prima pagina pagina precedente



Spezziamo la catena dell'odio
Israele e Palestina: una terra senza promesse.
Umberto De Pace

Palestinian boys
September 2007 - The bodies of two Palestinian boys Yahya Ramadan
Ghazal, 12, and his cousin Mahmoud Mussa Ghazal, 10 who were
killed by Israeli Forces - dal sito Rafah today

E' di ieri l'ennesimo, ulteriore, massacro di più di cento palestinesi nella striscia di Gaza, da parte dell'esercito israeliano, quale ritorsione alla morte di un civile israeliano, avvenuta a causa del lancio dei missili Qassam, da parte di Hamas, sulla cittadina di Sderot; a loro volta lanciati per vendicare l'uccisione mirata di cinque militanti di Hamas, a sua volta effettuata per…
E da tempo che ho smesso di rincorrere le ragioni di una e dell'altra parte, di trovare ogni volta la causa scatenante l'atto quotidiano e ripetuto di nuova barbara violenza, di tracciare i possibili confini tra due popoli martoriati dalla storia, di frugare nel tempo passato il dove e quando è nata questa follia, di misurare, soppesare l'orrore.
Ho smesso, non perché non abbia una mia idea in merito, non perchè non conosca la storia di quella terra e di quei due popoli, non perchè pensi che tutto ciò non serva, ma perché è da tempo, troppo oramai, che tutto ciò non basta, non aiuta a risolvere alcunché.
Vent'anni fa esatti scoppiava nei Territori Occupati da Israele, l'Intifada, la prima, la cosiddetta “rivolta delle pietre”. Per i giovani palestinesi fu la rivolta della speranza.
Cosa saremo per il mondo se non avessimo l'Intifada? Andremmo a scuola, all'università, ma senza dignità. Vogliamo riconquistare la nostra dignità di fronte al mondo…” – con queste parole, Safja, allora ventenne, mi raccontava nella città di Gaza, le sue speranze.
Sappiamo tutti, oggi, che non è stato così. Che quelle speranze sono state spezzate; come allora, venivano spezzate le braccia dei giovani lanciatori di pietre; sono state tradite, da una leadership palestinese, divisa tra fazioni, aggrappata al potere, travolta da scandali e malcostume; sono state umiliate dalla forza arrogante e cieca dei governi israeliani e dei loro protettori internazionali; sono state travisate e barattate con illusorie prospettive di liberazione propugnate dal più bieco fondamentalismo religioso.
Sono passati vent'anni. Non so Safja, cosa pensi oggi, quarantenne, di quanto è accaduto da allora. C'è da temere se sia ancora viva.
Di certo so che la nostra amica Judith, ha preferito alcuni anni fa, con la sua famiglia, lasciare Israele, schiacciata nella morsa di un terrore, dalle sembianza umane, e lacerata dalle scelte di un governo che faceva ciò che faceva anche in suo nome.
Il terrore. Io ho imparato che dietro a qualsiasi maschera si nasconda, è uno solo. L'ingiustizia altrettanto.
Ho visto tutto ciò, negli occhi dei palestinesi, rinchiusi nei campi profughi, di quella Striscia, trasformata in inferno sulla terra.
Ho udito tutto ciò, dalle voci di israeliani, che dall'altro capo del telefono durante le lunghe notti della prima guerra del golfo, si aspettavano da un momento all'altro i missili di Saddam, sulle loro teste.
Sono passati vent'anni da allora. E prima di allora altri vent'anni erano passati dall'inizio dell'occupazione da parte dell'esercito israeliano – avvenuta nel 1967 . E sempre vent'anni prima gli eserciti arabi, entravano in Palestina per opporsi all'appena proclamato, stato Israeliano – era il 1948.
Siam, ventiduenne di Nablus, allora in poche e semplici parole, mi espresse la banalità del bene, così duro da realizzare in quella terra: “Gli israeliani o ebrei, hanno lo scopo di stabilire Israele in Palestina. E io ho uno scopo nella mia vita…quello di stabilire lo Stato di Palestina in Palestina!”.
Non c'è altra strada, non ce n'è mai stata un'altra. Lo sappiamo, lo sanno tutti. E prima o poi, è a ciò che si arriverà. Prima sarà fatto, prima cesserà la carneficina.
Tutto ciò dipende in larga misura anche da noi, dai nostri governi, dall'Europa. Israeliani e Palestinesi, hanno dimostrato di non essere in grado di risolvere da soli il conflitto, i protettori di entrambi, altrettanto.
E' giunta l'ora che altri aiutino, israeliani e palestinesi, a spezzare la catena dell'odio che li tiene avvinghiati in un abbraccio mortale.
Una notte di vent'anni fa, nel campo profughi di Jabaliya, dopo aver posato la chitarra, Daoud inserì nel mangiacassette, una musica, una delle tante, dei giovani di tutto il mondo, di vent'anni fa. Ci augurammo la buonanotte. Mi addormentai guardando dalla finestra della sua stanza, il cielo stellato della Striscia, mentre nella mia mente si susseguivano le immagini e le voci dei tanti ragazzi e ragazze palestinesi incontrati durante il giorno. Ieri, l'aviazione israeliana, ha bombardato duramente il campo profughi di Jabaliya.
Provo oggi, come ieri, un dolore profondo a pensare a tutto ciò che laggiù accade.
Ho smesso, da tempo, di rincorrere le ragioni di una e dall'altra parte. Sono stanco di contare i morti, di vedere le speranze di cambiamento frustrate, calpestate.
Vorrei che Safja, Daoud potessero vivere liberi sulla propria terra, che Judhit, qualora lo voglia, possa tornare a vivere in pace e sicurezza nella propria. Il resto non mi interessa.
E se una speranza, debba ancora esserci, che sia quella di una terra comune, condivisa, senza più divisioni. Ma questa è un'altra storia. Un sogno, per un domani.

Umberto De Pace

EVENTUALI COMMENTI
lettere@arengario.net
Commenti anonimi non saranno pubblicati


in su pagina precedente

  2 marzo 2008