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PALESTINA E ISRAELE

Refusnik
La parola ai dissidenti
Tania Marinoni

foglie di olivo
"I buoni volano"

Il 22 agosto, la nostra prima sera a Gerusalemme, Luisa Morgantini, presidente di AssoPace Palestina, ci fa conoscere due giovani israeliani che ci portano la loro testimonianza di dissidenti nei confronti della politica perpetrata dal governo del loro Paese. Sono “refusnik”: così vengono denominati coloro che rifiutano il servizio militare, obbligatorio in Israele sia per gli uomini che per le donne.

Taya è nata vent'anni fa a Tel Aviv e per parecchio tempo nulla conosceva dell'occupazione coloniale e delle condizioni di segregazione inflitte ai palestinesi. Nonostante la contiguità con i territori occupati e la Cisgiordania, infatti, in Israele l'informazione veicolata dai media risulta estremamente scarsa. Per capire la realtà dei fatti occorre essere testimoni oculari e recarsi nei luoghi della sopraffazione, ammonisce la giovane. E' un viaggio in Polonia, nei luoghi dell'olocausto, ad indurla a riflettere sulla storia dello stato in cui vive. E' il viaggio nella tragedia di un intero popolo, il suo, a rivoluzionare irreversibilmente la sua sensibilità. Decide di servire il suo paese non con le armi, ma attraverso il servizio civile, attività che la impegna attualmente. Milita come attivista in “New profile”, un'associazione che fornisce supporto ai giovani “refusnik”. Taya organizza campi estivi per adolescenti e meeting ai quali partecipa direttamente; incontra gruppi e abitanti dei villaggi, spesso colpiti da un gravissimo provvedimento: dichiarati infatti “riserva naturale”, vengono legalmente confiscati.
Gli attivisti operano sul campo, fornendo aiuto ai palestinesi in termini di manodopera durante la raccolta delle olive, oppure monitorando le disposizioni adottate dal governo israeliano e le nefaste conseguenze che ne derivano: i palestinesi devono intraprendere tragitti molto più impegnativi di quello che potrebbero essere se le strade non fossero interdette al loro transito; l'obbligo per le ambulanze di fermarsi ai check point rende poi impossibile garantire un tempestivo primo soccorso.

Udy deve alla sua coscienza critica e ai valori di pace che abbraccia fin dalla giovane età il rifiuto a prestare servizio militare. Nonostante i fratelli, il padre e i vicini di casa abbiano servito tutti nell'esercito, si riconosce da sempre contrario ad ogni forma di violenza. Fatica ad accettare un sistema improntato sulla militarizzazione e sulla forza come quello israeliano: ogni luogo viene piantonato da soldati in assetto di guerra e sulla quotidianità grava il carico tremendo di una sorveglianza assurda. Del viaggio che ha intrapreso in Europa conserva nella sua memoria la meraviglia e lo stupore nel constatare l'assenza di armi sui mezzi di trasporto pubblico: avvezzo alla costante presenza di soldati nel suo paese, i suoi occhi ne cercano invano lo schieramento ovunque. La società israeliana considera il servizio militare come un dovere che ogni cittadino deve compiere in segno di riconoscenza verso lo Stato. “Per i migliori, e con una severa selezione, esiste la possibilità di essere ammessi a frequentare una normale università a spese dell'esercito, con l'obbligo di una ferma successiva di molti anni. Il rifiuto di fare il servizio militare comporta l'arresto” scrive Franco Isman nell'agosto dello scorso anno in “Intervista a un giovane israeliano”.
Chi si oppone al servizio militare viene ritenuto un traditore, o quanto meno autore di una grave forma di ingratitudine. Lo stereotipo del buon soldato impone l'immagine del giovane forte e duro: chi non soddisfa i requisiti richiesti viene escluso, al pari di un parassita. Alcune categorie sono tuttavia esonerate dal servizio militare: i cittadini affetti da patologie fisiche o mentali, quelli interessati da fragilità psicologiche, o colpiti da difficoltà economiche, le donne sposate, gli arabi residenti in Israele, ad eccezione dei Drusi, tristemente noti per l'eccessiva solerzia con cui militano nell'esercito e nella polizia.
Israele chiama alle armi circa il 40% dei giovani e concede in teoria l'alternativa del servizio civile. Udy, giunto all'età di leva, supera tutti i test per esserne ammesso ma non gli viene concesso, si reca quindi alla base militare e annuncia che non risponderà alla chiamata. Viene per questo condannato a 70 giorni di reclusione, che sconta in un periodo non continuativo di quattro mesi.
Da sempre il giovane percepisce la sua estraneità ad una società fondata sulle armi, in cui perfino le relazioni di amicizia si basano su una condizione imprescindibile: l'espletamento degli obblighi di leva. Ma se il rifiuto sul piano personale genera tensioni nel rapporto con i coetanei, a livello collettivo assume una forte valenza dimostrativa: in Israele l'obiezione di coscienza non si esercita mai con un'azione individuale, ma di gruppo. Le ragioni di tale scelta vengono illustrate in una missiva, che, firmata, viene inviata al ministero e sottoposta all'attenzione dei media: l'eco generata è così sensibilmente superiore rispetto ad un atto singolo ed isolato.

Entrambi i giovani definiscono la propria famiglia come “sionista di sinistra”. Il sionismo di sinistra viene considerato un movimento di apertura nei confronti del popolo palestinese e la famiglia di Udy ha permesso infatti che il giovane frequentasse una scuola mista e cioè assieme ai palestinesi. Tuttavia, pur attribuendo ai palestinesi pari dignità, chi aderisce a questa corrente politica, crede che, essendo questi una minoranza, come tale debbano continuare a vivere.
Nonostante le nuove generazioni siano tuttora sottoposte ad un severo processo di indottrinamento, non è insolito incontrare interessanti forme di opposizione alle convinzioni imperanti.

Tania Marinoni

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  21.10.2015