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Israele: l'alternativa
The New York Review of Books: Israel: The Alternative
Volume 50, Number 16
The New York Review of Books 16 October 23, 2003

By Tony Judt

Il processo di pace in Medio Oriente è finito. Non è semplicemente morto: è stato ucciso.
Mahmoud Abbas è stato sabotato dal presidente dell'Autorità palestinese e umiliato dal primo ministro israeliano. Il suo successore attende un uguale destino.
Israele continua a burlarsi del suo protettore americano, realizzando insediamenti illegali contravvenendo cinicamente alla “road map”.

Il Presidente degli Stati Uniti d'America è stato ridotto a un fantoccio ventriloquo, che penosamente imita la linea del Gabinetto israeliano: “La colpa è tutta di Arafat”. Gli israeliani stessi cupamente attendono il prossimo uomo bomba. Gli arabi palestinesi, recintati in ristrette riserve, sopravvivono grazie ai piccoli aiuti europei. Nel territorio cosparso di cadaveri del “Fertile Crescent” Ariel Sharon, Yasser Arafat e una manciata di terroristi possono tutti dichiararsi vincitori, e così fanno. Abbiamo raggiunto la fine della “road”? Cosa si può fare?

Agli inizi del ventesimo secolo, nella decadenza degli imperi continentali, gli uomini in Europa cominciarono a sognare di creare “stati.nazione”, e cioè territori dove potessero vivere in libertà Polacchi, Cecoslovacchi, Armeni ed altri, artefici dei propri destini.
Quando dopo la Prima guerra mondiale l'impero asburgico e quello dei Romanov giunsero al collasso, i loro leader colsero questa opportunità.
Emersero nuovi stati che per prima cosa privilegiarono la propria maggioranza
nazionale etnica in funzione dalla lingua, della religione o delle tradizioni, oppure di tutte e tre le caratteristiche, a svantaggio delle malviste minoranze locali, che furono relegate ad uno status di seconda categoria: quello di stranieri nella propria terra.

Ma un movimento nazionalista, il Sionismo, fu frustrato nelle sue ambizioni.
Il sogno di un focolare nazionale ebraico situato nel bel mezzo del defunto impero turco dovette attendere il ritiro della Gran Bretagna imperiale: un processo che richiese altre tre decadi ed una seconda guerra mondiale.
E fu quindi solo nel 1948 che venne stabilito uno stato-nazione ebraico nella ex Palestina ottomana.
Ma i fondatori dello stato ebraico erano influenzati dagli stessi concetti e categorie dei loro contemporanei di fine secolo sia a Varsavia che a Odessa o a Bucarest.
In breve, il problema con Israele non è, come viene a volte suggerito, che esso sia un enclave europeo all'interno del mondo arabo, ma piuttosto che sia sorto troppo tardi.
Esso ha importato un progetto separatista tipico del tardo secolo diciannovesimo in un mondo che è cambiato, un mondo con diritti individuali, con frontiere aperte e con leggi internazionali.
Il concetto di uno “stato ebraico” ovvero di uno stato nel quale gli ebrei e la religione ebraica possiedono privilegi esclusivi dai quali siano esclusi per sempre i non-ebrei, è un concetto radicato in altri luoghi e tempi. In breve, Israele è un anacronismo.

C'è però una caratteristica sostanziale che distingue Israele dai precedenti insicuri micro-stati nati dopo i collassi degli imperi: Israele è uno stato democratico.
Da qui il suo attuale dilemma. Grazie alla sua occupazione delle terre conquistate nel 1967, oggi Israele ha davanti a se tre scelte non attraenti.
Può smantellare i suoi insediamenti nei territori occupati, tornare alle frontiere del 1967, entro le quali gli ebrei costituiscono una reale maggioranza, rimanendo così sia uno stato ebraico che una democrazia, pur con una costituzionalmente anomala comunità di cittadini arabi di seconda categoria.

In alternativa, Israele può continuare ad occupare Samaria, Giudea e Gaza la cui popolazione
araba, sommata a quella attuale di Israele, diverrà la maggioranza demografica nel giro di 5 - 8 anni.
In tal caso Israele diverrà o uno stato ebraico (con una ancor più larga maggioranza di non-ebrei senza diritto di voto) oppure una democrazia. Ma non potrà logicamente essere entrambe le cose.

Oppure Israele può mantenere il controllo dei territori occupati, azzerando la presenza della stragrande maggioranza della popolazione araba con l'espulsione con la forza oppure togliendogli ogni bene e lasciando loro soltanto l'alternativa di andare in esilio. In questo modo Israele potrebbe rimanere sia uno stato ebraico che una democrazia seppure soltanto formale. Potrebbe farlo solo al costo di divenire il primo stato democratico moderno a condurre una totale pulizia etnica , il che condannerebbe Israele per sempre ad essere uno stato illegale, un paria internazionale.

Chiunque pensi che la terza alternativa sia inconcepibile, soprattutto per uno stato ebraico, non ha rilevato il continuo accrescimento degli insediamenti e delle nuove occupazioni nella “West Bank” negli ultimi venticinque anni, o non ha ascoltato i generali e i politici della destra, alcuni attualmente nel governo. La politica di Israele è gestita dal Likud. Il suo principale componente è lo Herut, l'ultimo partito di Menahem Begin. Herut è il successore dei sionisti revisionisti di Vladimir Jabotinsky la cui assoluta indifferenza a soluzioni democratiche fu bollata dai sionisti di sinistra con l'epiteto di “fascista”. Quando si ascolta il vice primo ministro israeliano Ehud Olmert che insiste che il suo Paese non ha escluso l'opzione di assassinare il presidente eletto della Autorità palestinese, è chiaro che l'epiteto è azzeccato. E' tipico dei fascisti compiere omicidi politici.

La situazione in Israele non è disperata ma potrebbe divenire irrisolvibile.
Gli uomini bomba non potranno mai far crollare lo stato di Israele, e i palestinesi non possiedono altri mezzi.
Vi sono arabi estremisti che non smetteranno di combattere finché tutti gli ebrei non saranno stati buttati a mare. Essi però non costituiscono alcuna minaccia strategica per Israele, e di ciò sono consapevoli i militari israeliani. Ciò che gli israeliani più sensibili temono, ancor più di Hamas e della Brigata al-Aqsa, è il continuo emergere di una maggioranza araba nella “Greater Israel” e soprattutto l'erosione della cultura politica e della morale civica della loro società.

Come ha recentemente scritto Avraham Burg, eminente personaggio politico del partito laburista.
“Dopo duemila anni di lotta per la sopravvivenza, la realtà di Israele è quella di uno stato
coloniale, gestito da una combriccola corrotta che disprezza le leggi e la moralità civica.
Se non avverranno dei cambiamenti, tempo cinque anni Israele non sarà più né uno stato ebraico né democratico”.

Qui è dove gli Stati Uniti entrano nel quadro. Il comportamento di Israele ha costituito un disastro per la politica internazionale americana. Con l'appoggio americano, Gerusalemme ha continuamente deriso le risoluzioni dell'ONU che richiedevano il ritiro dalle aree conquistate ed occupate durante la guerra.

E' ora tacitamente ammesso da coloro che conoscono la situazione, che i motivi per cui gli Stati Uniti
hanno fatto guerra all'Iraq non erano necessariamente quelli inizialmente dichiarati.
Per molti dell'attuale amministrazione americana una delle principali considerazioni strategiche era la necessità di destabilizzare e successivamente ricomporre il Medio Oriente in modo favorevole ad Israele. Questo discorso continua. Noi stiamo adesso facendo minacciose dichiarazioni alla Siria in quanto i servizi segreti israeliani hanno assicurato che le armi dell'Iraq sono state spostate in quel Paese, ma non ci sono conferme da altre fonti.

Il 16 settembre 2003, gli Stati Uniti posero il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che chiedeva a Israele di desistere dalla minaccia di deportare Yasser Arafat. Persino gli stessi funzionari americani, non ufficialmente, riconobbero come la risoluzione fosse ragionevole e prudente e che le dichiarazioni sempre più minacciose dell'attuale governo israeliano, rafforzando la posizione di Arafat agli occhi del mondo arabo, costituivano un grosso impedimento alla pace.

Gli Stati Uniti hanno tentato nel passato di fare pressione su Israele, minacciando di togliere dagli aiuti annuali di aiuti una parte del denaro che viene usato per finanziare gli insediamenti nella “West Bank”.
Ma l'ultima volta che ci si provò, sotto l'amministrazione Clinton, Gerusalemme superò il problema prendendo i soldi come “spese per la sicurezza”. Washington accettò questo sotterfugio e dei 10 miliardi di dollari di aiuti dal 1993 al 1997, meno di 775 milioni furono trattenuti. Il progetto degli insediamenti continuò senza intralci. Ora non tentiamo nemmeno di bloccarlo.

Ma la crisi nel Medio Oriente non si risolverà da sola. Probabilmente il presidente Bush si asterrà da pubblici interventi per tutto il prossimo anno, essendosi già impegnato a sufficienza con la “road map” lo scorso giugno allo scopo di placare Tony Blair. Prima o poi però toccherà a un uomo di stato americano farsi veramente ascoltare dal primo ministro israeliano. Da due decadi i liberali israeliani e i moderati palestinesi insistono inutilmente per far capire che l'unica speranza per Israele sta nello smantellare gli insediamenti e tornare alle frontiere del 1967, in cambio di un reale riconoscimento arabo di tali frontiere e uno stabile stato palestinese esente dal terrorismo, sottoscritto e garantito dagli occidentali e delle agenzie internazionali.

L'idea ottiene ancora consenso, la soluzione sarebbe stata giusta e possibile.
Temo però che ora sia troppo tardi per attuarla. Ci sono ormai troppi insediamenti, troppi sia da parte sia degli ebrei che dei palestinesi, ed essi vivono praticamente assieme, pur se divisi da filo spinato e leggi che regolano il transito. Qualsiasi cosa possa dire la “road map”, la vera carta è quella esistente sul terreno e la realtà, dicono gli israeliani, è questa. Potrebbe anche darsi che più di duecentocinquantamila coloni, ben armati e equipaggiati, lascino volontariamente la parte araba, ma non conosco nessuno che ci creda. Molti di questi coloni preferiranno uccidere o essere uccisi piuttosto di andarsene. L'ultimo leader israeliano a far valere la legge con le armi anche contro i propri concittadini, è stato David Ben-Gurion, il quale nel 1948 disarmò con la forza l'Irgun, l'illegale milizia di Begin e la integrò nel nuovo esercito israeliano. Ariel Sharon non è Ben-Gurion.

E' giunto il momento di pensare l'impensabile. La soluzione dei “due stati”, al centro della elaborazione di Oslo, e l'attuale “road map” sono probabilmente inattuabili. Ogni anno che passa noi stiamo posponendo una scelta inevitabile e più difficile che solo i partiti di estremisti, sia di destra che di sinistra, hanno riconosciuto valida, ciascuno con le proprie ragioni.
La vera alternativa che si pone al Medio Oriente per i prossimi anni è tra un Grande Israele etnicamente “ripulito” e un unico stato, integrato e binazionale, di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi.

E' questa la scelta che alcuni “duri” del governo di Sharon ritengono debba essere affrontata ed è per questo motivo che essi ritengono che rimuovere gli arabi sia la condizione ineluttabile per la sopravvivenza di uno stato ebraico.

Il mondo occidentale è oggi un mosaico di colori, di religioni e di lingue, di cristiani, di ebrei, musulmani, arabi, indiani e molti altri, come un qualsiasi visitatore di Londra, Parigi o Ginevra può constatare. Israele stesso è in tutto fuorché nel nome una società multi-culturale, distinguendosi comunque tra le varie democrazie per l'applicazione di criteri etno-religiosi assegnati ai cittadini. Questa è una stranezza per una nazione moderna ma non – come credono i suoi più paranoici assertori – perché esso è uno stato ebraico e nessuno vuole che gli ebrei abbiano uno stato, ma perché esso è uno stato ebraico in cui una comunità –quella ebraica- è al disopra degli altri, in un'era in cui non c'è posto per tale tipo di stato.

Per molti anni, Israele ha avuto un significato speciale per il popolo ebraico.
Dopo il 1948, esso ha attirato centinaia di migliaia di sopravvissuti senza risorse che non potevano avere altre destinazioni. Se non fosse stato per Israele, le loro condizioni sarebbero divenute disperate. Israele aveva bisogno degli ebrei e gli ebrei avevano bisogno di Israele.
Le circostanze della sua costituzione hanno quindi legato l'identità di Israele alla Shoah, il progetto tedesco per lo sterminio degli ebrei in Europa. Di conseguenza, tutte le critiche rivolte a Israele vengono riportate alla memoria di quel progetto, qualcosa su cui gli apologisti americani speculano vergognosamente.

Rilevare un difetto nello stato ebraico equivale a pensar male degli ebrei. Il solo immaginare una sistemazione diversa nel Medio Oriente è come indulgere all'equivalente moralistico di un genocidio.
Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, molti milioni di ebrei non residenti in Israele si sentivano rassicurati dalla sua semplice esistenza – sia che la ritenessero come una garanzia contro una rinascita dell'anti-semitismo o semplicemente come avvertimento al mondo che gli ebrei si difenderebbero. Prima della creazione del loro stato, le minoranze ebraiche nelle società cristiane vivevano in uno stato di allerta e cercavano di non farsi notare mentre dal 1948 poterono camminare a testa alta. Ma in questi ultimi anni, la situazione è tragicamente peggiorata.

Oggi, gli ebrei non israeliani, si sentono nuovamente esposti alla critica e soggetti ad attacchi per fatti di cui non sono responsabili. Ma questa volta è uno stato ebraico, non uno cristiano, a tenerli in ostaggio per le proprie azioni. Gli ebrei della diaspora non posso influenzare la condotta di Israele, ma vengono implicitamente identificati con esso, anche a causa dei ripetuti appelli alla loro fedeltà. Il comportamento di uno stato che si auto definisce ebraico influisce su come gli ebrei sono considerati.

La deprimente verità è che l'attuale comportamento di Israele non è soltanto negativo per l'America, come certamente è. E neanche che lo sia per lo stesso Israele, come molti israeliani tacitamente ammettono. La deprimente verità è che è negativo per gli ebrei.

In un mondo in cui le nazioni e i popoli si mescolano e si uniscono, dove gli impedimenti culturali e nazionali alla comunicazione sono quasi inesistenti, dove sempre più persone hanno identità elettive multiple e si sentirebbero ingiustamente limitati se dovessero rispondere per solo una di esse; in un tale mondo Israele è veramente anacronistico. Nello scontro odierno delle culture tra democrazie aperte e pluraliste e quelle integraliste e intolleranti, Israele rischia ora di cadere nella parte sbagliata.

Trasformare Israele da stato ebraico a binazionale non sarebbe certo facile, ma non sarebbe impossibile come può sembrare. In effetti questo processo è già iniziato. Esso causerebbe molto meno rinunce, sia agli ebrei che agli arabi, di quanto gli oppositori religiosi e nazionalisti potrebbero contestare. In ogni caso, non mi sembra ci sia qualcuno con un'idea migliore. Chiunque sinceramente pensi che il controverso steccato elettronico ora in costruzione possa risolvere i problemi, si è perso gli ultimi cinquant'anni di storia.

Lo steccato – una zona blindata composta di fosse, di reti, di sensori, di strade battute (per individuare eventuali orme) ed un muro alto più di nove metri - occupa, divide e accaparra terreno coltivabile arabo. Distruggerà villaggi, mezzi di sussistenza e quanto rimane della comunità arabo-ebraica. La spesa è di un milione di dollari per miglio e porterà solo umiliazione e disagi ad ambedue le parti. Come per il Muro di Berlino, la sua presenza conferma la bancarotta morale e istituzionale del regime che dovrebbe proteggere.
Uno stato binazionale nel Medio Oriente necessiterebbe di una coraggiosa e inflessibile guida americana.

La sicurezza sia degli ebrei che degli arabi dovrebbe essere garantita da una forza internazionale
anche se per uno stato binazionale legittimamente costituito sarebbe più facile reperire il personale specifico entro i suoi confini piuttosto che dall'esterno. Uno stato binazionale nel Medio Oriente avrebbe bisogno della crescita, sia tra gli arabi che tra gli ebrei, di una nuova classe politica. La stessa idea di uno stato binazionale è un miscuglio poco promettente di realismo e di utopia, estremamente difficile da iniziare. Ma le alternative sono molto, molto peggiori.

September 25, 2003
traduzione di Vincent Tucci


  9 novembre 2003