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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 18 aprile 2004

Nota introduttiva
Le immagini della settimana in rete sono tratte da un bel sito tedesco dedicato a Jane Austen che contiene una ricca collezione di immagini derivanti dai film dedicati ai romanzi di Jane Austen, in particolare ad Emma, Mansfield Park, Persuasion, Pride and Prejudice, Sense and Sensibility.
Nelle immagini si riconoscono alcune celebri attrici di lingua inglese: Emma Thompson, Kate Winslet e Gwyneth Paltrow . Ho scelto immagini di esterni, fra qualche tempo toccherà agli interni, ugualmente suggestivi.
p.c.

emma
  
Gli eroi per caso nel tempo di guerra
Eugenio Scalfari su
la Repubblica 18 aprile

In una guerra anomala come quella contro il terrorismo e nell´altra che s´incrocia e s´accavalla con la prima, com´è la guerra contro la guerriglia irachena, c´è un assioma preliminare che per chiarezza va ripetuto: con i terroristi e con quanti ne assumano i metodi non si tratta. Non ci si fa condizionare dai loro ultimatum, non si cede alle loro richieste anche se in gioco ci sono vite umane, ostaggi in pericolo, ricatti di qualsiasi genere che mettono in discussione la linea politica d´uno Stato.
Quest´assioma è chiarissimo e accettato da tutti: dal governo americano a Chirac, dal governo inglese a Zapatero, da Berlusconi a Schröder, da Prodi ad Annan, da Fini a Bertinotti. Perfino il Papa e tutta la Chiesa condividono questa posizione intransigente e pregano affinché i terroristi si ravvedano, nel qual caso potranno contare sulla misericordia divina.
Ma se si scende dal generale al particolare e dall´astratto al concreto, ecco che l´assioma della fermezza diventa inevitabilmente meno chiaro perché è evidente (e accettato da tutti) che bisogna fare il possibile e perfino l´impossibile per salvare le vite in pericolo; tanto più vero nel caso d´ostaggi minacciati di morte. Non si tratta ma si cercano intermediari in grado di trattare. Con chi? Offrendo e minacciando che cosa? I mediatori possono offrire ai terroristi che usano gli ostaggi come arma di pressione un salvacondotto d´impunità, o denaro, o tregua nella guerra di guerriglia. Al limite possono perfino offrire, oltre al perdono, un riconoscimento nella struttura politica che prima o poi dovrà governare l´Iraq, ammesso che si riesca a far uscire quello sventurato Paese dal marasma in cui è precipitato a causa della tragica catena d´errori del tandem Bush-Blair. Del resto non sarebbe una novità: uno dei più grandi errori commesso in Kosovo - anche lì per pressione e volontà americana - è stato quello d´aver riconosciuto un ruolo dominante all´organizzazione politico-militare dei combattenti antiserbi; un´organizzazione cui è stata appaltata la "sicurezza" e il governo del territorio e che si è rapidamente trasformata in una centrale di contrabbando e di traffico di droga in combutta con le mafie turca, bulgara, ucraina, russa, greca.
L´Occidente purtroppo non è nuovo a errori di questa natura, quando entra in contatto con popolazioni tribali, signori della guerra, boss mafiosi, che alternano l´efferatezza del crimine con la doppiezza politica e con l´uso spregiudicato del nazionalismo etnico e del fanatismo religioso. Misture esplosive quando si combinano con vecchi e nuovi imperialismi camuffati da portatori di doni democratici e di benessere economico.
I mediatori dunque hanno ampio campo per mediare, ma rimane il rebus degli interlocutori, volti e sigle ignoti, molteplici, mutanti. Nel caso specifico non si sa se siano sunniti o sciiti, se riconoscono come capo lo sceicco al Sadr o lo sceicco al Sistani o il Consiglio degli sciiti iracheni o il Consiglio degli Ulema sunniti o bin Laden e i suoi luogotenenti o addirittura nessuno salvo se stessi e i loro capetti barbuti e mascherati che si passano gli ostaggi tra loro come fa la 'ndrangheta con i rapiti per depistare la polizia. Un giorno uccidono, il giorno dopo rapiscono ancora, poi liberano e infine di nuovo uccidono. È un truce e mortale gioco di gente usa al mestiere della morte altrui e della propria? Dove sono? Chi può convincerli o costringerli alla ragione? Questo, anche questo, ma non solo questo è l´Iraq di oggi. Poi trovi di tanto in tanto l´imbecille che ti domanda: stavano meglio con Saddam o stanno meglio oggi? L´imbecille è convinto con questa domanda di stringerti in angolo, ma la sola risposta che può ottenere è racchiusa in una sola parola: dipende. A Falluja stavano meglio. A Sadr City stavano meglio. A Ramadi stavano meglio. Forse anche a Nassiriya stavano meglio. In cento altri siti alcuni stavano meglio e altri molto peggio. Con quali prospettive per il futuro?

* * * * *
Ma prima d´affrontare per l´ennesima volta questa domanda cruciale torniamo ancora sui nostri ostaggi, i tre ostaggi italiani sospesi tra vita e morte mentre il quarto ha già pagato il suo debito agli assassini schiaffeggiandoli con la frase che ormai sta incisa nella coscienza nazionale insieme a tante altre frasi analoghe: "Vi farò vedere come muore un italiano".
Si è aperta una discussione se quel povero ragazzo, arrivato in Iraq a cercar fortuna, sia un eroe oppure no, se gli italiani debbano assumerlo tra i simboli della storia patria come Sciesa, Enrico Toti, Cesare Battisti, Luciano Manara, i fratelli Cairoli, i soldati della Folgore a El Alamein, Leone Ginzburg e le vittime delle Fosse Ardeatine, oppure no.
Discussione oziosa perché prima bisognerebbe definire che cosa si voglia significare con la parola eroe nei tempi moderni. Nei tempi dell´epica antica il senso di quella parola era chiaro: l´eroe era un uomo prescelto dagli dei per condurre eccezionali imprese, protetto da un dio e suo intermediario in terra. Era meno d´un dio ma più di un uomo. Spesso era il frutto d´un congiungimento tra un mortale e un immortale. Odisseo fu l´ultimo e chiuse la serie. Ma molto dopo fecero la loro comparsa gli eroi moderni. Fu il romanticismo a tenerli a battesimo, ma il senso di quella parola non era più lo stesso e l´intera questione diventò terribilmente complicata.
L´eroe moderno è qualcuno che, arrivato ad un certo punto della vita, abbandona le comodità, le abitudini mentali e i piccoli egoistici obiettivi dell´esistenza quotidiana e si vota ad una causa che lo sovrasta andando consapevolmente incontro a privazioni, pericoli, sofferenze per sostenere quella causa. Spesso anche se non necessariamente vi perde la vita. Nel concetto moderno dell´eroe entra cioè un contenuto e una scelta morale che ne diventa l´aspetto fondamentale. Si può dar prova di coraggio senza alcun contenuto morale. Per esempio chi gioca alla roulette russa. Chi sfida il destino correndo a rompicollo in automobile su strade accidentate. Chi sceglie il mestiere e l´avventura delle armi per dar prova d´essere un coraggioso. Ma nessuno di questi entra nel Pantheon degli eroi nazionali.
Infine tra l´eroe che muore per una causa e il coraggioso che muore per gli incerti della scelta fatta, esiste una terza categoria, quella degli eroi per caso.
L´altra sera, in una melensa quanto breve trasmissione televisiva il regista Mario Monicelli è stato interrogato sulla frase certamente eroica del povero Quattrocchi. Monicelli è stato il regista di quel bellissimo film sulla "Grande Guerra", quella del ?15-18, nel quale i due protagonisti, Vittorio Gassman e Alberto Sordi, interpretano le vicende di due soldati presi prigionieri dagli austriaci che chiedono notizie militari su movimenti di truppe. I due conoscono quei movimenti e dopo alcune esitazioni decidono di rivelarli per aver salva la vita. Mentre l´interrogatorio è in corso e i due stanno per confessare il segreto che rischia di compromettere la sorte dell´offensiva italiana insieme a migliaia di vite, l´ufficiale austriaco si lascia andare ad una frase insultante rivolta ai due soldati i quali se ne sentono sanguinosamente feriti. Uno dei due reagisce, dichiara che non rivelerà un bel niente e insulta a sua volta l´ufficiale chiamandolo "faccia di merda". Viene immediatamente fucilato e l´armata italiana sarà salva.
È stato un eroe? Ha chiesto più volte a Monicelli il conduttore della trasmissione. E ogni volta Monicelli ha risposto ostinatamente: eroe per caso.
"Gli italiani - ha aggiunto - non hanno la stoffa degli eroi perché difficilmente sacrificano la propria vita per una causa che sovrasti il loro particolare. Ma se vengono feriti nell´individuale personalità, allora reagiscono come leoni".
La trasmissione si è chiusa lì, il regista si era intestardito nella sua visione dell´eroe per caso mentre ciascuno di noi aveva dinanzi agli occhi la terribile immagine di quel giovane costretto in ginocchio dinanzi al suo carnefice con la canna fredda della pistola già puntata sulla sua tempia, che cerca di liberarsi dal cappuccio che gli copre il volto e grida la frase eroica della sua irata disperazione.
Questo è quanto è accaduto ed è terribile. Ci dice a che punto è arrivato il mattatoio. Nelle stesse ore, a pochi chilometri di distanza, centinaia di donne bambini vecchi e innocenti cadevano sotto i bombardamenti degli F15 e sotto il cannoneggiamento dei tank americani tra le rovine d´una città spettrale ammorbata dal puzzo dei cadaveri insepolti.
Questo è il mattatoio e questo l´eroismo per caso dei tempi del ferro e del fuoco.

* * * *
Prospettive? Speriamo migliori, se è vero che la speranza è l´ultima a morire.
Ma le previsioni non sono esaltanti. L´America si è convinta d´aver bisogno dell´Onu per impedire che la coalizione dei volenterosi si sfarini e il suo isolamento politico si accresca mentre il mattatoio iracheno e quello israeliano-palestinese continuano a macinare cadaveri.
L´America ha bisogno dell´Onu come di una vivandiera portatrice d´acqua gregaria. Ma è fin troppo chiaro che a queste condizioni non l´avrà e perfino se il Consiglio di sicurezza fosse unanime su una seconda risoluzione "vivandiera" l´arrivo dell´Onu risulterebbe del tutto inutile. Del resto che Bush e Blair perseverino su questa linea risulta evidente dopo il via libera data al piano Sharon per la Palestina. La scelta è stata ancora una volta quella della forza e dell´unilateralismo, come dimostra l´uccisione del nuovo leader di Hamas, appena succeduto allo sceicco Yassin, e colpito come lui a morte dai missili israeliani. Il "domino" virtuoso che doveva intrecciare i destini di Gerusalemme con quelli di Bagdad si è trasformato in un "domino" perverso di cui tutti - colpevoli e non colpevoli - pagheremo le conseguenze.
Un´altra opzione esiste: ristabilire l´ordine con le armi e arrivare ad un accordo con gli sciiti di al Sistani, sempre che lo sceicco moderato sia in grado di sopportare ancora per molto la mattanza in corso, il che sembra altamente improbabile.
Se comunque l´accordo con Sistani sarà infine raggiunto, avremo un Iraq guidato dalle tribù sciite, dai mullah coranici addestrati a Teheran, dalla fine del riformismo iraniano, dall´ammaina-bandiera dei famosi valori democratici da far vivere anche in Medio Oriente e nelle terre mesopotamiche.
La politica è regno di compromessi. Questo comunque sarebbe di bassissimo livello, tanto più che non arresterebbe affatto il terrorismo e la guerra per bande. Il governo italiano in questa situazione potrebbe avere, sol che lo volesse, un ruolo di rilievo, quello al quale lo spinge quasi quotidianamente il presidente Ciampi con i suoi continui e incalzanti richiami ad un ruolo non subalterno dell´Onu. Potrebbe (dovrebbe) il nostro governo dire chiaramente all´alleato americano che la soluzione di un´Onu portatrice d´acqua non soddisfa e non risolve e che, se questa sarà la scelta, dovremmo andarcene anche noi insieme agli spagnoli e ai portoghesi. In una coalizione che dà segni evidenti di sfaldamento l´influenza italiana può essere determinante. Ma questa ipotesi purtroppo non vale un soldo. Un "bookmaker" avveduto la darebbe a uno contro centomila. Non avverrà.
Purtroppo i carabinieri di Nassiriya sono morti invano e il grido patriottico di Quattrocchi è stato inutile. Poteva servire per far chiudere le porte del mattatoio. Se resteranno aperte questi morti saranno stati soltanto un tristissimo e dolorosissimo incidente di percorso, un sangue inutilmente sparso da un giovane eroe per caso e da diciannove soldati "usi a morir tacendo" sui quali è stata spalmata retorica a piene mani.

emma
  
Unita' nazionale vera e falsa
Stefano Folli sul
Corriere della Sera 18 aprile

A leggere il sondaggio di Renato Mannheimer pubblicato l'altro giorno sul Corriere, la gran parte degli italiani vuole unità e solidarietà contro il terrorismo e le altre minacce che incombono sulla vita quotidiana. Lo vuole dalle istituzioni e dalla classe politica e il sentimento è accentuato dall'angoscia per le atroci conseguenze della guerra in Iraq.
Una simile richiesta non dovrebbe davvero sorprendere nessuno.
Esprime lo stato d'animo di un Paese provato da mesi, o meglio da anni, di eventi terribili ed emozioni negative. Un Paese che sa di essere immerso in un dramma complessivo che va molto al di là della nostra presenza militare in Iraq perché è cominciato quel fatidico 11 settembre ed è scandito da una catena di lutti. Fino all' 11 marzo di Madrid, fino alla presa di ostaggi italiani e alla nobile morte di Quattrocchi.
La speranza di salvare i tre superstiti è una pianticella che va coltivata con cura, ma ha ragione la sorella di uno di loro, la signora Agliana, quando dice che tutto il denaro del mondo non vale la vita di un solo uomo. Chi può darle torto? E' giusto, persino doveroso manovrare come si può e si riesce per accordarsi con i sequestratori, senza andar troppo per il sottile circa i mezzi. Il che comporta anche pagare un riscatto, se consiste in soldi o altro e non implica condizioni politiche inammissibili per qualsiasi governo degno di questo nome.
Quanto al dibattito un po' confuso sull' " unità nazionale " , occorre ridurlo all'essenziale. Ossia allo stato d'animo degli italiani che in fondo chiedono una sola cosa a chi li governa oggi e a chi vorrebbe governarli domani: una prova di maturità.
Nei comportamenti, nelle scelte concrete. Ma soprattutto, forse, nella moralità dell'azione politica che per una volta dovrebbe escludere giochi mediocri e piccole viltà. In altri termini, parlare di " unità nazionale " non significa, è evidente, proporre un governo allargato all'opposizione. E nemmeno pretendere che siano annullate differenze profonde e inconciliabili, ad esempio tra chi ha avallato la guerra in Iraq ( il centrodestra) e chi l'ha giudicata un errore ( il centrosinistra). Accantonare del tutto tali divisioni non sarebbe credibile, tanto meno a due mesi dalle elezioni.
Tuttavia ci sono vari modi per sentirsi uniti e solidali. Il primo è rispettarsi reciprocamente.
Non sempre questo accade nella frenesia nevrotica della politica romana.
Si dirà: è lo spirito del bipolarismo. Ma non è poi vero. Il bipolarismo è fatto di scontri duri tra opposti partiti, ma anche di momenti gravi in cui si guarda tutti insieme all'interesse nazionale. Momenti in cui, appunto, si dà prova di maturità. Oggi, in particolare, vuol dire far prevalere un senso di comune appartenenza.
Di " italianità " , si potrebbe dire senza retorica.
Essere italiani significa riconoscersi in un'idea alta della nazione, per quanto scoraggianti siano le sue espressioni politiche. Per cui non ci si divide necessariamente in " disertori " e " guerrafondai " , ma si difende l'immagine del Paese. E si vede qual è il modo migliore per tutelare la sicurezza dei soldati e di altri cittadini all'estero, comprese le guardie del corpo professioniste. Significa privilegiare " ciò che unisce " , come ammonisce un capo dello Stato che in questi giorni di inquietudine ha saputo trovare le parole giuste e lo stile appropriato per rappresentare la solidarietà nazionale nella sua versione corretta.
Proprio la politica estera dovrebbe essere il terreno in cui forze diverse tendono a convergere senza ambiguità e senza mettere in discussione il sistema bipolare. Dovrebbe. Essere scettici in materia è fin troppo facile.
Ma nessuno, nell'Italia di oggi, ha l'esclusiva del buon senso.

emma
  
Intronato di guerra
Michael Moore su
il Manifesto 16 aprile

Non ho mai visto una testa presidenziale più intronata di quella che ho visto l'altra sera durante la conferenza stampa di George W. Bush. Parla ancora di ritrovare le "armi si distruzione di massa", questa volta nella "fattoria dei tacchini" di Saddam. Tacchini, esattamente. Chiaramente la Casa Bianca pensa che ci siano abbastanza cretini nei 17 stati ancora in bilico che se la bevono. Penso li aspetti un brusco risveglio... Sono stato rinchiuso per settimane nella sala di montaggio a finire il mio film (Fahrenheit 911). Per questo non mi sono fatto vivo negli ultimi tempi. Ma dopo la riproposizione di Lyndon Johnson che ha avuto luogo la notte scorsa nella East Room - in cui si prometteva fondamentalmente di spedire ancora altre truppe nell'inghiottitoio iracheno - beh, dovevo scrivere due righe.
Innanzitutto, riusciamo a farla finita con questo linguaggio orwelliano e cominciare a chiamare le cose con il loro nome? Quelli che sono in Iraq, non sono "imprenditori". Non sono lì per riparare un tetto o per spalmare calcestruzzo su un piano stradale. Sono mercenari e soldati di ventura. Sono lì per i soldi, e la paga è molto buona - se riesci a vivere abbastanza per godertela. La Halliburton non è un "società" che sta facendo affari in Iraq
Sono profittatori di guerra che stanno sfilando milioni dalle tasche dell'americano medio. Nelle guerre passate sarebbero stati arrestati - o peggio.
Gli iracheni che si sono ribellati all'occupazione non sono "rivoltosi" o "terroristi" o "il nemico". Sono la rivoluzione, come i minutemen americani, e il loro numero è destinato a crescere - e vinceranno. Ha afferrato il concetto, signor Bush? Ha fatto chiudere un maledetto settimanale, lei grande dispensatore di libertà e democrazia, e allora si è scatenato l'inferno. Il giornale aveva 10.000 lettori in tutto! Perché fa quel sorrisetto da furbo?
Un anno dopo aver pulito la faccia della statua di Saddam con la bandiera americana prima di tirarla giù, siamo in una situazione tale che è troppo pericoloso per un operatore dell'informazione tornare oggi da solo in quella piazza e fare un servizio sulla magnifica celebrazione del primo anniversario. Naturalmente, non ci sono celebrazioni, e quei coraggiosi giornalisti embedded con i loro capelli cotonati non possono neppure uscire dal recinto di sicurezza del forte nel centro di Bagdad. In realtà loro non vedono mai quello che sta accadendo in Iraq (la maggior parte delle immagini che vediamo in televisione sono riprese dai media arabi o europei). Quando guardate un servizio "dall'Iraq", quello che vedete è un comunicato stampa fornito dalle forze d'occupazione Usa e rivenduto a voi come notizia.
Al momento ci sono in Iraq due miei cineoperatori/fotoreporter che lavorano per il mio film (all'insaputa del nostro esercito). Parlano con i soldati e stanno raccogliendo i veri sentimenti e le opinioni su ciò che sta veramente succedendo. Ogni settimana mi spediscono a casa il metraggio via Federal Express. Avete capito bene, Fed Ex, e chi ha detto che non abbiamo portato la libertà in Iraq? La storia più buffa che i miei collaboratori mi hanno raccontato è il fatto che quando scendono dal volo a Baghdad non devono far vedere il passaporto o passare il controllo immigrazione. Perché no? Perché loro non hanno viaggiato da un paese straniero a un altro - loro stanno arrivando dall'America in America, un posto che ci appartiene, un nuovo territorio americano chiamato Iraq.
Si parla tanto fra gli oppositori di Bush del fatto che dovremmo consegnare questa guerra nelle mani delle Nazioni unite. Perché gli altri paesi del mondo, paesi che hanno tentato di dissuaderci da questa follia, dovrebbero ora rimettere ordine nel nostro caos? Mi oppongo a che l'Onu, o chiunque altro, rischi la vita dei propri cittadini per tirarci fuori dalla nostra debacle. Mi dispiace, ma la maggioranza degli americani ha appoggiato questa guerra, una volta iniziata, e, per quanto triste, quella maggioranza deve ora sacrificare i propri figli finché sarà versato abbastanza sangue da far sì che forse - proprio forse - Dio e il popolo iracheno possano infine perdonarci. Fino a quel momento, godetevi la "pacificazione" di Falluja, il "contenimento" di Sadr City e la prossima Offensiva del Tet - oops, volevo dire, "l'attacco terrorista da parte di un gruppuscolo di fedeli baathisti" (adoro scrivere queste parole, "fedeli Baahtisti" fa tanto Peter Jennings) - seguite da una conferenza stampa in cui ci si dirà che dobbiamo "mantenere la rotta" perché stiamo "conquistando i cuori e le menti della gente".
Presto scriverò ancora. Non disperate. Ricordatevi che il popolo americano non è poi così stupido. Certo, possiamo farci spaventare tanto da farci portare in guerra, ma prima o poi ci riprendiamo sempre - ciò per cui questo non è come il Vietnam è il fatto che non ci sono voluti quattro lunghi anni per capire che ci avevano mentito.
(traduzione Maria Luisa Moretti )

mansfield park
  
Pubbliche relazioni e private umiliazioni
Giorgio Bocca su
L'espresso

Il dubbio è che la società dei servizi produca soprattutto dei servi e che le telecomunicazioni fulminee abbiano sempre meno da comunicare. Leggo sui giornali di servizio le biografie dei nuovi direttori di aziende, quasi tutti degli sconosciuti incompetenti ma raccomandati. Nel giornalismo, professione di mia competenza, arrivano al vertice i selezionati dai fogli aziendali, cioè da scuole della propaganda e dell'imbonimento assai più che della buona scrittura e della notizia.
Che ha fatto il nuovo e sin qui sconosciuto capo di un grande quotidiano? L'inviato di guerra? Il buon cronista? L'esperto di economia e di finanza? È uscito dalla Bocconi? Ha studiato alla Normale? Niente di tutto ciò. Ha lavorato nell'ufficio stampa di un sindacato, poi è passato alle pubbliche relazioni di una grande azienda o alla segreteria di un partito, dove ha fatto il portaborse di un leader politico.
Che libri ha scritto? Nessuno, salvo qualche opuscolo ad uso dei padroni. Che ne sa della buona informazione? Niente, ma sa bene come ci si muove fra i potenti. La vittoria elettorale del centrodestra, ha promosso in massa i redattori di fogli semiclandestini trasferendoli nelle televisioni nazionali, nelle radio, nei grandi quotidiani. La società dei servizi non seleziona i migliori, ma i peggiori: seleziona i servi, li promuove e anche li onora. Si contano a centinaia i premi di giornalismo che distribuiscono diplomi e soldi a leccastivali e a voltagabbana di cui ci si dovrebbe vergognare.
La società delle pubbliche relazioni cresce come società delle relazioni mediocri. Le televisioni, le radio e gran parte dei giornali sono a un livello penoso perché dirette dai peggiori: il cattivo gusto dominante non è casuale, ma l'effetto della cattiva dirigenza, basta guardarli i direttori generali o di rete in prima fila a uno dei tanti festival nazional-popolari. Gli spettacoli sono di loro gusto, si scompisciano alle scene più volgari, si crogiolano alle adulazioni più indecenti, si mostrano sorridenti e soddisfatti invece che nascondersi.
In questa società dei servizi il piacere di servire si massifica e si esibisce. Giorni fa a Milano c'è stata una cena elettorale per Gianfranco Fini, il leader di Alleanza nazionale per decenni chiuso nel ghetto del Msi. Erano in mille a festeggiarlo a 500 euro a testa: mille della buona borghesia rampante, gli stessi che andavano alle feste di Craxi, la Milano da bere, il terziario avanzato. C'era tutto lo stato maggiore della moda, c'era anche la Vanoni quella del Piccolo Teatro e di Brecht, c'erano direttori di giornali e di reti. Perché Fini è un navigatore a vista della politica, uno che è nato dalla repubblica sociale di Salò, dal mussolinismo crepuscolare filo nazista, ma che ora ne parla come del 'male assoluto'.
Ma che importa? È un potente, può farti avere delle sovvenzioni statali, dei posti, delle spinte. A volte ci si chiede se i favori e i servizi della società dei servizi siano davvero apprezzabili. A volte mi capita di riconoscere fra i cortigiani e portavoce di Berlusconi dei vecchi colleghi dell''Europeo' o del 'Giorno', agitati, sudati, preoccupati, nella calca di guardie del corpo e di presenzialisti.
È stata davvero una buona carriera, non erano meglio i tempi in cui ci provavamo a fare del buon giornalismo anziché navigare fra le menzogne e le gaffes? Ci sarà anche la lode del tempo perduto, la nostalgia degli anni verdi, ma c'è anche il fatto, la constatazione, che questa società dei servizi e delle pubbliche relazioni ti paga di più con le umiliazioni che con le soddisfazioni.

mansfield park
  
Nel cuore dell'enigma
Il nuovo libro di Stefano Bartezzaghi
Piergiorgio Odifreddi su
la Repubblica 23 marzo

Come gli ultimi premi Oscar hanno definitivamente consacrato la saga cinematografica del Signore degli anelli, cosi il suo ultimo "Oscar" Einaudi, Incontri con la Sfinge, in libreria da oggi (Einaudi, pagg. 236, euro 18) definitivamente incorona Stefano Bartezzaghi "signore degli strani anelli": di quelle figure letterarie, cioè, che Douglas Hofstadter defini in Godel, Escher, Bach come "andirivieni per i livelli di qualche sistema gerarchico, alla fine dei quali possiamo anche inaspettatamente ritrovarci al punto di partenza". Un tipico esempio di questi andirivieni è una frase del tipo: "per i romani sopportò troppo, sin a morire". A noi, comuni mortali ancora vivi, sembra un'innocua descrizione delle gesta di Attilio Regolo. Ma quelli che hanno i geni giusti (come evidentemente deve averli Bartezzaghi, che è figlio e fratello di due famosi cruciverbisti) si accorgono che se si prende la "p" iniziale, la si mette al fondo, e si legge il tutto al contrario, da destra a sinistra, si riottiene la stessa frase di partenza! Un altro tipico esempio è la definizione di quell' omonimo di Bartezzaghi che fu Stefano Protomartire: "santo morto fra pietre". Di nuovo la cosa a noi sembra innocua, fino a quando l'omonimo dell'omonimo ci fa lapidariamente notare che in realtà definizione e nome usano esattamente le stesse lettere, in due diversi ordini. E poi ci fa rabbrividire, ripetendo il gioco con l'On. Giulio Andreotti e "un gelido Totò Riina". Di un genere abbastanza diverso è invece l'indovinello diffuso all' inizio della Seconda Guerra Mondiale: "Mussolini, Hitler, Chamberlain, Daladier: chi vincerà?" Difficilmente una persona normale arriverà da sola alla soluzione, che consiste nell' incolonnare le sei parole su sei righe, e leggere in verticale le lettere che compaiono sulla terza colonna, dalle quali miracolosamente sorse allora, e risorge ora, l' amato nome del compianto compagno Stalin. E assolutamente eccezionale, come un indovino di corte nell'antichità, o uno psicanalista nella modernità, dev'essere chi voglia interpretare "correttamente" il sogno che Alessandro Magno avrebbe fatto durante l'assedio di Tiro: si trattava di un satiro danzante su uno scudo, che secondo le ferree e scientifiche regole dell'oniromanzia venne ridotto alla parola satyros, poi affettata in sa e tyros, e tradotta in "Tiro è tua". Ovvero, in hoc sogno vinces. Più elevati, almeno nelle intenzioni, sono invece i quesiti del genere di quello posto dalla Sfinge di Tebe a Edipo, e da cui prende le mosse il libro di Bartezzaghi: "Qual è l'essere che nel corso della sua vita passa da quadrupede a bipede a tripede, e che è tanto più lento quante più gambe ha?" La soluzione è l'uomo, che da bambino cammina a gattoni, e da vecchio si aiuta con la canna. Se una certa razionalità, magari perversa, si nasconde dietro agli esempi finora citati, c'è bisogno di una buona dose di ineffabilità per gustare la citazione che Nabokov trasse da una grammatica russa e usò come epigrafe del suo romanzo Il dono, assicurando nell'introduzione di non essersela inventata: "La quercia è un albero. La rosa è un fiore. Il cervo è un animale. Il passero è un uccello. La Russia è la nostra patria. La morte è inevitabile". Le sei categorie del palindromo, dell'anagramma, del mesostico, del rebus, dell'enigma e del gioco di parole, alle quali appartengono rispettivamente gli esempi precedenti, sono i temi sui quali si sviluppano le variazioni dei sei capitoli degli Incontri con la Sfinge, che a loro volta costituiscono la rielaborazione delle lezioni tenute da Bartezzaghi alla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Umberto Eco: sei passeggiate nei boschi enigmistici, in compagnia della migliore guida possibile al paesaggio. Naturalmente, come i Ciceroni sanno che non tutte le scolaresche sono interessate alle loro spiegazioni, così anche la nostra moderna Sfinge è conscia del fatto che non ci sono solo gli affezionati lettori delle sue rubriche: Lapsus su queste stesse pagine, e Lessico e nuvole sul Venerdì e sul sito di Repubblica. E con molta onestà Bartezzaghi ammette, ad esempio, che il lettore medio possa trovare i palindromi illeggibili o ripugnanti, e ricorda come Marziale ritenesse vergognoso il "troppo sforzarsi per queste monate". Eppure, eppure... basta perseverare un attimo nel cammino per accorgersi che in realtà i sentieri sui quali siamo stati avviati conducono tutti a sorprendenti mete, nient'affatto frivole. I palindromi, ad esempio, perdono immediatamente il loro carattere di più o meno gradevole artificiosità non appena abbandonano il campo linguistico e si trasferiscono in quello musicale, dove vivono e vegetano piacevolmente: dai canoni cancrizzanti o in moto contrario dell' Offerta musicale di Bach al minuetto e trio della sinfonia n. 47 di Haydn, detta appunto Palindroma, dall'opera n. 45a Andata e ritorno di Hindemith al recente Quintetto per fiati di Robert Kelley. Gli informatici, tra l'altro, hanno studiato la complessità del processo di riconoscimento di un palindromo, accorgendosi che il numero di operazioni necessarie per verificarne la correttezza "a occhio", cioè andando avanti e indietro sulla parola e controllando simbolo per simbolo, cresce col quadrato della lunghezza: cioè, raddoppiando la lunghezza di un palindromo, quadruplicano le operazioni che il cervello (elettronico) deve fare per controllarne la simmetria bidirezionale. Il che spiega, forse, perché più i palindromi crescono, e più noi li consideriamo noiosi. Anche gli anagrammi hanno inaspettate connessioni con l'informatica e la matematica. Anzitutto, mediante anagrammi di parole finite o infinite si possono rappresentare tutti i gruppi astratti dell'algebra, che sono lo strumento essenziale per le teorie delle equazioni da un lato, e delle particelle elementari dall'altro. Inoltre, lo studio degli anagrammi rientra nella cosiddetta analisi combinatoria, alla quale sono state dedicate l'Ars magna (un titolo che è l' anagramma di anagrams!) di Lullo e l'Arte combinatoria di Leibniz: cioè, i protovangeli di quella che oggi è diventata la logica matematica, che studia appunto le proprietà formali e combinatorie dei linguaggi sia naturali che artificiali. Quanto agli inventivi modi di estrarre frasi di senso compiuto da lettere disposte su un'intera pagina, mediante percorsi più o meno tortuosi che vanno dai mesostici ai calligrammi, essi sono stati fruttuosamente usati da Georg Cantor in due delle scoperte più rivoluzionarie della matematica dell'Ottocento: da un lato, che una retta contiene tanti punti quanti l'intero piano; e dall'altro, che questi punti sono di un infinito maggiore di quello dei numeri interi. Le dimostrazioni consistono nell'andare a zig-zag nel piano in un caso, e in diagonale nell'altro, in maniera che ricorda i procedimenti di lettura della lapide di John Renie o dell'omaggio di Benigni a Fellini, discussi appunti da Bartezzaghi. Passando dalla scrittura per lettere a quella per immagini usata nel rebus, dobbiamo ricordare che in origine è successo l'esatto contrario. E' proprio scoprendo e sfruttando il principio del rebus che gli egiziani smisero di usare i geroglifici come rappresentazioni di oggetti stilizzati, e cominciarono ad associarli ai suoni delle parole corrispondenti: ad esempio, come scoprì Champollion, indicando la sillaba "ra", che corrispondeva al nome del Sole, col cerchio contenente un puntino, che in origine ne era la stilizzazione. Lungi dall'essere uno sterile gioco, il rebus è dunque il fecondo seme che ha generato la scrittura fonetica. Degli enigmi, diremo solo che i più difficili e profondi non sono certo quelli della mitologia o dell'enigmistica, ma quelli della natura, ai quali la scienza cerca di rispondere. Sul gioco di parole, infine, basta notare che senza umorismo la vita diventerebbe un'insopportabile via crucis: e puntualmente, come disse Giovanni Crisostomo, Gesù non ha mai riso. Non è il solo, e quelli come lui sembra che abbiano il problema di non riuscire a distinguere tra linguaggio e metalinguaggio, e di confondere i sensi letterali con quelli metaforici, e viceversa. Ben vengano dunque le battute, le spiritosaggini, i lapsus, i libri di Bartezzaghi, e quant'altro ci può ricordare che la vita è gioco, e che chi la prende troppo seriamente rischia di fare , o far fare ad altri, una brutta fine.

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Attenti lo scrittore dà i numeri
Matematica e letteratura
Piergio Odifreddi su la Repubblica 27 marzo

Nelle sue Lezioni di letteratura all' Università di Cornell, pubblicate postume, Vladimir Nabokov insegnava che non bisogna leggere i libri in maniera infantile, identificandosi coi personaggi. Né in maniera adolescenziale, col proposito di imparare a vivere. Né in maniera accademica, indulgendo in generalizzazioni. Bisogna invece leggere in maniera matura, identificandosi con l' autore e concentrandosi sul suo processo creativo, che si riflette nello stile e nella struttura del libro. Ora, se c' è una disciplina che ha posto la struttura al centro dei suoi interessi, questa è la matematica moderna: si può dunque immaginare che la lettura matura possa (o debba) avvalersi di metodi matematici per l' analisi dei testi, e che i dipartimenti di matematica possano (o debbano) diventare le nuove sedi della critica letteraria, in sostituzione di quelli ammuffiti e stantii nei quali si continuano a praticare le letture accademiche, adolescenziali o infantili aborrite da Nabokov. Proviamo, dunque, a usare la matematica per analizzare forme o opere letterarie, partendo dalla sestina. Introdotta verso la fine del dodicesimo secolo da Arnaut Daniel, il "miglior fabbro" dantesco, questa forma poetica richiede di suddividere 39 versi in sei strofe di sei, più una finale di tre. Inoltre, le sei parole finali dei versi della prima strofa devono essere le stesse anche nelle rimanenti cinque, ma in un ordine diverso: precisamente, secondo lo schema fisso di riordinamento a spirale che sostituisce ogni volta la sequenza 1, 2, 3, 4, 5 e 6 con 6, 1, 5, 2, 4 e 3. I matematici chiamano questo genere di riordinamento permutazione, e sanno che ci sono 720 modi diversi di permutare sei cifre o parole. Quello scelto per la sestina, però, ha una proprietà particolare: se lo si usa ripetutamente, dopo sei applicazioni si riottiene l' ordine iniziale da cui si era partiti, come ben si addice a una composizione di sei strofe. Tra le 720 permutazioni di sei elementi, solo 120 hanno questa proprietà. Solo 12 hanno anche l' ulteriore proprietà che le parole sono divise in due gruppi (1, 3, 4 e 2, 5, 6) che si scambiano fra loro, e Arnaut Daniel scelse proprio una di queste. (~) Le permutazioni di cui abbiamo parlato sono solo un caso particolare delle più generali combinazioni, in cui sono permesse ripetizioni degli elementi che vengono (ri)disposti. E anche le combinazioni hanno trovato svariati usi letterari: dagli I Ching, il classico confuciano organizzato attorno ai 64 esagrammi formati da tutte le possibili combinazioni di segmenti interi o spezzati, alla Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges, che contiene tutte le possibili combinazioni di 25 simboli ortografici in volumi di 410 pagine, ciascuna di 40 righe, ciascuna di 40 lettere. Il numero dei volumi dell' infernale biblioteca è inconcepibile: un 1 seguito da 787.200 zeri, maggiore del numero degli elettroni che potrebbero riempire l' intero universo! Forse l'uso più spettacolare delle combinazioni in un' opera letteraria si trova però ne La vita: istruzioni per l'uso di Georges Perec. Il romanzo fotografa un istante della vita di un condominio di dieci piani, ciascuno con dieci stanze: ci sono dunque cento luoghi da descrivere, ciascuno in un capitolo, ed essi corrispondono alle caselle di una scacchiera dieci per dieci. Perec decise che le varie stanze dovessero contenere ciascuna un personaggio che compie un'azione, e che ci dovessero essere dieci tipologie di personaggi, e dieci di azioni. Per determinare la disposizione delle coppie personaggio-azione in ciascuna stanza, Perec decise che le tipologie dovessero essere combinate fra loro in maniera più inventiva che nella disposizione della battaglia navale, in cui la prima riga contiene le coppie A1, A2, A3, ..., la prima colonna le coppie A1, B1, C1, ..., e cosi via. Il matematico Claude Berge gli suggeri di disporre le lettere in modo tale che ciascuna comparisse una e una sola volta in ciascuna riga e in ciascuna colonna, e di fare lo stesso con i numeri. Non è affatto ovvio che la cosa sia possibile, tanto che nel Settecento il famoso matematico Eulero aveva congetturato che non lo fosse. Ma nel 1959 il problema era stato finalmente risolto dai matematici Parker, Bose e Shrikhande, e Perec ne adottò immediatamente una soluzione. Anzi, una volta scoperto il trucco, di questi cosiddetti quadrati alfa-numerici, composti cioè di coppie lettere-numeri, ne usò ben 42, per decidere nei dettagli la struttura del suo romanzo, che oggi conosciamo grazie ai suoi quaderni preparatori. Naturalmente, una volta orchestrata una struttura così complicata, sarebbe stato deludente descrivere ordinatamente le varie stanze dei vari piani. Perec adottò questa volta una restrizione diversa: muoversi sulla scacchiera come un cavallo del gioco degli scacchi (cioè, di una casella in una direzione, e di due nell'altra). Il problema, una versione del quale si trova già citata in alcuni dei primi manoscritti sugli scacchi, fa parte di quella che i matematici chiamano teoria dei grafi: lo studio, cioè, delle configurazioni che si ottengono collegando un numero finito di punti, detti vertici, con segmenti, detti archi. Nel caso specifico, i vertici rappresentano le caselle della scacchiera, e gli archi collegano una casella a tutte quelle che il cavallo può raggiungere mediante una mossa a partire da essa. Il problema da risolvere diventa allora di trovare un cosiddetto cammino hamiltoniano, cioè un percorso che passi attraverso tutti i vertici, una ed una sola volta. Nel caso del cavallo su una scacchiera varie soluzioni erano note fin dal Settecento, ma Perec ne escogitò una sua personale, con alcune particolarità: ad esempio, la prima casella e l' ultima non sono collegate da una mossa, il che rende il romanzo aperto, invece che chiuso ciclicamente su se stesso. Le restrizioni matematiche finora esaminate si riferiscono a testi singoli, ma buona parte della matematica tratta di relazioni fra due o più strutture. Le tre nozioni fondamentali coinvolte, tradotte in termini letterari, sono: l'identità, quando i due testi appaiono identici graficamente o foneticamente; l'isomorfismo, quando essi hanno la struttura sintattica o semantica; e l'omomorfismo, quando i due testi hanno una struttura più o meno simile, anche se non identica. I testi identici che ammettono una pluralità di letture sono detti enigmistici o crittografici, e possono andare da singole frasi, quali il responso della Sibilla Cumana a Marcello ("ibis redibis non morieris in bello"), a interi libri, quali la Storia di una botte di Jonathan Swift. Ma dopo il Pierre Menard, autore del Chisciotte di Borges sappiamo che, in realtà, qualunque testo si presta a letture multiple, non appena lo si immagini scritto da un autore apocrifo o in un'epoca anacronistica. Gli isomorfismi mantengono invece inalterata la struttura profonda di un testo, pur variandone l'aspetto superficiale. Essi vanno dalle trascrizioni lipogrammatiche inaugurate nel terzo secolo da Nestore di Laranda, che riscrisse l'Iliade evitando in ciascuno dei 24 canti una delle 24 lettere dell' alfabeto greco, alle composizioni antonimiche in cui le parole sono rimpiazzate da loro contrari, come nel passaggio dal "T'amo pio bove" di Carducci al "T'odio empia vacca" di Vassalli. Il gioco risale almeno alla Risposta per contrari di Cenne de la Chitarra ad un sonetto di Folgore di San Giminiano, e poiché i contrari non sono univocamente determinati, la sua ripetizione non riporta necessariamente al punto di partenza, ma soltanto a composizioni sinonimiche, come in "T'adoro devoto bue". Essendo meno stringente dell'isomorfismo, la restrizione imposta dall'omomorfismo è quella che permette maggiori possibilità di manipolazione e di riuscita artistica. Si può qui andare dalle 99 variazioni su un tema degli Esercizi di stile di Queneau ai testi multipli della Storia dell'assedio di Lisbona di Saramago, in quel pirotecnico gioco di rimandi e interpretazioni che costituisce la vera essenza sia della letteratura che della matematica. A dimostrazione che le divisioni fra le due culture stanno nell'immaginazione di chi le persegue, e non nella realtà delle cose.

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A sinistra con Kant
Bruno Gravagnuolo su
l'Unità 12 aprile

"Perché non possiamo non dirci kantiani". Ha ragione da vendere lo scienziato Marco Piattelli Palmarini, che di recente ha tentato di argomentare questa tesi sul Corriere della Sera, con riferimento alla scienza e all'epistemologia moderne. E tuttavia l'attualità di Immanuel Kant, nato nel 1724 a Koenisberg, l'odierna Kaliningrad e ivi scomparso il 12 febbraio 1804, è anche altrove. Nella filosofia politica, nella teoria dell'arte, nell'etica pubblica e più in generale in una visione della soggettività etica e dei diritti ormai inscindibile dalla modernità. Di più. È il "tipo umano Kant", come figura intellettuale enciclopedica e rigorosa, metodica e insaziabilmente curiosa, proba e persino trasgressiva, a non cessare di esercitare un fascino inesauribile. Ovvio che quando si parla di trasgressività non ci si riferisca a insanie della vita privata. Nessuno come Kant fu mai tanto ascetico e sobrio, nel porre unicamente al servizio della conoscenza le sue energie. Celebri e rigorosamente veri gli aneddoti sulle passeggiate quotidiane a Koenisberg, su cui i concittadini regolavano i loro orologi. No, la trasgressività era un fatto mentale, "trascendentale" per l'appunto. Interno alla logica - e all'ideale - del sapere, nelle sue infinite e imprevedibili giunture con l'esperienza. Inclusa l'esperienza storica. In fondo è proprio questo il mistero della personalità di Kant. Di un uomo assolutamente casto e che mai prese moglie - salvo una breve tentazione fugata dalla vittoria di un rivale - e che nondimeno fu onnivoro e lussurioso nella ricerca a tutto campo della verità. Dal filo d'erba, alla "nebulosa originaria", alla scatola della mente umana, all'enigma del bello, alla teologia razionale, all'ordine politico. E c'è da rimanere sbigottiti se ci si pone innanzi al corpus delle opere kantiane. Al lavorio di una fabbrica imponente e minuta, che coincideva con l'architettura di una immensa cattedrale composta con certosina e maniacale pazienza. Un Opus magnum il quale come è noto è anche Opus postumum, croce e delizia degli esegeti che ormai da oltre un secolo si interrogano sul progetto eventuale con cui Kant si sforzava di far corrispondere la scienza dell'epoca all'algoritmo della ragion pura. La sua ragion pura.
La cosa davvero strabiliante è che quel piccolo e minuto studioso, figlio di un sellaio di origini scozzesi (si chiamava Cant, pronuncia "chent", con riabilitazione filologica di tanti studenti asini!) si divertiva davvero, a caricarsi sulle spalle quell'impresa sovraumana. E forse chi ha davvero catturato il mistero della personalità di Kant è stato l'oppiomane De Quincey, quant'altri mai lontano dalla ragion pura kantiana. Quel De Quincey che, capovolgendo proiettivamente i suoi vizi nell'esatto contrario, ritrasse Kant come una silhouette ironica e impalpabile di virtù settecentesca. L'immagine stessa del piacere di vivere intellettuale, consumato scivolando sugli infiniti enigmi del sapere, ma sottraendosi al disordine del mondo per meglio dominarlo dall'alto. E c'era in quel tipo d'esistenza come un autocontrollo elegante, frutto di investimento libidico, da scaricare poi interamente nella presa di potere del pensiero. Kant insomma come sottile eroe freudiano. Come "macchina celibe", che scioglie il disagio della auto-disciplina energetica nella "civiltà del conoscere". Onnipotente e gioiosa alla fine, anche nel piantare le colonne d'Ercole dell'intelletto (che in realtà erano un invito al travalicamento). Per inciso, al casto Kant la chimica creativa del sesso non era affatto ignota. Al punto che in uno scritto di filosofia della storia - in bilico tra "apriori" ed evoluzionismo - Kant descrisse la nascita della tecnologia come frutto dell'immaginazione erotica! Il progresso della specie - scriveva - viene dalla capacità di differire il piacere immediato. Fantasticando la mente di godimenti sempre più intricati e complicati, e perciò massimi. Da conseguire rinviando il godimento presente. E parla chiaro il filosofo: la sessualità è il germe di questa attitudine più generale al Progresso. Che passa per l'amplesso, la cucina, l'invenzione di congegni etc. Dunque, la ragione si consegue provando e riprovando, per approssimazioni e al culmine di una vicenda temporale. E differendo il godimento sensibile.
Già, ma non sappiamo forse dai tempi del liceo, che il rovello kantiano era esattamente l'opposto, e cioè: "come sono possibili i giudizi sintetici a priori"? Colpo di scena, che non è un colpo di scena, se ci si libera dal catechismo ermeneutico di scuola. Centrale infatti fu per Kant il problema dell'esperienza sensibile. Del "senso". Fin dall'inizio. Fin da quando all'Università Albertina di Koenisberg tentava di liberarsi dalla metafisica di Wolf e Leibniz, e da quella di Cartesio. Incalzato dal rovello instillatogli da David Hume. "Niente è nell'intelletto che prima non fu nell'esperienza"? Certo, annuiva Kant. Ma all'unisono con Leibniz, soggiungeva anche lui: "tranne l'intelletto stesso". E proprio di qui, dalla fine della fase "precritica" in poi (1770) si snoda la battaglia su due fronti. Da un lato contro il nichilismo scettico humeano che riduce il reale a fascio di sensazioni soggettive e indistricabili dall'arbitrio empirico. E poi contro il razionalismo astratto, che nel celebrare il primato dell'intelletto metafisico mette la mente "in folle", obbligandola a girare a vuoto attorno a concetti avulsi dalle sensazioni (e perciò contraddittori). La rivoluzione copernicana kantiana è tutta qui. Far perno sull'intelletto critico ordinatore che attinge alle categorie della logica-linguaggio, con corredo di schemi e facoltà dell'immaginazione. Per imbrigliare l'esperienza, lasciandola dipanarsi nella griglia delle "forme spazio-temporali" e nell'imbuto autocosciente dell'"io penso". È una rivoluzione immensa, che salva la coerenza razionale del conoscere senza soffocare il "grado" qualitativo delle percezioni. Tutto il corredo della tradizione logica occidentale viene così rinnovato e ribaltato. Non più "categorie-sostanza" aristoteliche, enti reali o nominali medievali. Ma "categorie-funzione". Chiavi a priori come conio e corredo della mente. Conio a-priori certo, ma storico al contempo. Perché concetto di causa, di numero, permanenza, azione reciproca - e poi unità, molteplicità e identità e non contraddizione - si convertono sempre in schemi e in concetti derivati. In figurazioni e visioni plastiche che formano teoria e immagini del mondo, a contatto con il flusso percettivo. Palafitte mobili sul fluire dell'esperienza e dell'esperimento scientifico.
Questo modo di pensare si rivelerà proficuo non solo per spiegare e rappresentare la rivoluzione scientifica newtoniana, ma anche le future rivoluzioni scientifiche novecentesche, come ben vide Ernst Cassirer a partire da Sostanza e funzione nel 1910. Il Cassirer che da un lato spiegò la "cosa in sé" kantiana come "idea limite": l'inesauribilità dell'esperienza garantita dalla distinzione gnoseologica tra ragione critica ed esperienza. E che dall'altro mostrò la possibilità di conciliare lo spazio-tempo kantiano (e il lavoro delle forme simboliche e degli schemi) con la relatività e la fisica quantistica.
Perciò Kant e la scienza, un nesso inscindibile e inesauribile.
E però a ben guardare è sempre l'Intelletto critico (relazionale e distinguente) l'architrave che regge tutta la cattedrale a tre navate delle "tre critiche", vera gloria di Kant. Se nella Critica della ragion pura (1781) l'Intelletto è "costitutivo" ossia legislatore e organizzativo dell'esperienza, nella Critica della ragion pratica (1788) esso è regolativo e in qualche modo utopico. Basato sulla necessità di un dover-essere ritagliato sulla categoria del possibile, coerente con l'idea della libertà. E cioè: "tratta l'uomo come fine". E ancora: "fai del tuo agire la massima di un agire universale". E le due massime sono il culmine dell'immaginario etico. Ovvero una linea ideale, che fa della ragione-volontà un formidabile aculeo libertario contro ogni dover-essere imposto dalla religione rivelata. E che a Kant nel 1793 valse la censura dell'autorità regia prussiana. L'obiezione di Hegel a questa concezione fu caustica. Affine a quella di Marx contro la morale astratta del borghese. Eccola: nel vuoto del puro dover-essere si insinua sempre un contenuto surrettizio e già dato. Ad esempio, la proprietà privata, che realizza la dignità dell'individuo singolo in una società storicamente determinata. Eppure - dopo tanto realismo storicista ostile alla persona/valore come “astratta e metafisica” e giustificatore di tirannidi - si può ben affermare: astratta è solo la proclamazione retorica e fintamente universale della libertà, non corredata da presupposti materiali ed egualitari. Ma la dignità della persona proclamata da Kant esige sempre di venire attuata, ed entra in collisione con ciò che, di fatto, la contraddice in società. E poi per Kant la dignità dell'uomo come fine era un bene planetario, da far valere nel mondo globale già pervaso dal colonialismo (La pace perpetua, 1795) E infine lo stesso Kant nella Metafisica dei Costumi (1797) fu lucidissimo. L'evoluzione storica- scriveva - esige che tutti divengano cittadini a pieno titolo, realizzando le potenzialità razionali umane. Travalicando quelle barriere censitarie che i tempi (e lo stesso Kant) avevano messo a difesa della persona borghese: proprietà e diritto ristretto di suffragio, escludenti donne e "lavoratori passivi". Dunque Kant come un Rousseau moderato, tifoso della Rivoluzione francese benché avverso al regicidio. Sovranitario "con juicio", ma tendenzialmente democratico, dialogico e contrattualista. Come ben videro il John Rawls del Kantian constructivism e i teorici della "comunicazione democratica libera da dominio", Apel e Habermas. Nonché il solito Cassirer. E la terza navata della cattedrale? Attualissima e fascinosa del pari. Nel 1790 si afferma infatti nella terza Critica, quella del Giudizio, un criterio ancora insuperabile: l'autonomia dell'opera d'arte. La sua indipendenza linguistica dagli altri domini dello spirito. L'arte per Kant è radicata in un certo modo di percepire le cose da parte dell'intelletto. Un modo "riflessivo" e fine a se stesso, entro il quale l'oggetto appare "bello" alla mente, come pura allusione a qualcosa di perfetto e risolto. Il bello è "la forma della finalità senza scopo" - teoretico o raziocinante - forma appresa come gioco della fantasia e dell'intelletto. È l'intelletto stesso che si piace nella cosa. E il tutto è frutto di invenzione plastica o linguistica, sul modello della finalità interna degli enti naturali (Zweck-maessigkheit) e in accordo con una possibile armonia del cosmo. Classicismo? Sì, ma nulla vieta di includere in quel classicismo il lavoro storico del linguaggio, e per di più Kant si inoltrò anche nei territori del "sublime". Lo smisurato "negativo", che sconvolge l'armonia della fantasia e dell'intelletto. Piccolo particolare. Kant fondò persino il "comico", cogliendone l'irruzione nello sconvolgimento spiazzante del senso razionale: come Witz, lapsus, bizzarria catartica.
Infine la politica, a cui s'è già accennato. Kant nella Pace perpetua fu il primo terico del globalismo, che esigeva istituzioni sovranazionali nell'era in cui il pianeta diventava davvero sferico e perciò simultaneo. La sua repubblica cosmopolitica e confederale che interviene a difesa dei deboli- e a precise condizioni- si basava sull'obiettivo della Pace. Che solo repubbliche democratiche paritetiche, a "cittadinanza attiva" e nemiche degli arcana imperi potevano realizzare. Tutte insieme, nel mondo dell'unico mercato. Kant di sinistra? Perché no. In fondo i marxisti democratici di Germania e Austria, da Bernstein a Adler, lo leggevano già così. Come in parte anche il nostro Della Volpe, ben prima di Colletti. E tanto sul piano della teoria democratica, quanto su quello epistemologico di un materialismo critico, conflittuale e alieno dai fatalismi dialettici della vulgata hegeliana. Narrano che il vecchio Kant si spense, sussurrando al fido maggiordomo Lampe: "Es ist gut, va bene così". Aveva ragione la "macchina celibe". Aveva speso bene la sua vita e il suo pensiero. Es ist gut anche per noi, vecchio Kant.

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Lungomare riformista a Bari
L'alleanza fra D'Alema ed Emiliano
su
Il Foglio 17 aprile

Roma. Sostengono quelli di Aprile, vale a dire del correntone, che il presidente e il candidato sindaco mangiarono, quel giorno sul lungomare di Bari, cozze crude. Precisano, i compagni riformisti della città, che si trattò di alicette, al più polipetti, cozze giammai. Fatto sta che dell'evento, il sito di Aprile ha dato un suggestivo resoconto in stretto dialetto barese: “Ajìere D'Alema s'è ffatte nu ggire pe Bbare, nzjìeem-o candedate sineche de sinistre, Michele Emiliano. O lungomare, addò stonne le bbangarèlle, s'è mangiate le cozze accrute…”. Vero che, a voler parlare della campagna barese, andrebbe raccontato pure quella del centrodestra, ma il fatto è che su quel fronte, se per caso il Cav. volesse mettersi pure lui a bazzicare il lungomare, non troverebbe nessuno a cui somministrare né “cozze accrute” né zeppole fritte. Insomma: none, o candedate sineche liberale sta ancora nelle mani di San Nicola. E' tutta una faccenda senza capo né coda di gente di FI contro gente di FI, tutti insieme contro An, che poi sta contro tutti. Ignazio La Russa ha cercato di convincere il Cav. dicendogli che “per noi Bari ha il valore che per voi ha Mediaset”. Il Cav., figurarsi, ha appizzato le orecchie: non pensava di aver tanto sottostimato la città che fu di Pinuccio Tatarella, e sul sindaco meno che mai vuol mollare. Se ne riparleranno ne riparleremo. Veniamo al candidato sindaco Michele Emiliano. Siccome, dicono a Bari, pur essendo un magistrato “non piace ai girotondini perché non è snob, è un po' populista e non è giustizialista”, a D'Alema, come si dice – e si capisce: politicamente parlando – ha fatto subito sangue. E quindi, son cozze o son alicette, l'intesa politica è divampata. “Potrebbe essere un Guazzaloca alla rovescia”, ha benedetto il presidente dei Ds. E il magistrato ora candidato, che anni fa indagò sulla missione Arcobaleno, andò a trovare D'Alema e poi confidò alla Gazzetta: “Volevo essere sicuro che non fosse troppo arrabbiato con me: questa è la motivazione mia personale. Poteva essere arrabbiato, se fosse stato un politico qualsiasi, perché io ho svolto un'investigazione piuttosto delicata, molto incisiva, nei confronti di esponenti del suo partito”. Macché: il presidente dei Ds lo aspettava, come si dice, dolce come un frutto di mare (nelle cozze un destino), per niente arrabbiato o se arrabbiato niente mostrava. La candidatura decollò, i diessini locali di Beppe Vacca, pur rigoroso dalemiano, si rassegnarono, e il lungomare si affollò. Il pm ha molte caratteristiche – non solo un comune sentire di mitili – per piacere a D'Alema. “Dillo a Michele” Per farsene un'idea, basta scorrere la biografia che ha fatto inserire nel suo sito. Niente lagne sulla giustizia, ma i nomi delle care maestre, da Laura Brasolin alla prof.ssa Idea Muciaccia, al ricordo che “il suo compagno di banco è un piccolo comunista figlio di ferroviere”, al fatto che “dai giovanetti di via Garruba impara il dialetto barese e a fare a mazzate. Le prende e qualche volta le dà”. Papà Giovanni, che era stato calciatore professionista, e poi distributore di bilance Berkel in ogni salumeria e in ogni macelleria di Bari, “gli raccontava nostalgicamente la sua vita di piccolo Balilla Moschettiere che montava la guardia al Palazzo di Governo”. Più che la politica, il “rissoso e strafottente” giovane studente (uno, per intenderci, da 43/60 alla maturità) era attratto dalla raccolta delle annate dei Giganti del Basket. Passa a Giurisprudenza animato, più che dal sacro fuoco della giustizia, dalla granitica convinzione che “una laurea così non si nega a nessuno”, mentre il genitore “gli affida compiti importanti”: scaricare camion, prelevare bilance sfasciate, sistemare la moquette nello stand alla Fiera del Levante. Un avvocato presso il cui studio comincia la pratica, “lo dissuade dal proseguire nella professione”. Poi: a) il concorso in magistratura; b) Elena. Al primo appuntamento “prudentemente le chiede di sposarlo e di avere dei figli”; lei saggiamente lo riporta di corsa a casa sua: “Così non attacca”. Ma l'amore, con sposalizio – dopo opportuno fidanzamento di nove mesi – per fortuna arriva lo stesso. E bene si spiega perché D'Alema ed Emiliano son fatti per intendersi. “Interpreta i bisogni profondi della città…”, dice il primo del secondo. E il secondo, tra “i principi” della sua azione mette pure “il senso vigile dei propri limiti”. E detto fatto: se volete comunicare con lui, basta spedire un'e-mail alla rubrica “Dillo a Michele”, senza stare troppo a tirarsela. Difficile dire se l'ex pm ce la farà. Ovvio: Bari mica è solo una cozza (accruta!). Ma neanche è solo Mediaset.

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Non giriamoci intorno: è resistenza
Red sul
Barbiere della Sera 15 aprile

Resistenza o guerriglia? Terroristi o partigiani? Guerra o pace? Dopo la tragedia dell'ostaggio italiano ucciso, forse è il caso di cominciare a chiamare le cose con il proprio nome

In diretta da Bagdad, ieri sera, Lilli Gruber si è permessa di definire Jabbar al-Kubayasi un esponente della “resistenza” irachena.

Il ministro Frattini è saltato come un tappo redarguendo la giornalista: “Non dica 'resistenza', sono terroristi!”.

Il nostro premier, dopo la notizia dell'uccisione del povero Quattrocchi, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Non hanno incrinato il nostro impegno per la pace”.

Forse, mentre la tragedia irachena si incancrenisce, sarebbe il caso di metterci d'accordo sulle parole, almeno noi che le parole le usiamo per raccontare.

Parlare chiaro vuol dire anche riuscire a leggere una situazione per quella che è, non allontanarsi dalla realtà e, quindi, vedere più facilamente la soluzione dei problemi.

Prima domanda: cos'è il terrorismo? Lo sono sicuramente l'11 settembre e l'11 marzo. Ma non si può definire terrorismo quello di chi combatte sul proprio territorio contro un'occupazione militare che non ha mai richiesto e che considera abusiva.

La parola “resistenza”, purtroppo per Frattini, è quella giusta.

Se gli americani fossero sbarcati in Italia prima della guerra, gli italiani li avrebbero combattuti, anche se a governarli c'era un dittatore come Mussolini. E sarebbe stata resistenza anche quella, come è stata quella contro i tedeschi, che infatti chiamavano “terroristi” i partigiani.

Perché ogni popolo vuole essere padrone del proprio territorio e non tollera che alcune migliaia di stranieri, soprattutto se di una religione diversa, prendano il potere, erigano muri e vadano in giro a bombardare le loro città, a distruggere le loro case, ad ammazzare chi passa per caso insieme a chi si oppone all'occupazione.

E qui veniamo al secondo termine: pace. Prima di utilizzare quella parola, bisognerebbe pensarci bene.

Un'operazione militare che ha causato la morte di 10.000 civili (ripeto: civili) in un anno, che ha Falluja ha sterminato 600 civili in dieci giorni non può essere definita un'operazione di pace.

Parlare ancora di un'operazione di pace significa essere in malafede. In Iraq c'è la guerra e chi sta in Iraq, come ci stiamo noi, sta in guerra.

Il peace-keeping, purtroppo, è tutta un'altra cosa. Tecnicamente il peace-keeping (mantenimento della pace) avviene quando ci sono due (o più) eserciti in guerra che firmano un accordo di pace e chiedono ENTRAMBI l'intervento di una terza forza per garantire gli accordi di pace. Non quando una delle due parti in lotta decide unilateralmente di imporre la propria pace.

E' comprensibile che i governi delle potenze che stanno occupando l'Iraq usino le parole come arma di propaganda, ma i giornalisti dovrebbero cercare di stare ai fatti.

E i fatti sono che lo stato sovrano Iraq è stato attaccato senza motivo (anzi, con motivi inventati) da un'alleanza di Paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti.

Tale alleanza ha sconfitto l'esercito regolare iracheno e sta tentando di prendere il controllo del territorio e dell'economia imponendo i propri uomini ai vertici delle istituzioni. La popolazione, a parte una piccola élite di collaborazionisti, rifiuta quest'occupazione e la combatte.

Si sono formati diversi eserciti di partigiani che, dopo aver tentato di respingere l'attacco colpendo obiettivi militari, stanno rivolgendosi spietatamente contro i civili con la tecnica della presa e dell'uccisione di ostaggi della stessa nazionalità delle forze occupanti.

Troppo crudo? Forse, ma la realtà è bene guardarla in faccia prima possibile, per evitare che, come ieri sera, ci sorprenda con altre tragiche notizie.

Red

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Tutto per una foto con George
Central Bar sul Barbiere della Sera 15 aprile

Si diano da fare i terzisti e i revisionisti perché molto lavoro li aspetta

Insediandosi come presidente della Camera dei Deputati dopo le elezioni del 1996 Luciano Violante pronunciò come molti ricordano, un discorso coraggioso.

“Bisognerà pur chiedersi – disse Violante – come mai, dopo l'8 settembre del '43, migliaia di ragazze e ragazzi scelsero di andare “dall'altra parte” e arruolarsi nell'esercito della Repubblica di Salò”.

Anche allora era successo che la coalizione anglo americana, dopo aver abbattuto una odiosa dittatura, quella di Benito Mussolini, aveva riportato nel nostro Paese i valori della democrazia e delle libertà civili.

Eppure ci fu chi scelse di rimanere fedele a quella dittatura fino alla morte. Gli eredi di quella leva politica oggi sono nella maggioranza che ci governa e esprimono, con Gianfranco Fini, il numero due del governo italiano.

Ora bisognerà pur capire come mai, liberato l'Iraq da un odioso dittatore come Sadam Hussein, non trascurabili parti di iracheni combattono i liberatori anglo americani e i loro alleati, italiani compresi, giungendo al punto di allestire orribili esecuzioni come quella che è costata la vita a Fabrizio Quattrocchi.

Si diano da fare i terzisti e i revisionisti perché molto lavoro li aspetta.

Lo stupore degli alleati davanti alle sommosse anti occidentali, i malumori del ministro Frattini che rimbecca a Porta a Porta Lilli Gruber che dall'Iraq parla di “resistenza”, quando Frattini vorrebbe parlare solo di “terrorismo”, danno la misura della povertà dell'analisi che gli esperti, americani e britannici soprattutto, sono stati in grado di elaborare fino a oggi.

Quella che doveva essere una corsa verso la libertà nel cuore del Medio Oriente sta diventando un abisso di oscure contraddizioni e un cammino sanguinoso di cui non si intravede la fine.

Mentre si levano le peggiori retoriche di repertorio (“Non ce ne andremo, sarebbe un atto di viltà”), mentre persino sulla pelle del povero Quattrocchi si inneggia a un eroismo di cui si sarebbe fatto volentieri a meno, persino i più accesi sostenitori della guerra preventiva, da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera al politologo neocon Robert Kagan (sempre sul Corsera di martedì 13 aprile) chinano il capo davanti alla realtà.

Questa guerra è stata un abbaglio terribile.

Attingendo a un po' di sano e cinico realismo sarebbe a questo punto il caso di chiedersi cosa l'Italia ha guadagnato o potrà guadagnare ancora dalla partecipazione alla coalition of the willing, avendo già pagato non poco in termini di vite umane (17 militari e due civili uccisi a Nasiriya, quindi l'assassinio di Quattrocchi e tre ostaggi ancora nelle mani di guerriglieri iracheni), di feriti, di serie complicazioni politico-diplomatiche nei rapporti con i maggiori partner europei (Francia e Germania) e con il mondo islamico che ci osserva assai seccato dalle altre sponde del Mediterraneo.

Nei conti, alla voce dell'attivo, si puo' inserire una fotografia di Silvio Berlusconi a Camp David con George Bush e qualche telefonata tra Palazzo Chigi e la Casa Bianca, nonché una nuova collocazione internazionale che ci qualifica come gli alleati più fedeli dell'America al pari dei britannici (ma non lo eravamo già prima?) ma senza il loro peso politico e strategico, la soddisfazione di Giuliano Ferrara e di sua moglie.

Puo' darsi infine che nella ricostruzione dell'Iraq le imprese italiane riescano a strappare un po' di subappalti concessi dai general contractor americani come la Bechtel (una delle maggiori industrie statunitensi) .

E' il caso di ricordare, tuttavia, che il primo contratto ottenuto dalla Bechtel per un valore di 680 milioni di dollari è stato suddiviso in 98 subappalti di cui 61 sono andati a imprese irachene, 16 a imprese Usa, 10 a imprese kuwaitiane, 7 a imprese britanniche, 3 a imprese saudite, 1 a un'impresa irlandese.

All'Italia non è toccato nulla. Ma ci possiamo consolare con la prospettiva di qualche buon affare petrolifero per l'Eni e con la notizia che Paul Bremer, il plenipotenziario di George Bush in Iraq ha incaricato l'Italia di studiare il nuovo piano generale dei trasporti (Cfr. Limes 1/2004), così, magari, intitoleranno una piazza ai morti di Nasiriya e una fermata della nuova metropolitana al povero Quattrocchi.

Bel colpo.

Central Bar

pride and prejudice
  
Shangri-la

Il deserto dei Tartari 15 aprile
Poi dicono, i vecchi, che la guerra bisogna provarla per capire. Hanno ragione, lo so, ma sapessero loro. Sapessero. Qui entriamo ogni giorno in mimetica ed elmetto, attenti a scansare i colpi dei cecchini alle finestre. A cadenza fissa, entra uno che intima: dieci di voi, al muro!, esecuzione sommaria.
A volte, si consuma pure il rito della convocazione: "occorreva scegliere uno da immolare per la causa e abbiamo pensato a te, che ne dici?".
Dovessero mai darvi questa lieta novella, il consiglio è: calma e sangue freddo. Non muovete un solo muscolo della faccia. In questi casi, la risposta giusta è: "ne sono onorato". A meno che non accettiate di essere seduta stante indottrinati sui pregi di una morte eroica. Lasciate perdere. Almeno vi risparmiate l'irritazione.
Uno stillicidio, insomma, senza contare il balletto delle voci di corridoio.

"Ci fanno saltare tutti entro dicembre".
"Ma che dici, entro giugno: l'ho saputo da fonti attendibilissime".
"Finiremo tutti carbonizzati qui dentro o forse ci finiranno prima con esalazioni di gas. Vogliono uscirne puliti".
"Non fate gli idioti: ci vendono ai primi beduini che passano".
"Ma chi vuoi che ci compri? Costiamo troppo. Nessuna tribù ha cammelli a sufficienza per noi. E poi siamo troppe bocche da sfamare".
"È sicuro, gente: entro la primavera verremo tutti deportati. Stanno già preparando i convogli: ecco le prove fotografiche".


In tempo di guerra, ci sono sempre i beninformati, quelli che stanno tutto il giorno con l'orecchio attaccato a Radio Londra. E poi non possono mancare i collaborazionisti, i doppiogiochisti e quelli che sperano di cavarci qualcosa di utile per se stessi. Sono loro gli untori del panico, che tutti i minuti ne sanno una nuova, direttamente dai "piani alti".
Da anni indossiamo queste divise, gli anfibi, i giubbotti antiproiettile. In lontananza, l'aria sibila e l'orizzonte tuona, mentre ci guardiamo, perplessi: un temporale? Un terremoto? Cos'altro? Nulla di nulla.
La guerra è un rombo remoto, la morte non arriva e questa sopravvivenza in perenne attesa ci ha stancati. Siamo pronti da tempo e sappiamo già. Ci intimassero, domani, riunitevi tutti nel cortile ed esprimete l'ultimo desiderio: va bene, risponderemmo, veniamo dopo il caffè.

pride and prejudice
  
Personalità confusa

Lo struscio sul corso
12 aprile
Passeggiata in corso Vittorio Emanuele II, la strada pedonale che collega piazza San Babila al Duomo. Dovrebbe essere il salotto della città. Poveri noi. Cosa resta?

I giocolieri. Non c'è più il mangiafuoco fachiro: una volta a Milano era una celebrità. Ora abbiamo l'annodatore di palloncini, talora in costume da pagliaccio. E il solito gruppo musicale peruviano che suona le canzoni di Elton John con i flauti di pan, circondato da una folla immensa, chissà perché. E l'uomo-statua: vestito da sarcofago egizio o coperto di gesso bianco anche in faccia, resta fermo immobile per ore, come - appunto - una statua di marmo. Ogni tanto, dopo essersi accertato che nessuno lo veda, si gratta il naso. Una volta ne ho visto uno in pausa: tutto bianco, se ne stava seduto sul marciapiede con il collega annodatore di palloncini, e fumava una sigaretta. Si muoveva, insomma.

Ai tavolini del bar all'aperto ormai siedono solo turisti stranieri, perché un italiano non sarebbe mai così imprudente da ordinare il caffè ai bar del corso: là il caffè macchiato costa 6 euro, e la spremuta d'arancio 10. Ma i turisti non lo sanno, non se ne accorgono finché non portano loro il conto. Intanto guardano gli indigeni passare, osservano perplessi il Duomo interamento avvolto nelle impalcature. Lo restaurano ogni tre mesi, il Duomo di Milano.
Poveri vacanzieri del grand tour. Hanno l'aria di pensare "But what's this casino? And when andiamo to Venezia?"
Svaniti i madonnari. In calo i disegnatori ritrattisti a matita e le loro caricature di vip irriconoscibili. Pressoché introvabili gli skater e i writer della galleria dietro il fast food: credevano di vivere in un video di Eminem, qualcuno deve averli avvertiti che siamo in Brianza, altro che video.
Scomparse le folkloristiche guardie a cavallo, non erano funzionali. Te li immagini i carabinieri a cavallo che inseguono lo scippatore tra la folla? "Gid-dàp, al galoppo, raggiungiamolo!". E lo scippatore si infila nel caos della Rinascente o giù per le scale mobili della metropolitana. Prova a prendermi, pirla. Ma dai.

Sterminati i piccioni, povere bestie. Erano i protagonisti della piazza, poi hanno iniziato a perseguitarli peggio dei cristiani ai tempi di Nerone, a gasarli e catturarli nelle reti. Si stanno estinguendo, e con loro i venditori ambulanti di mais.

Cosa resta?

Resta lo strùscio: l'adolescenza agghindata per il corteggiamento che da decenni fa avanti e indietro imperterrita. Qualcuno si è conciato da carnevale pur di attirare uno sguardo in più. Prima vasca, seconda, terza vasca. Se piove, ci si rifugia da Spizzico.

sense and sensibility
  
La visione del frigo da vicino 14 aprile
Ore 20. La visione del frigo da vicino:
- una confezione di 5 piccoli wursrtel woui di puro suino senza polifosfati aggiunti da consumarsi previa cottura
- una barattolo di olive con dentro numero 2 olivette nere galleggianti in un circa mezzo litro di salamoia
- un antico limone con curiose macchie grigioverde sulla scorza
- una birra moretti, aperta
- basta

Il limone occupa solitario un intero, sterminato ripiano del frigo.

Guardi nel vano dietro la portiera del frigo e scopri che esso cela altri segreti dimenticati:
- 20 grammi di filetti di alici distesi in olio d'oliva
- Magia d'Aromi Knorr aglio e prezzemolo (sottotitolo: "Tutto il sapere delle erbe!")
- un vasettino contenente una decina di capperi esselunga aromatizzati immersi in piccola piscina di aceto di vino
- stop.

Uova: zero
Pasta: zero
Formaggi e/o carni: zero
Biscotti per domattina: zero.
Ci rifletti, e il cervello macina a fatica i seguenti pensieri:
1) devi ricordarti di fare la spesa
2) tuttavia, oramai è tardi
3) forse con gli ingredienti rimasti potresti creare una singolare ed inedita ricetta.
Ad esempio: brodo all'aglio e prezzemolo condito con limone alici e birra bollita.
(Mmm... No, meglio di no.)
Decidi di cibarti di wurstel crudi davanti al televisore. E finisci pure le olive, crepi l'avarizia. Gnam.

Hai fame.

sense and sensibility
  

   18 aprile 2004