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Il coronavirus e le stampanti 3D
Tania Marinoni



In queste settimane di emergenza Coronavirus si registrano spesso ritardi nella fornitura di mascherine. Molte aziende, artigianali ma anche grandi come la Skoda, hanno dato risposta a questa necessità grazie alla tecnologia della stampa 3D. Numerosi sono i modelli creati e i materiali impiegati per fabbricare mascherine riutilizzabili con la sola sostituzione del filtro certificato.
Oltre alle mascherine, sono stati prodotti anche i più complessi ed importanti respiratori, indispensabili nella terapia intensiva. Questo, grazie all'applicazione di parti stampate con la tecnica 3D su maschere subacquee (tipo gran facciale) esistenti in commercio.


Ma cos'è e come funziona una stampante 3D? Il 3Dprinting realizza oggetti tridimensionali, partendo da un modello digitale, che viene generato da un software e in seguito elaborato, prima di essere “inviato” alla stampante. La tecnologia di stampa maggiormente utilizzata in questo campo è la FDM, acronimo del termine inglese Fused deposition modeling, ossia la Modellazione a deposizione fusa. Tale metodo, sviluppato da S. Scott Crump alla fine degli anni Ottanta, si basa sul processo produttivo additivo, che realizza oggetti mediante l'accumulo di diversi strati di materiale fuso. Rispetto al metodo sottrattivo, anch'esso impiegato nella produzione digitale, la FDM permette di creare geometrie più complesse e di variare la densità di riempimento.

Il processo di realizzazione di un oggetto tridimensionale si sviluppa attraverso tre fasi.
La prima consiste nella creazione di un modello virtuale mediante un programma di progettazione 3D.
Il secondo passaggio permette di convertire, tramite un software di slicing (dall'inglese to slice, che significa affettare), il modello in istruzioni per la stampante. Questo software seziona il modello in strati paralleli, detti layer. A tale proposito è bene precisare che all'utente è lasciata la possibilità di impostare lo spessore di tali strati e quindi di determinare un parametro molto importante: esso infatti influenza, oltre alla qualità e ai tempi di stampa, anche la resistenza meccanica dell'oggetto.
La terza fase prevede il funzionamento della macchina che realizza il manufatto.


Quando il modello è stato ”affettato”, e dunque ogni sezione viene trasformata in una figura 2D con una propria quota, il software genera un linguaggio G-code, che darà alla stampante le istruzioni per la costruzione degli strati. Essi vengono quindi convertiti in una sequenza di punti consecutivi su un piano cartesiano, permettendo così alla stampante 3D di portare l'estrusore, piano per piano, su tutte le posizioni indicate dal modello. Attraverso il rilascio, da parte della testina, di materiale fuso, si realizza quindi il pezzo in tre dimensioni.

Se si volesse proporre un parallelo tra il funzionamento della stampante 3D e quello di una normale stampante da ufficio, si incontrerebbero diverse analogie, ma una essenziale differenza. Al posto dell'inchiostro, che nella stampante di documenti viene rilasciato dalla testina con ugello, nella stampa 3D si utilizza un filamento di materiale termoplastico. Esso viene caricato, sciolto e depositato tramite un estrusore. Tale componente, fondamentale nella tecnologia della stampa 3D, è montato su supporti che gli consentono di muoversi lungo tre dimensioni. Se infatti nella normale stampante le direzioni di movimento sono due, in questa viene introdotto un terzo asse, che determina lo sviluppo in altezza dell'oggetto. Infine, mentre siamo soliti caricare con cartucce di inchiostro la normale stampante, nella stampa tridimensionale occorre introdurre nella macchina delle bobine di filamento di materiale plastico.

Nonostante la stampa 3D conosca una grande diffusione a partire dal 2005, la nascita di questa tecnologia risale a vent'anni prima. È il 1982, quando l'ingegner Chuck Hull inventa la stereolitografia, la tecnica che permette di realizzare oggetti dall'elaborazione, tramite software, di dati digitali. Successivamente Hull fonda la 3DSystems, realizzando il primo esempio di prototipazione rapida e di formato STL, che brevetta nel 1986; dagli anni Novanta si dedica alla produzione di stampanti 3D.
Alla scadenza del brevetto, nel 2005, l'ingegnere e matematico Adrian Bowyer, attualmente docente all'università di Bath, avvia il progetto RepRap (Replicating Rapid Prototyper). Si tratta di un'iniziativa volta a sviluppare una macchina che, oltre a stampare oggetti, è anche in grado di autoreplicarsi, cioè di produrre la maggior parte dei propri componenti. Già di per sé l'invenzione di Adrian Bowyer è senza dubbio geniale, ma il progetto possiede anche un'altra caratteristica molto importante e davvero rivoluzionaria: è open source, quindi completamente gratuito e scaricabile. Questo significa che chiunque disponga di una modesta somma di denaro può cimentarsi nella produzione domestica di oggetti.

Se inizialmente alla tecnologia del 3D printing ricorreva un esiguo numero di progettisti e per la stampa di prototipi, oggi questo strumento conta centinaia di migliaia di seguaci. Tra questi, anche i premurosi maker, che riducono così i tempi di approvvigionamento delle indispensabili ma introvabili mascherine.

Tania Marinoni


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  28 aprile 2020