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Il boia di Bolzano
Franco Isman

tempesta

Michael "Mischa" Seifert nasce in Ucraina, a Landau vicino Odessa nel marzo 1924 da genitori ucraini di lingua tedesca. Nel 1943 si arruola nelle SD “Siecherheitdienst”, servizio intelligence delle SS, diventa guardia personale del generale SS Wilhem Harste, quindi lo troviamo al campo di Fossoli ed infine, all'inizio di agosto 1944 e quindi all'età di vent'anni, arriva al “Durchgangslager” di Bolzano, campo di transito dei prigionieri prima della loro “spedizione” nei campi di concentramento e di sterminio in Germania e Polonia.
Qui, assieme al suo compare Otto Sein, ucraino pure lui, e la complicità e qualche volta partecipazione del sopraintendente alle celle Albino Cologna, si scatena la sua selvaggia brutalità di cui ci sono numerose testimonianze. Spesso ubriachi e forse drogati seviziano fino alla morte, strangolano, violentano, squartano addirittura, numerosi prigionieri di cui spesso non conosciamo neppure il nome. Si ha notizia di diciotto persone ma sono molte, moltissime di più.
Il primo maggio 1945 abbandona il Campo diretto in Germania dove al consolato canadese di Hannover riesce ad ottenere un passaporto con il visto per l'entrata in Canada con il suo nome ma dichiarando di essere nato in Estonia e di non essere compromesso con le attività delle SS in Italia. In Canada ci va nel 1951 prima a Prince George nella provincia della Columbia Britannica, poi nel 1956 a Vancouver. Qui frequenta la comunità tedesca e conosce e sposa Christine, mettono su casa, hanno un figlio, sono assidui frequentatori della parrocchia e il parroco testimonia che spesso lui era il primo ad arrivare a messa.

In seguito a diverse denunce, ricevute fin dal 1946, la Procura Militare di Roma apre un fascicolo che viene archiviato nel 1960 e finisce nel famoso “armadio della vergogna”. Scoperto soltanto nel 1994, dopo più di trent'anni, il fascicolo di Seifert viene trasmesso alla Procura Militare di Verona che nel 1999 apre un'indagine a suo carico. Rinviato a giudizio, nel novembre 2000 è riconosciuto colpevole di undici dei quindici omicidi a lui contestati e condannato all'ergastolo, pena confermata poi in appello (2002) ed in cassazione (2003). Il 16 febbraio 2008, dopo lunghe battaglie legali, viene estradato in Italia e trasferito al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (CE) dove muore nel novembre 2010.
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Delitti spaventosi, tre procedimenti giudiziari conclusi con una condanna all'ergastolo. ma la stampa nazionale ne ha scritto pochissimo e la TV forse non ne ha proprio parlato; infatti praticamente nessuno ha mai sentito parlare di Seifert, il “boia di Bolzano”. Come mai? Perché i giornali scrivono cose che possono interessare ai lettori e la grandissima parte della gente pensava, e pensa, che si trattasse di cose vecchie, superate, di cui non aveva alcun senso parlare. Qualcuno ha usato il termine di “archeologia giudiziaria”.
«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre» ha scritto Primo Levi.
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«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» sancisce l'art.27 della Costituzione.
Seifert negli anni 2000, a settant'anni, appariva come una persona per bene, perfettamente integrata nella società di cui faceva parte, come testimoniato anche dal parroco della sua parrocchia, una persona che, secondo una interpretazione psicanalitica, poteva aver rimosso gli orribili delitti commessi a vent'anni, una persona certamente “rieducata”.
Dario Venegoni, presidente dell'ANED, contesta questa interpretazione e afferma che Seifert “non era cambiato di una virgola” e non aveva mai avuto una parola di pentimento.
Aveva senso condannarlo? Certamente sì, la Storia non si cancella, anche per rispetto alle vittime, ma la pena non è una vendetta e alla condanna, cui dare la massima risonanza, avrebbe dovuto seguire la grazia o la commutazione della pena nel divieto di rientro in Italia.
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Santa Maria Capua Vetere era l'unico carcere militare allora in funzione.
“Seifert era recluso in una cella singola con bagno e TV e godeva di due ore d'aria al giorno”, afferma il procuratore Costantini e conferma anche un suo difensore, il suo avvocato canadese dipinge invece la situazione a tinte fosche: 35 gradi nella cella, zanzare a sciami, unghie dei piedi mai tagliate, infezioni e piaghe sulle gambe coperte con della carta perché non c'erano bende ed i secondini avevano rifiutato di prendere quelle portate dalla moglie in occasione di una sua visita.
Nel novembre 2010 Seifert muore all'ospedale di Caserta in seguito a complicazioni cardiache seguite alla rottura del femore provocata da una caduta.
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La salma viene inumata in un loculo del cimitero di Santa Maria Capua Vetere senza alcuna iscrizione ma nei giorni immediatamente successivi camerati che aveva conosciuto durante la prigionia realizzano una lapide in marmo artificiale con nome, cognome e dati anagrafici incisi in oro. La lapide è costantemente adornata con fiori freschi nonostante la richiesta dell'Anpi di traslare la salma in altro luogo segreto. La cosa più semplice sarebbe forse cremare la salma e consegnare l'urna ai parenti.

Franco Isman

Tutte le notizie sono tratte dal libro “La bestia di Bolzano” di Stefano Catone e da Wikipedia



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  23 gennaio 2023