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Parole
L'umanità al tempo del coronavirus
Umberto De Pace

Non siamo in guerra anche se, in questo momento particolarmente difficile, la metafora si presta facilmente all'uso nell'eloquio quotidiano, nei reportage giornalistici, per non parlare della sempre fantasiosa retorica politica. Non va demonizzato il suo utilizzo nel nostro specifico frangente, ma ciò non toglie che vale la pena riflettere sull'uso e sul significato delle parole che utilizziamo.
Non siamo in guerra perché non stiamo agendo o subendo un conflitto armato, e questo è ovvio, ma anche l'uso estensivo o figurativo di tale termine sarebbe opportuno evitarlo. Innanzitutto quale riconoscimento delle troppo guerre in corso, reali, concrete e devastanti: dalla Siria, allo Yemen, alla Libia, all'Afghanistan, solo per citare le principali.


In secondo luogo, trattandosi della parola guerra, occorre avere rispetto per le sue vittime che ogni giorno, da anni, in alcuni casi da decenni, subiscono le atrocità, i patimenti e le sofferenze che ogni guerra porta con sé. Non va usata anche per non rafforzare scelte ipocrite, come quella di non soccorrere i profughi di guerre vere, perché in fondo siamo anche noi in guerra. Infine, ultimo motivo per usare correttamente la parola, ma non meno importante, è quello della responsabilità, che ognuno di noi in questo momento e ancor più dopo, terminata l'emergenza in corso, si deve e si dovrà assumere. E per fare ciò non occorre enfatizzare né estremizzare o distorcere la realtà attraverso l'uso improprio delle parole. Sui nostri ospedali non piovono bombe come in Siria, ma mancano posti letto, macchinari e dispositivi di protezione. Le strade dei nostri quartieri non sono percorse da camion imbottiti di tritolo lanciati su gente inerme, come in Afghanistan, ma da ambulanze che ogni giorno portano i nostri malati agli ospedali, oppure, ancor più tristemente, da camion militari che portano le bare dei nostri cari ai forni crematori di altre province.

Ai “confini” delle nostre città, province e regioni, non subiamo violenze e soprusi e, fatto salvo alcune fasce marginali più deboli e fragili, non ci manca l'acqua o il pane, non dormiamo all'addiaccio come molti dei profughi delle isole Greche o lungo il suo confine con la Turchia o ai confini della Bosnia, della Croazia e della Slovenia. Ai “confini” delle nostre città, province e regioni, tocchiamo oggi con mano ciò che da tempo era presente nella nostra società, nuove e vecchie povertà, precarietà e fragilità economiche e lavorative, periferie non solo urbanistiche, ma anche sociali e culturali, e soprattutto una diseguaglianza sempre più estesa.

Non siamo in guerra e di ciò dobbiamo compiacerci, ma chi scappa dalla guerra, dalle sofferenze e dalla povertà e cerca di raggiungere i nostri confini, i confini dell'Europa, non può essere respinto; così come non possono essere ignorate le sofferenze, le povertà, le precarietà e le diseguaglianze presenti nel nostro paese, frutto di scelte politiche ed economiche e non di bombe. Contrapporre i bisogni degli uni e degli altri è un'infamia. Le sofferenze di chiunque vanno lenite, le povertà vanno soppresse, i bisogni primari vanno soddisfatti. Sono le guerre che vanno annichilite, respinte, espulse al di là dei confini dell'umanità, non gli esseri umani.



Umberto De Pace


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  9 aprile 2020o