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L'odore della memoria
Tania Marinoni


Che odore ha la memoria? Quali il sapore e il colore di un processo in apparenza spontaneo eppure bisognoso di un'educazione per essere correttamente condotto? La memoria risiede ovunque nell'uomo e non solo negli emisferi cerebrali; è percepibile con l'olfatto, apprezzabile attraverso il gusto; ha bisogno del corpo per poter gridare e deve suscitare emozioni perché possa appartenere al vissuto. Sabato 23 gennaio, nell'Aula Magna della Scuola secondaria di primo grado di Usmate Velate, la memoria è riecheggiata nelle autorevoli parole del professor Raffaele Mantegazza, ha vibrato nei violini klezmer diretti dal maestro Gianmaria Bellisario, ha respirato nelle pagine del diario di Aldo Carpi, interpretate dai ragazzi dell'Istituto comprensivo statale di Usmate Velate e immortalate negli oggetti-simbolo della più grande tragedia, ma anche degli atti più valorosi di resistenza che il genere umano abbia mai conosciuto. Si è così assaporato il gusto della memoria nell'incontro “La fede nell'uomo”, all'interno del progetto “Arte e musica nella Shoah”, realizzato da A.N.P.I. sezioni di Arcore, Lesmo, Camparada, Usmate Velate e patrocinato dal comune di Lesmo.

La memoria, come la conoscenza, è un processo fisico, che non può prescindere dagli aspetti emotivi e dai caratteri affettivi; attraverso il corpo viene appresa in tenerissima età anche la lingua ebraica, l'idioma sacro con cui Dio ha creato il mondo, ma anche molto arduo per i fanciulli che si accingono a riconoscerne i grafemi già all'età di tre anni. Attraverso il gusto, l'udito e l'amore le madri insegnano ai propri figli le ventidue consonanti dell'alfabeto: ad ogni lettera associano una fiaba ed un biscotto, che ne ritrae la forma. E' tra le braccia della madre che si assaporano i rudimenti di una tradizione millenaria.

Sul palco del teatro della scuola, alunni e musicisti hanno proposto la lettura e l'interpretazione di alcuni passi del “Diario di Gusen” di Aldo Carpi. Attraverso un viaggio a ritroso nella memoria, hanno condotto per mano gli spettatori inducendoli, con grande semplicità, ma anche con grande incisività, ad alcune riflessioni.
Ogni uomo nella moderna società occidentale afferma la propria identità anche attraverso gli abiti, che sceglie in relazione al gusto e adatta secondo le proprie misure; un'operazione in apparenza banale, compiuta nella quotidianità, è in realtà un grandissimo atto di libertà, con cui esprimere la propria personalità. Una casacca bianca a strisce azzurre veniva assegnata nei campi di sterminio a ciascun deportato, un'uniforme volutamente abbondante, oppure estremamente ridotta: una divisa sporca era fondamentale nella procedura di spersonalizzazione, compiuta attraverso l'umiliazione del soggetto.

Il cognome e il nome identificano la personalità di ciascuno. Il primo, intriso di storia, indica la gens di appartenenza, la storia della propria famiglia attraverso i secoli, il secondo ribadisce l'unicità dell'individuo. Nei lager nazisti ogni essere umano era contraddistinto da un numero, inciso sulla pelle ed urlato in tedesco, una lingua sconosciuta alla maggior parte dei prigionieri; nei luoghi dell'orrore ogni internato veniva “allocato” in categorie meritevoli di sterminio, attraverso triangoli di colori diversi, imposti sull'uniforme. L'ideologia nazista riconosceva nella “razza ariana” i canoni della bellezza, della salute e dell'armonia: chi differiva da questi, oppure coloro che erano affetti da qualche disabilità, venivano additati per mostrare le difformità dalla “razza pura”.

Il 27 gennaio da alcuni anni ricorda la tragedia dello sterminio, ma anche la più grande e valorosa azione di resistenza intrapresa nella storia: in molti oggetti gli studenti hanno fatto rivivere la follia nazista, in altri hanno celebrato invece la determinazione del coraggio. Aldo Carpi, ad esempio, è sopravvissuto all'orrore grazie ai suoi occhiali, dai quali non si è mai separato, nonostante fossero sempre requisiti, appena si veniva internati. La vista gli permise infatti di eseguire ritratti perfetti per le SS e di scorgere nei paesaggi che dipingeva qualche istante di evasione dall'orrore quotidiano.

La memoria, personificata nella tradizione classica da una splendida divinità, Mnemosine, è associata alla scrittura da complicità e sintonia. La parola scritta sfida la morte e il tempo, vince sull'oblio: lo splendido “Canto del popolo ebraico massacrato”, il poema epico del Popolo eletto da Dio e atrocemente sterminato dalla storia, grida ancora oggi il disperato interrogativo lasciato senza risposta di un moderno Giobbe, lamenta la terribile incomprensione di un destino unico e apocalittico: la privazione degli affetti e della fede, sotto cieli ammutoliti e impassibili. Nei campi di sterminio si scriveva, di nascosto, su rari fogli di carta sudicia, si scriveva per sopravvivere, si scriveva per coloro che, fuori dalle mura del terrore, attendevano un ritorno, resistendo con fermezza. Anche Aldo Carpi scriveva, di nascosto, nei rari momenti di pace durante la sera, nel servizio di patologia dell'ospedale del campo di Gusen, sul suo diario dalla copertina nera come la giacca in cui si confondeva, sfuggendo così alla vista degli aguzzini. Su fogli di carta friabile, terribile, dedicava lettere alla sua Maria, nel luogo in cui scrivere era rigorosamente vietato.

La forma d'arte maggiormente cara ai prigionieri era la musica, tra tutte la più immateriale. Del dipingere restano le tele, del comporre poesia rimangono le rime, ma la musica come evento svanisce nell'istante in cui si manifesta e la nota appena prodotta, se non interiorizzata, è perduta per sempre. Il ricordo passa attraverso il ri-accordare, vola sulle corde di un violino che associano la musica alla memoria. Posso ri-cordare solo se il mio cuore vibra come poteva vibrare allora, e l'arte più eterea nel campo di sterminio ha salvato l'anima.

Ma, nonostante l'orrore dei campi di sterminio, nonostante tutto, l'uomo cerca sempre la speranza, vuole scorgere l'eccezione insperata anche laddove solo morte e orrore dettano le loro spaventose leggi. Una splendida e nobile abilità contraddistingue l'animo umano: il ricercare un tratto di umanità anche nell'aguzzino, persino nel nazista. Anche nelle organizzazioni capillarmente strutturate si leva ad un certo istante la voce di qualche appartenente, a mettere in discussione il verbo, ad incrinare nefaste certezze, ad interrompere il procedere incessante di processi funesti. Il sentimento di humanitas insegna ancora oggi a non ragionare per categorie, a rifuggire i luoghi comuni, a rifiutarsi di generalizzare, per ascoltare invece il singolo individuo, interrogandolo nella sua grande e ricca unicità. Il campo di concentramento ha alimentato l'antagonismo tra deportati in nome dell'istinto di sopravvivenza, ha inscenato in un teatro dell'assurdo il comprensibile e amaro motto latino del “mors tua, vita mea”, ma è stato anche luogo di grandi ed altissimi gesti di solidarietà, in un pezzo di pane ceduto a favore del prossimo.

Ed infine la memoria è un odore, un colore, una nota vibrata e poi svanita. La lingua eterna del volere divino ha il sapore gradevole di un biscotto e le sonorità dell'amore materno, mentre invece la libertà soppressa dal regime fascista impregna di un gusto stomachevole un pane raffermo: non c'è memoria senza una traccia, senza un'emozione, senza il vibrare del corpo nell'udire un canto. Memoria è conoscenza, coltivata negli spazi educativi, trasmessa negli istituti scolastici. Il valore indiscusso di un'azione pedagogica risiede nell'interrogare l'antico gusto del sapere.

Tania Marinoni


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  27 gennaio 2016