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Requiem per l'Afghanistan
Umberto De Pace

Nicole, Kareem, Max, David, Rylee, Hunter (Corriere.it)

Nicole, Kareem, Max, David, Rylee, Hunter, sono alcuni dei tredici militari americani che hanno perso la vita nell'attentato terroristico all'aeroporto di Kabul del 26 agosto. Abbiamo visto i loro volti pubblicati sui principali quotidiani nazionali, abbiamo letto brevi note sulle loro vite, per lo più giovani vite. Come non riconoscere in loro i nostri figli, nipoti, fratelli o sorelle? Come non provare pietà, pena, dolore, forsanche rabbia per la loro morte?

Degli altri “circa” 170 morti afghani, uccisi nel corso del medesimo attentato, gran parte a causa dell'esplosione provocata dall'attentatore suicida altri a causa delle pallottole sparate dalle forze di sicurezza a protezione dell'aeroporto, forse dagli stessi commilitoni delle suddette vittime americane, conosciamo poco o nulla. Né i loro volti, né le loro storie, prima che venissero annientate. Risulta così difficile riconoscere in loro i nostri figli, nipoti, fratelli, sorelle, padri e madri.

Per questo, anche per questo, la pietà, la pena, il dolore, la rabbia per la loro morte scivolerà presto in un ricordo lontano, molto prima e molto più lontano, di quello dei soldati statunitensi. Ma non basta. Abbiamo appreso in queste settimane dai giornali, dalle televisioni, dalle radio, dai social, il numero delle vittime militari americane (migliaia), di quelle italiane (decine), di quelle di altri paesi della coalizione occidentale che negli ultimi vent'anni ha condotto la “guerra al terrorismo” in terra afghana. Di alcuni conosciamo le storie, qualche spezzone delle loro vite, abbiamo presente il volto, ricordiamo i loro nomi in occasione di celebrazioni istituzionali.

Cosa sappiamo delle decine di migliaia di afghani uccisi in questi medesimi vent'anni nel corso della suddetta guerra? Quanti fra noi hanno piena coscienza e conoscenza che essi non sono state tutte vittime della violenza talebana o jihadista, se ciò risultasse in qualche modo consolatorio per alcuni; così come quei morti non sono tutti miliziani talebani o jihadisti, se ciò potesse appagare in qualche modo la sete di vendetta nei confronti della tirannide o del terrorismo. Vite spezzate, dilaniate, polverizzate. Padri, madri, nonni, figli, nipoti, fratelli e sorelle dell'umanità, quanto meno di quella disposta a farsene carico. Volti, storie, vite di cui non abbiamo traccia, né ricordo, a differenza degli altri, i nostri morti, quelli che sentiamo a noi più vicini, più simili a noi. Tutto ciò senza saper distinguere, o non volendolo fare, tra vittime e carnefici, per non sapere o non volere riconoscere nei volti a noi famigliari il ruolo svolto fra questi ultimi.

Di politica e strategia, di interessi e alleanze parleremo un'altra volta, oggi proviamo a soffermarci un attimo di fronte a quei volti, a quelle storie, a quelle vite a noi famigliari, affiancandogli, pur con uno sforzo di immaginazione, i volti, le storie, le vite delle altre vittime per noi per lo più sconosciute. E' un primo passo fondamentale per poi affrontare in seguito le cause di tutte queste morti.

Tre dei bambini uccisi nei raid Usa di domenica scorsa
Tweet del giornalista Shafi Karimi, rilanciato dall'Ansa (Avvenire.it)

Faisal di 10 anni, Farzad di 9, Armin di 4, Benyamin di 3, Ayat e Sumaya di due anni, domenica scorsa correvano verso l'auto del padre, Zemari Ahmadi, 40 anni, insieme a Zameer, 20 anni e Ahmad Naser, 30 anni, tutti civili uccisi nel corso del raid aereo americano di domenica scorsa, teso a colpire un'auto carica di esplosivo diretta verso l'aeroporto per un nuovo attentato, secondo le fonti del Pentagono. Vittime dello stesso esercito per cui Ahmad Naser aveva lavorato come contractor, Zemari Ahmadi, era invece un ingegnere impiegato presso una Ong con sede in California. In qualche modo a noi vicini, per questo sono giunte fino a noi le loro storie e i loro nomi.

Umberto De Pace


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  5 settembre 2021