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Lavoro e ancora… lavoro
Umberto De Pace

lavoro

Non capita spesso di leggere articoli che in modo diretto e con parole semplici raccontino la realtà così come noi cittadini la viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, interpretandone al contempo anche i sentimenti e le sensazioni che gran parte di noi provano di fronte agli avvenimenti che stiamo attraversando. E' ciò che Luca Ricolfi nel suo editoriale, su La Stampa del 20 luglio scorso, dal titolo “Troppi rinvii sul vero problema”, a mio avviso è riuscito a fare.

Nel suo incipit Ricolfi sintetizza quella che, anche a mio avviso, è una sensazione diffusa: la percezione di una politica che non si rende “minimamente conto di quanto stia peggiorando la situazione economico-sociale dell'Italia. E proprio perché non se ne rende conto, continua a trastullarsi con un'infinità di dibattiti e manovre di palazzo, leggi e leggine, super-riforme e riformette, tutte di per sé importanti e degne di attenzione, ma accomunate da un unico elemento: di non andare al nucleo del problema italiano, rimandando ogni volta al futuro le scelte che contano.”. Tutta la politica, sottolinea l'autore, come non dargli torto. Ma allora qual è il vero problema dell'Italia? Il lavoro e nello specifico il bassissimo tasso di occupazione che pone il nostro paese ultimo fra i paesi europei avanzati (Ocse). Il baratro che ci separa dal tasso di occupazione di paesi quali la Norvegia e la Svizzera per essere colmato richiederebbe la cifra spaventosa di 12 milioni di nuovi occupati, ma anche se solo volessimo allinearci alla media dei paesi Ocse dovremmo essere capaci di creare 6 milioni di nuovi posti di lavoro.

Ricolfi analizza nel suo articolo le ragioni del nostro principale problema e avanza le sue proposte, distribuisce le sue critiche e al di là della condivisione o meno che si può avere delle sue argomentazioni rimane fuori dubbio la lucidità con la quale centra il problema. Federico Fubini nel suo recente libro “Recessione Italia. Come usciamo dalla crisi più lunga della storia”, sottolinea come: “ La gran parte delle persone fatica a capire razionalmente e in modo complessivo quello che sta succedendo in Italia”- affiancandosi alle preoccupazioni di Luca Ricolfi per un paese nel quale “… il benessere raggiunto alla fine del XX secolo e la ricchezza accumulata dalle due generazioni precedenti erano così elevati che oggi ne beneficiamo ancora, e proprio per questo non siamo pronti ad una reazione. Stiamo cadendo, ma siamo partiti da così in alto che non intravediamo il suolo. I margini per pensare che tutto sommato ce la caviamo ancora bene, che le cose si raddrizzeranno, che – insomma – si tratta solo di passare la nottata della crisi, quei margini di autoconsolazione o speranza sono ancora intatti. Non avere un lavoro è brutto, ma vivere dei redditi dei padri, dei mariti o dei nonni è comunque meglio che fare la fame”. Più che difficoltà a capire direi che la gran parte delle persone, venuto meno quel legame solidale e di ideali che fino a (l'altro) ieri garantiva forme di condivisione nell'interpretazione della realtà e delle prospettive di cambiamento, oggi trova rifugio e sicurezza in quei legami famigliari e ad essi più vicini, che giustamente Ricolfi avverte non sono eterni ma che, sia pur momentaneamente, sono fonte di sicurezza. Sempre secondo l'autore dovranno passare ancora alcuni anni prima che prenda corpo una reazione all'altezza della situazione e nel frattempo “ … la politica avrà agio e modo di occuparsi d'altro, come, con il nostro distratto consenso, sta facendo da sempre.”.

Ma cosa serve ancora alla politica per rendersi conto del punto in cui siamo?
Dopo il parziale sblocco dei pagamenti avvenuto all'inizio dell'anno (ampliato dall'apertura di “cassa” che avviene sempre con l'inizio del nuovo anno); dopo alcuni lievi, appena percettibili segnali di “ripresa” avutisi nei mesi da aprile a giugno, sembra nuovamente di essere in quell'interminabile limbo che ha caratterizzato questi ultimi anni. Sicuramente le ultime inchieste su Expo e il Mose hanno dato adito alla politica pavida di non assumersi nuovamente le proprie responsabilità: prima non prevedendo o capendo ciò che ai più era chiaro, oggi prendendo tutte le cautele per far uscire anche uno spillo dalle proprie casse. Si, perché le persone oneste sono sempre penalizzate due volte: la prima quando i disonesti commettono le loro prodezze con la complicità o la cecità di chi dovrebbe controllare e governare la cosa pubblica; la seconda volta quando chi controlla e governa la cosa pubblica blocca incarichi, finanziamenti, non prende decisioni, non si assume responsabilità se non dietro montagne di burocrazia, per paura di essere accusato di ciò che appena prima era successo. Questa è la realtà. Così come è una realtà la continua, inenarrabile battaglia che nel mondo del lavoro si conduce per portare a casa il proprio guadagno. Oramai in prima fila non ci sono solo gli Enti Pubblici per i quali, checché ne dica il ministro Padoan offeso dalle condanne Europee, il ritardo nel pagamento non si aggira sui 120 o 180 giorni di ritardo (queste le stime dei fortunati che rientrano nelle stime) ma si parla per molti dei 200, 300 giorni che, certo paragonati ai precedenti 365, 730, 1095 sono manna dal cielo ma, per alcuni nel privato ciò si traduce nel mai più o, per quelli “fortunati” nel: “se vuol favorire del 50% … se no veda lei, può sempre denunciarmi” (tanto la legge è dalla sua parte con i tempi biblici e i soprattutto con i tassi d'interessi ridicoli applicati ai debitori). E la piazza Milano, in tal senso, è una delle peggiori, oltre ad ospitare come ben sappiamo, corrotti e corruttori, non manca di gente che fa le proprie fortune sulle risorse degli altri. Inoltre non va dimenticato che il mondo del lavoro sta continuamente deteriorandosi dal punto di vista della professionalità, dell'affidabilità e della sicurezza. E, purtroppo, sotto certi aspetti ciò è inevitabile. La pesante crisi di questi anni se da una parte ha portato ha una progressiva pauperizzazione e a una riduzione della forza lavoro, dall'altra ha costretto la rimanente parte a fare i conti con una concorrenza spietata al ribasso. Se a ciò affianchiamo una inadeguata (per usare un eufemismo) politica di controllo e applicazione delle regole – un esempio eclatante fra tutti la città di Prato con le sue tessiture e l'immigrazione dalla Cina, ma sappiamo tutti che non è l'unico esempio – e una pachidermica legislazione tesa alla cosiddetta regolamentazione degli appalti dei lavori pubblici e più in generale a tutto ciò che ruota intorno al mondo del lavoro, il risultato non poteva che essere quello di mettere ai margini le forze produttive e sane del paese, spalancando la porta a chi coltivava unicamente i propri interessi di parte, se non criminali, senza pensare minimamente al bene comune del paese. Perché i criminali, i malfattori o anche soli i furbi, hanno sempre le carte in regola, questo è il loro mestiere, mantenere le “carte” in regola per fare i propri affari. Ma non dovrebbe essere difficile capire che più si semplificano le cose, più si rendono accessibili, più si apre la possibilità ai cittadini di accedere alla cosa pubblica più si garantisce la trasparenza e la partecipazione, più ne trae beneficio la gente, la democrazia, il paese. Federico Funbini ci ricorda come Sam McClure, giornalista all'epoca di Theodor Roosevelt, dicesse: “ La vitalità della democrazia dipende dalla conoscenza popolare di questioni complesse”. Se ciò è vero, concordo con Fubini, oggi la democrazia italiana è piuttosto bassa ma, aggiungo, non per mancanza di comprendonio da parte del popolo, quanto dalla inveterata capacità di chi ci governa di rendere complesse le cose semplici.

E quindi, come ne usciamo dalla crisi più lunga della storia? Innanzitutto ponendo al centro dell'impegno di tutti il tema del LAVORO. Non ci sono altre priorità e nel far questo occorre una sinergia e un impegno da parte di tutte le forze sane di questo paese affinché si adottino le politiche più adatte a permettere una ripresa della produttività e dell'occupazione. Per fare ciò occorre non solo innovare – e in questo non ci mancano gli esempi nostrani di eccellenza – né valorizzare la tradizione – e anche in questo non ci mancano gli innumerevoli esempi – ma occorre rendere competitiva la nostra capacità produttiva abbassando il costo del lavoro, semplificando la giungla legislativa e normativa, cautelando i creditori onesti, agevolando l'accesso al credito, sviluppando la ricerca, valorizzando le intelligenze e professionalità per la tutela, salvaguardia e trasformazione del proprio territorio. Occorre impostare un nuovo modello di sviluppo che abbia al centro il bene comune e non solo il proprio tornaconto come è oggi e come è stato inculcato nelle menti di tutti, particolarmente in questi ultimi vent'anni. Sono certo che ce la possiamo fare, ma sono altrettanto certo, al pari di Luca Ricolfi, che ci vorranno ancora alcuni anni. Non disperiamo.

Umberto De Pace

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  28 luglio 2014