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PAROLE SCOMPIGLIATE
La colpa di nascere
Covering Venezuela. Giorno 3
Barbara Schiavulli su Radiobullets.com


Il futuro di Ismael ha la consistenza di una foglia che cade da un albero in autunno. E' nato nel momento sbagliato, nel posto sbagliato, dalla madre sbagliata. Tra dieci giorni compirà un anno e nella sua vita fatta di 354 giorni ha già vissuto l'inferno. Tutto quello che non si augura ad un bambino è lì davanti a me. Muove gli occhi, si agita, accenna a sorridere, sembra piacergli l'attenzione. Anche perché è un bambino solo come può essere una persona che non ha nessuno e che nessuno vuole. Un bambino che mendica affetto e che ha trascorso la vita ad essere respinto. E' un bambino malato, soprattutto per questo nessuno si interessa a lui. E' stato abbandonato tre volte, è stato derubato, è talmente malnutrito che i suoi muscoli non si sono sviluppati. Ad 11 mesi e 20 giorni, non cammina, non gattona, ha il fisico di un neonato di tre o quattro mesi. Ha la scabbia che non si riesce a curare perché di fatto le uniche persone che si prendono cura di lui sono degli estranei che quando possono vengono a dargli un po' di affetto, gli portano qualche pannolino, creme, la bacinella per fargli il bagno, qualche vestitino, tutte cose che vengono regolarmente rubate dalle infermiere, da altre madri, da chi passa e sa che quel bimbo non ha nessuno. Ha vissuto in ospedale sei mesi della sua vita e l'unica cosa che fa è guardarti come se volesse entrarti dentro e ogni tanto sorridere.

Mi trovo all'ospedale universitario di Caracas, uno dei principali ospedali del paese, arrivavano da ovunque per essere curati lì. O per morire. Lavorano 10 mila persone all'ospedale, ci sono 1200 letti, ma al reparto di pediatria ci sono 3 infermiere per 44 bambini. Lo stipendio mensile di un'infermiera è di 8 euro. Per essere ammesso in ospedale devi garantire di poterti pagare da mangiare e tutte le cure, perfino la divisa e la mascherina del medico se devi essere operato, senza contare i medicinali, le siringhe a volte perfino le apparecchiature. Fino a cinque anni fa, l'ospedale universitario, come in genere sono gli ospedali universitari, era un fiore all'occhiello nel paese. Ora il fiore è completamente appassito. All'entrata un nugolo di gente, l'odore è pesante, l'umidità dell'aria ti si appiccica addosso. C'è la milizia davanti al pronto soccorso che insieme ai collettivos, civili armati dall'amministrazione del presidente Maduro, molto temuti dalla gente, controllano chi entra e chi esce. Qualcuno dice che rubano, che fanno il brutto e cattivo tempo. Entriamo senza dare troppo nell'occhio, i giornalisti non sono certo amati. E così divento l'amica italiana in visita ad Ismaele. Mi tengo stretta la borsa, cerco di respirare col naso illudendomi che faccia meno male rispetto a qualsiasi cosa cui possa essere esposta.

Funziona un solo ascensore che va in su, ma scoprirò solo successivamente che non riporta le persone giù, quindi malati, donne incinte, gente col gesso devono fare le scale. In ascensore c'è una donnona seduta su una sedia che mi domando come la regga, lavora a maglia e dopo che la gente è salita e ha detto in che reparto deve andare, schiaccia i bottoni dei piani come se fosse un'operazione chirurgica. Le sue unghie sembrano quadri, lunghe, decorate perfettamente con dei microscopici disegnini che catturano lo sguardo di chi sale. Andiamo all'ottavo piano in pediatria e andiamo da Ismael dove conosco Juan Jimene, di un'organizzazione per i diritti umani. Lui è commissario per la salute. Un raggio di sole in quel posto buio. E ovviamente ha un sacco di problemi. Il suo lavoro è andare in giro, parlare con i pazienti e cercare di aiutarli a risolvere i loro. Molti non hanno più soldi, molti non sanno come reperire i pezzi che servono, nel caso di Ismael sta cercando di portarlo fuori dall'ospedale per portarlo in una casa sicura, ma fino a che non guarirà dalla scabbia nessuno lo accoglie. Per essere un bambino di neanche un anno, ha una biografia del terrore. Nato da madre tossicodipendente, senza padre, viene portato via dai servizi sociali con una grave forma di malnutrizione, portato in ospedale, gli viene trovata una famiglia che vuole adottarlo, spiegano loro tutti i problemi e come curarlo e accettano, ma dopo solo 24 ore, lo riportano indietro e lo abbandonano di nuovo. Dopo qualche settimana si palesa uno zio, la Ong di Jimene promette di fornire cibo, pannolini, vestiti, tutto quello che serve per tirare su il bimbo. Lo zio lo porta a casa, ma non vuole cose, vuole soldi. Gli dicono di no che gli daranno tutto quello che può servirgli. Dopo due mesi lo zio torna in ospedale, lascia il bambino su una sedia e se ne va. Le condizioni di Ismael sono disastrose per quanto è malnutrito. D'allora è lì. Freneticamente si cerca un'infermiera disposta per 10 euro al mese, a vegliarlo, accudirlo, abbracciarlo e ad impedire che gli rubino tutto. In questa organizzazione indipendente lavorano 600 persone, organizzano corsi sui diritti umani e la salute, raccolgono bambini di strada, seguono adolescenti e adulti, cercando anche di raccogliere le testimonianze delle violazioni dei diritti nelle carceri. —- La vita qui non vale più niente – mormora Jimene – se noi non riusciamo a difendere i diritti di queste persone è perché il governo è il primo che li viola”. Quando lasciamo Ismael ha quattro pannolini in tutto. Se non verranno rubati, le infermiere cercheranno di farli durare il più possibile, l'ultima volta hanno dovuto ritagliare a forma di pannolini le copertine quelle usa e getta che si mettono di solito nei lettini.

Scendiamo per le scale al secondo piano dove c'è neurochirurgia, stiamo cercando la madre di un bambino idrocefalo che ha bisogno di una valvola, ma ci imbattiamo in una signora seduta sul letto accanto alla figlia. “Tutto bene?”, chiede Jimene. E la donna esplode come un fiume in piena di lacrime e parole. Marilin ha 47 anni ed è una bomba ad orologeria. Nel suo cervello c'è un aneurisma che andrebbe operato, ma manca un ricambio per il microscopio che dovrebbe usare il chirurgo e costa 1500 dollari. Se lei non li trova, loro non li hanno. Sta in ospedale da 11 mesi. Aspetta da 11 mesi. La figlia che va a trovarla ogni giorno con il suo bambino è stata aggredita e derubata all'interno dell'ospedale. Piange la madre, piange la figlia, non ce la fanno più. Jimene prendente appunti, si segna i loro numeri, promette di aiutare, mentre uno scarafaggio si arrampica sul muro godendosi la sua tranquilla esistenza. E' il padrone di quel posto.

Negli ultimi mesi la malnutrizione dei bambini è aumentata in modo esponenziale, la mortalità materna è salita del 65 per cento dall'anno scorso, quella infantile del 30. All'ospedale pediatrico cardiologico di Caracas, l'unico che fa certi tipi di operazione al cuore, solo la metà delle sale operatorie sono funzionanti, 40 mila bambini sono in lista di attesa per essere operati secondo l'Osservatorio della salute venezuelano. Secondo la Federazione venezuelane delle farmacie, l'85 per cento dei farmaci sono introvabili. La gente è costretta ad andare nei paesi vicini se hanno bisogno, o tentare al mercato nero se possono permetterselo.
Jimene mi appoggia una mano sulla spalla e quando usciamo sbuffa arrabbiato. “Il Venezuela parla solo di politica mentre invece non vuole vedere che sta morendo”.


PAROLE SCOMPIGLIATE
Giorno 1 - Le lacrime del Venezuela
Giorno 2 - Il lusso di far pipì
Giorno 3 - La colpa di nascere

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  20 agosto 2017