prima pagina pagina precedente



ECONOMIA E DINTORNI

Il popolo delle partite IVA
La Gestione Separata e il non-futuro dei lavoratori indipendenti
Susanna Botta


Il popolo delle partite IVA

Il numero di Report andato in onda domenica 1º aprile su RAI3, ha fatto il punto con chiarezza sull'attuale situazione dei lavoratori indipendenti, ovvero quelli che non possiedono un contratto di lavoro di nessun tipo, né a tempo determinato né a tempo indeterminato, e che non appartengono a nessuna delle categorie di lavoro professionale tradizionale, per intenderci quelle degli avvocati, dei notai, degli ingegneri, dei medici, dei giornalisti, ecc., organizzate in albi professionali e generalmente dotate di una propria cassa previdenziale e assistenziale.

Tutti costoro, e sono alcuni milioni, costituiscono quello che viene frequentemente definito il "popolo delle partite IVA". Come si può immaginare si tratta di un gruppo di lavoratori assai eterogeneo, composto prevalentemente da soggetti con scolarità elevata, che operano nel cosiddetto settore "della conoscenza", denominazione che abbraccia l'intero spettro di competenze che vanno dalla grafica alla fotografia, dalla multimedialità alle tecniche comunicative, passando per lo spettacolo, l'editoria, la consulenza aziendale, la mediazione culturale con le sue infinite declinazioni, come l'interpretariato e le traduzioni. Occasionalmente, e non troppo occasionalmente, di questo mondo entrano a fare parte anche figure professionali che per vari motivi, pur appartenendo a categorie di lavoro professionale "tradizionale", rappresentano la fascia contrattualmente e generazionalmente più debole delle rispettive professioni, come tale esclusa da quelle che vengono definite "le rendite di posizione" prevalenti all'interno degli ordini.

Per tutti costoro, per i quali fino al 1995 non esisteva alcun obbligo di versare contributi previdenziali, se non la cosiddetta "tassa sulla salute", né tantomeno alcuna possibilità di costruirsi volontariamente una pensione o un'assicurazione sanitaria nell'ambito del sistema pubblico, è stato introdotto, a partire dal 1996, l'obbligo di partecipare, secondo il sistema contributivo, alla costituzione del fondo di previdenza dell'INPS denominato Gestione Separata. Inizialmente i contributi dovuti erano pari al 10%, e gradualmente sono stati portati all'attuale 27,7% per essere con tutta probabilità, secondo il testo del disegno di legge presentato oggi dal governo Monti, innalzati al 33% entro il 2018.

Di suo, la Gestione Separata, presenta alcune specificità:
1) il contributo del 27,7% (futuro 33%) sul reddito lordo è dovuto soltanto fino al reddito di 100.000 euro annui, oltre questa soglia non sono dovuti ulteriori tributi alla GS.
2) il contributo è interamente a carico del lavoratore, con la facoltà, ma non l'obbligo, di addebitare in fattura al proprio committente il solo 4%, a titolo di rivalsa INPS.
3) l'età minima di pensionamento, per le lavoratrici autonome, è fissata per il 2012 a 63 anni e 6 mesi, contro i 62 anni delle lavoratrici dipendenti.
4) al raggiungimento dell'età anagrafica richiesta, il lavoratore iscritto alla GS potrà andare in pensione all'età minima prevista soltanto se l'ammontare della pensione che gli spetta è pari ad almeno una volta e mezzo l'importo della pensione sociale (attualmente pari a circa 500,00 euro mensili), altrimenti dovrà aspettare di compiere settanta anni.
5) in caso di ritardo nei versamenti, l'INPS non consente il meccanismo del ravvedimento operoso, in base al quale è possibile versare in ritardo quanto dovuto, con l'aggiunta degli interessi e delle sanzioni previste, ma occorre attendere l'invio dell'avviso bonario, inviato dopo qualche anno per posta raccomandata, con il quale l'INPS comunica l'importo da versare, comprensivo di sanzione del 10%, interessi e spese. Qualora il destinatario non provveda al pagamento, o non riceva o non ritiri la raccomandata, arriverà la cartella esattoriale con il 30% di sanzione, più interessi e spese di riscossione di Equitalia. Accade così che per un ritardo di pochi giorni ci si trovi in un vicolo cieco, dal quale si potrà uscire soltanto a prezzo di un costo quasi raddoppiato rispetto al tributo originale.

Ed è proprio questo il punto: quello che viene presentato come un sistema a favore del lavoratore, per consentirgli di guardare alla propria vecchiaia con tranquillità, si rivela di fatto una ulteriore imposta, ma priva dei requisiti costituzionali della progressività (a differenza delle imposte sul reddito, l'aliquota è fissa e, come si è visto, gravante solo sulla fascia di reddito più bassa).
Per finire, veniamo alle caratteristiche più specificamente "pensionistiche" del sistema contributivo.
Il meccanismo è semplice: tutti i contributi versati dal lavoratore concorrono a formare il "montante contributivo", che costituisce la riserva, formalmente individuale per ciascun lavoratore, alla quale attingerà l'INPS per erogare la pensione al momento previsto dalla legge.
Il montante viene come è logico rivalutato nel corso del tempo, in base ad un coefficiente matematico che dipende dall'andamento del PIL degli ultimi cinque anni: più alta la crescita del paese, maggiore la rivalutazione. Non è dunque previsto alcun collegamento specifico con l'eventuale inflazione. In tempi di crescita zero o quasi zero, ci si chiede cosa potrà avvenire ai nostri montanti ...
Al momento di andare in pensione, l'importo rivalutato viene moltiplicato per un altro coefficiente, modificabile e modificato periodicamente dal governo, in base all'età del pensionato, alle aspettative di vita collettive e ad altri parametri non pubblicizzati e non comunicati dall'INPS così da ottenere l'effettivo importo della pensione annuale erogata al lavoratore.

In parole povere: secondo calcoli effettuati dai patronati prima dell'entrata in vigore della nuova legge varata dal governo Monti, un lavoratore autonomo che versa contributi dal 1996, con un reddito medio, negli ultimi venti anni, di trentamila euro lordi, avrebbe percepito a 64 anni una pensione di circa 700 euro mensili, naturalmente lordi, salvo che al momento attuale dovrà invece attendere fino ai settanta anni per poterla incassare, dato che l'importo non è pari ad una volta a mezzo quello dell'assegno sociale.
Il disegno di legge presentato oggi dal governo Monti sembra ignorare del tutto la specificità di questi lavoratori, o meglio, preferisce pensare, d'accordo con i sindacati maggioritari, che siano tutti delle "false partita IVA", il cui unico obiettivo è quello di essere al più presto ricondotti al più salutare e rassicurante grembo del lavoro dipendente (prospettiva peraltro del tutto anacronistica e irrealistica). In quest'ottica va interpretato l'aumento dei contributi INPS al 33%. Questo, a voler pensare bene, perché a pensare male sorge il dubbio che si tratti semplicemente dell'ennesimo ricorso al metodo più semplice per fare cassa.

Susanna Botta


EVENTUALI COMMENTI
lettere@arengario.net
Commenti anonimi non saranno pubblicati



in su pagina precedente

  10 aprile 2012