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Kobane alla fine del mondo
Umberto De Pace

Kobane

A Kobane si muore.

Si muore sotto i colpi di artiglieria dell'esercito di un improbabile Stato Islamico, determinato ad espandersi ogni dove la disintegrazione di altri due Stati, l'Iraq e la Siria, glielo permetteranno.
Si muore per i colpi di mitragliatrice sparati dai combattenti curdi decisi a difendere fino all'ultimo uomo, fino all'ultima donna, la loro città.
Si muore imbottita di esplosivo, nell'estremo disperato tentativo di spezzare l'assedio e dare una speranza per il futuro ai propri due figli.
Si muore a 19 anni per un colpo di pistola alla tempia, non avendo più scampo dopo aver combattuto fino all'ultimo, cosciente che una donna pagherebbe ancor più atrocemente, oltre la morte, la propria resa.
Si muore sotto i colpi di fucile e i gas lacrimogeni dell'esercito turco che impedisce ai curdi di qua della frontiera di portare aiuto ai propri fratelli al di là di quella sottile linea immaginaria, tracciata sulla terra arida e polverosa, sulla quale sostano altri militari turchi, assistendo immobili al fragore della battaglia che si combatte casa per casa di fronte a loro.
Si muore alla frontiera, in attesa di un permesso per accedere all'ospedale, perché per il governo di Ankara i curdi sono terroristi al pari dei miliziani dell'Is.
Si muore sotto le bombe sganciate dagli aerei statunitensi e dai loro alleati, che dall'alto del cielo, dove sono padroni, tentano di ridisegnare il destino di chi a terra se lo gioca mescolando al proprio sangue, il fango e il sudore, la rabbia e la paura.
Si muore al volante di un'autobotte piena di gasolio e di esplosivo, lanciata a tutta velocità all'interno della città per spezzare l'ultima accanita resistenza curda, con il cervello anestetizzato da apprendisti stregoni e blasfeme promesse di un premio nell'aldilà.
Si muore perché quel grumo di terra è una piccola pedina di un grande gioco a più livelli, dove la posta non è la vita o la morte di un pugno di essere umani, che poco importa, ma equilibri geopolitici locali, regionali e globali.
Si muore perché l'odierna battaglia è una nota a piè di pagina dell'infausta “guerra al terrorismo”, che più di vent'anni fa Bush decise improvvidamente di iniziare e che da allora non ha fatto altro che alimentare e rinvigorire le sue presunte vittime, riproducendo interminabili schiere di nuovi carnefici.
Si muore perché le armi sono alla portata di chiunque al mondo le voglia usare; sono più facilmente reperibili di un farmaco per un malato, di un pezzo di pane per un affamato, di un sorso d'acqua per un assetato.
Si muore perché la democrazia non si esporta con le armi e non si costruisce con la discriminazione e l'oppressione, né può reggere su basi etniche o confessionali, ce lo insegna la storia; l'abbiamo visto in Afghanistan, in Somalia, in Libia, in Iraq, lo vediamo oggi in Siria.
Si muore perché il presunto Stato Islamico non taglia solo vigliaccamente gole di prigionieri inermi o crocifigge le sue vittime, ma distribuisce prebende, amministra territori, vende barili di petrolio e, almeno fino a ieri, riceveva aiuti e finanziamenti da un vero Stato, l'Arabia Saudita, che oltre a distribuire prebende e amministrare territori, taglia tutt'ora le gole ai suoi veri o presunti delinquenti.
Si muore perché lo dice il rappresentante dell'Onu, che teme un'altra Srebrenica, un altro genocidio. Quella stessa Onu che ha lasciato massacrare sotto i suoi occhi un intero paese, il Ruanda, e che oggi, rimane ancora una volta a guardare.

A Kobane si muore, come si muore in altri luoghi della Siria, dell'Iraq, della Libia, della Somalia, dello Yemen, della Palestina, dell'Afghanistan, dell'Ucraina e di tanti altri luoghi ancora.
Kobane non è la fine del mondo, ma dovremmo fare in modo che lo fosse. Dovremmo fare in modo che Kobane diventi il principio della fine di questo mondo, in cui una comunità internazionale cinica e ipocrita, lascia che a combattere il gruppo Stato Islamico siano i curdi, definendoli, gli uni e gli altri “terroristi”, senza volersi sporcare le mani, senza voler mescolare il proprio sangue a quello delle vittime. Perché è questo che oggi occorre; oltre agli aiuti umanitari, oltre al blocco dei finanziamenti, dei rifornimenti militari, del mercato del petrolio nei confronti del gruppo Stato Islamico; oltre all'improcrastinabile urgenza di una serrato lavoro diplomatico, che porti al cessate il fuoco e a tavoli di trattativa tra le forze in conflitto, nei principali focolai di guerra oggi accesi nel mondo, a partire dalla Siria, dall'Iraq e dalla Palestina; a Kobane occorre intervenire via terra, e se questo compito non è in grado di assumerlo la comunità internazionale, che si dia pieno sostegno e aiuto ai combattenti curdi affinché lo facciano non solo per la propria sopravvivenza ma anche in sua vece. E se ci chi pensa che dopo aver contribuito a fare in modo che tutto ciò accadesse, basta bombardare dall'alto dei cieli per sentirsi con la coscienza a posto, non farebbe che commettere l'ennesimo tragico errore.
Se Kobane la facessimo diventare la fine di questo mondo, il sacrificio degli uomini e delle donne curde non potremmo dire, un domani, che sia stato vano.

Umberto De Pace

P.S.: I curdi che stanno combattendo a Kobane provengono per lo più dal Ypg (le Unità di difesa popolari) che è l'ala militare del Partito dell'unione democratica (Pyd) – la sezione siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Purtroppo non mancano le lotte intestine all'interno dello stesso popolo curdo. In questi ultimi anni il Pyd nella sua lotta per l'egemonia politica non ha esitato a eliminare o emarginare i rivali politici, come denuncia un rapporto di Human Rights Watch del 8/07/2014. Molti dei curdi che cercano di entrare dalla Turchia in Siria, per andare a combattere, sono militanti del Pkk il cui leader, Abdullah Ocalan, dal 1999 è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza turco. Ocalan fu catturato in Kenya dopo essere stato costretto a lasciare l'Italia a causa delle pressioni del governo turco e dell'ignavia del governo D'Alema. La magistratura italiana dopo alcuni mesi gli concesse, postumo, l'asilo politico. In tutti questi anni la Turchia è stata comunque costretta a trattare con Ocalan le questioni relative alla causa curda. In questi giorni mentre il gruppo Stato Islamico propaganda la sua avanzata mostrando gole tagliate e corpi crocifissi, i combattenti curdi la propria propaganda l'accompagnano con “Bella ciao”. Non lo merita l'Italia di oggi, ma possiamo esserne orgogliosi grazie al sacrificio e all'insegnamento dei nostri padri.


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  11 ottobre 2014