, nell'amico Antonio Ranieri e in sua sorella.
“Due cose belle al mondo” ci sono “Amore e morte” afferma il poeta, rifacendosi alla radice etimologica dei termini. A-mor e Mors: come suggerisce l'alfa privativo, il primo si contrappone al secondo, costituendone l'esatta negazione. L'amore è ciò che esclude la morte, il suo contrario, configurandosi come origine della vita. Mentre il concetto della morte tormenta l'intera esistenza leopardiana, l'amore resta quasi del tutto sconosciuto, solo spiato, sfiorato nella desiderata Fanny. Mai raggiunto, anche l'amore diviene per Giacomo generatore di grande sofferenza.
Giordani introduce Leopardi nei circoli letterari, dove tuttavia la sua opera viene fraintesa in una interpretazione superficiale e semplicistica. Dapprima Firenze vede nei suoi componimenti solo l'espressione monotona di una cupa malinconia, in netto contrasto con la speranza liberale in un futuro migliore;


In seguito Napoli, che attendeva un nuovo Manzoni, è delusa dalla natura pessimista del poeta, imputabile alla sofferenza fisica che lo affligge. In ambedue i centri culturali il Leopardi denota mali sociali che affliggono le realtà, in particolare quella partenopea, che interpreta l'epidemia di colera come castigo divino per i peccati commessi. La città tenta di liberarsi dal morbo attraverso riti religiosi che non sembrano espressione di un credo maturo, ma trovano fondamento nella tradizione popolare, sconfinante nella superstizione: timore di Dio e retaggi medievali si incontrano in una dimensione esteriore e quasi ostentata della fede.
Alla visione illuministica che crede nel progresso raggiungibile grazie alle capacità umane, Leopardi contrappone una severa critica all'antropocentrismo. L'uomo non è, come testimonia la cultura cristiana, al centro della creazione, dominatore di tutto ciò che si trova sulla terra, e neppure protagonista della storia, ma vittima di una Natura maligna e ostile, poiché indifferenze al genere umano nel compiere il suo corso. Non c'è in essa volontà di nuocere agli uomini, ma semplice non curanza nei loro riguardi.
Natura: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte». (Dialogo della natura e di un islandese, Operette morali, 1824). Non è malinconia ciò che affligge il poeta, ma noia, “il più sublime dei sentimenti umani”. L'uomo tende al desiderio di infinito, tuttavia la finitezza della condizione umana può offrire piaceri limitati che non soddisfano il bisogno di smisurato piacere: da qui si genera una profonda infelicità che deriva dal percepire l'insuperabile distanza tra l'infinità del desiderio e la finitezza della realtà. Nulla può placare questa tendenza, insita e congenita nell'animo umano, destinato a provare tale tensione, illimitata nella durata e nel tempo, poiché tutto sulla terra è circoscritto e confinato. Solo l'uomo sembra poter avvertire la noia: in questo consiste il grande e rivoluzionario umanesimo di Leopardi, autore non pessimista, ma, al contrario, squisitamente ottimista nell'attribuire all'umanità un così alto sentire. “Accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto” è “l maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana”.


E' proprio la Natura, nella sua più totale indifferenza, che condanna l'uomo a subire una tale condizione. “La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo”. (Zibaldone, 1831).
Unica possibilità di salvezza dalla noia è rappresentata dall'illusione, tratto tipico della fanciullezza: in giovane età nulla è ancora definito della nostra vita futura e ci abbandoniamo, allora, al sogno, che racchiude la vera felicità. Così, come nell'attesa del dì festivo, è il sabato il vero giorno lieto:

“Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio: stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

(Il sabato del villaggio, 1829)

Il film si conclude con una scena dedicata alla lirica “La ginestra, o fiore del deserto”, metafora della condizione umana. Il poeta contempla la determinazione dell'arbusto che si erge sulle aride pendici vesuviane, nella consapevolezza che sarà annullata dalla lava vulcanica. Alla potenza distruttrice dell'eruzione, il fiore del deserto risponde spargendo attorno a sé il suo profumo, nell'accettazione dignitosa dell'ineludibile sorte. Ad essa Leopardi invita a guardare il genere umano, esortandolo a cogliere coraggiosamente l'enorme fragilità della sua condizione. Non siano le speranze di gloria vana, oppure le ostilità fratricide a guidare le azioni degli uomini, ma il sentimento di solidarietà in un impegno comune contro la Natura, vera responsabile delle miserie terrene.

Anna Marini

clic...   la locandina del film
il trailer italiano


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  26 aprile 2015