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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 21 luglio 2007


Terrorismo, Bush ordina alla Cia
"Basta torture sui prigionieri"
Firmato il decreto che impone il divieto di qualsiasi trattamento inumano. A Guantanamo sarà rispettata la Convenzione di Ginevra.
Mario Calabresi su
la Repubblica

NEW YORK - Dopo anni di polemiche e scandali che hanno investito la sua Amministrazione, ieri George W. Bush ha firmato un ordine esecutivo che proibisce alla Cia qualsiasi trattamento inumano nei confronti dei prigionieri catturati nella lotta al terrorismo. Il presidente americano, ribaltando l'interpretazione data fino ad oggi dello status dei presunti terroristi incarcerati, tra cui quelli di Guantanamo, si è impegnato a rispettare l'articolo 3 della Convenzione di Ginevra, che proibisce qualsiasi atto di tortura contro i prigionieri di guerra.

Era stato il vicepresidente Dick Cheney, all'inizio di novembre del 2001, a consegnare a Bush un documento di quattro pagine, scritto dal suo consigliere giuridico, in cui erano contenute le direttive che stabilivano le regole di trattamento per i sospetti terroristi. Veniva negato il diritto di un processo o di un tribunale, civile o militare, e si stabiliva che sarebbero stati detenuti a tempo indeterminato e senza formalizzazione dei capi d'accusa.

Inoltre, e questo è il punto messo in discussione ieri, la dottrina Cheney accantonava la Convenzione di Ginevra. "Gli stretti vincoli posti dalle Convenzioni di Ginevra all'interrogatorio dei prigionieri - era scritto in un secondo memorandum del gennaio 2002, redatto da un consigliere giuridico del vicepresidente - ostruiscono gli sforzi volti a ottenere rapidamente informazioni dai terroristi arrestati". Una dottrina a cui si opposero senza successo l'ex segretario di Stato Colin Powell e l'ex ministro della Difesa John Ashcroft.

Bush oggi afferma che "è proibito l'omicidio, ogni atto che porti alla morte del prigioniero, la tortura, la mutilazione, ogni trattamento inumano o crudele, ogni violenza intenzionale che provochi gravi danni fisici, lo stupro e l'utilizzo dei prigionieri per esperimenti biologici". Inoltre il presidente sottolinea che non saranno accettati "abusi alla persona fatti per umiliare e degradare i prigionieri in un modo tale che qualunque persona ragionevole li considererebbe fuori dai limiti della decenza umana, ad esempio indecenze fatte per umiliare i prigionieri, così come forzare le persone a fare atti sessuali o a mimarli". Un passaggio questo che non può non far tornare alla mente le foto scattate nel carcere di Abu Ghraib a Bagdad.

Infine Bush sembra riferirsi a Guantanamo e alle polemiche relative al mancato rispetto del Corano e delle preghiere dei prigionieri quando afferma che è messo al bando "ogni atto commesso per denigrare la religione, le pratiche religiose o gli oggetti di culto dei prigionieri".



Schioppati
apertura de
il Manifesto

Dallo scalone agli scalini. Padoa Schioppa vince la partita della riforma previdenziale e mette nell'angolo la sinistra. Innalzamento progressivo dell'età fino a 61 anni, revisione dei coefficienti e «finestre obbligatorie» anche per le pensioni di vecchiaia e le donne. Il tutto nel pieno rispetto dei vincoli di bilancio. Accordo con i sindacati, anche se nella Cgil il dissenso non manca. Prc e Pdci contrari, promettono battaglia in Parlamento


Il riformismo possibile
Massimo Giannini su
la Repubblica

Tra scaloni che scendono e scalini che salgono, finestre che si aprono e finestre che si chiudono, Romano Prodi attraversa il «cantiere delle pensioni» portando a casa un compromesso dignitoso. La sopravvivenza è garantita, almeno fino all´autunno. Il passaggio era insidiosissimo. Per la prima volta dopo la Finanziaria, il governo di centrosinistra era chiamato a rimettere in discussione vantaggi e privilegi della sua costituency politico-culturale. Non più solo una lenzuolata di liberalizzazioni a scapito di chi probabilmente simpatizza per l´opposizione, ma un fazzoletto di limitazioni a danno di chi notoriamente vota per la maggioranza. Non più solo un sacrificio richiesto ai tassisti o ai commercianti, ma un beneficio sottratto a Cgil Cisl e Uil. E quindi per la strana «proprietà transitiva» della sinistra italiana, un maleficio imposto a Rifondazione e al Pdci.
Forse è esagerato parlare di una «svolta storica per il Paese», come fa il premier. Ma sia pure con un ritardo di quattro mesi sulla tabella di marcia, e in un clima di diffuso scetticismo (se non addirittura di palese disfattismo), il governo esce tutto sommato indenne da un test politico importantissimo. E se la parziale riscrittura del patto previdenziale firmata nella lunga notte di Palazzo Chigi non si può festeggiare come un trionfo dei «riformisti», non si può neanche giudicare come una vittoria dei «massimalisti». Qualunque giudizio di merito si dia di questa riforma, a sentire dalle reazioni che ha innescato segna senz´altro un punto a favore di chi (dalla Bonino a Rutelli) insisteva per un atto di coraggio da parte del governo. E un punto a sfavore di chi (da Giordano a Diliberto) si considerava impropriamente la «guardia rossa» dell´esecutivo.
Se si giudicasse con i criteri dell´idealismo, senza conoscere niente del passato e del presente dell´Italia, senza sapere nulla delle sue prassi consociative e delle sue incrostazioni corporative, senza alcuna consapevolezza della disomogeneità culturale delle sue maggioranze e della fragilità istituzionale della sua democrazia, questo accordo andrebbe bocciato.
In tutta Europa, dalla Gran Bretagna all´Olanda, si va in pensione a 65 anni. L´ultima riforma varata in Germania innalza l´età di pensionamento addirittura a 67 anni dal 2030. Solo qui si può rischiare una crisi di governo se si innalza di un anno l´anzianità e si porta lo «scalino» a 58 anni. Solo qui si può rischiare l´ordalia nelle fabbriche se non si introduce la categoria dei «lavori usuranti» sconosciuta all´Occidente.
Se si giudica con i parametri del realismo, tenendo conto delle premesse concrete dalle quali si partiva, della fragilità politica della coalizione, della capacità d´interdizione della sinistra radicale, della forza d´urto della sinistra sindacale, questo accordo va promosso. È meno di quello che sarebbe servito, ma è più di quello che si poteva temere. Molto semplicemente, e senza troppi velleitarismi impensabili nell´Italia ingessata di oggi, è una prova di «riformismo possibile».
Sul piano tecnico, i pregi della riforma sono almeno due.
1) La nuova disciplina riporta un equilibrio tollerabile nelle dinamiche finanziarie del sistema. Assicura grosso modo gli stessi risparmi della Maroni. E, almeno nella fase iniziale, non lo fa a spese della fiscalità generale, ma attraverso una redistribuzione delle poste interne al perimetro previdenziale.

2) Il superamento dello scalone di Maroni è modulato con tempi e formule accettabili. Accantonata l´ipotesi nefasta dello «scalino più incentivi» (inefficace e già fallita come dimostrato dallo stesso superbonus sperimentato dal Polo), il governo ha adottato la più funzionale formula «scalino più quote». Con un correttivo non secondario, che infatti fa gridare la Fiom e i due partiti comunisti. Dopo il primo scalino a 58 anni nel 2008, ogni quota successiva risultante dalla somma tra età anagrafica e contributiva dà diritto alla pensione solo in presenza di un requisito minimo di età: 59 anni dal primo luglio 2009, 60 dal primo gennaio 2011, 61 dal primo gennaio 2013. Con questo meccanismo si raggiunge un doppio risultato: si introducono di fatto altri tre scalini di innalzamento, e a regime si raggiungono gli stessi livelli di anzianità previsti dalla legge Maroni.

Se due sono i pregi, due sono anche i difetti.
1) La riforma rinvia ancora una volta la trasformazione definitiva del sistema previdenziale. Il tanto atteso passaggio al contributivo (tanto versa oggi il lavoratore attraverso i suoi contributi, tanto incasserà domani con la sua pensione) resta una chimera. Qui sta la colpevole rinuncia del governo, che cede ad un intollerabile veto sindacale: l´aggiornamento dei coefficienti di trasformazione, già previsto dalla Dini e già rinviato dalla Maroni, viene ulteriormente procrastinato al 2011. E quello che è peggio, viene affidato nuovamente a una misura discrezionale, e non automatica, come un decreto del ministro del Lavoro. L´esito è scontato: tra quattro anni ripartirà il tormentone, con i sindacati che si oppongono all´aggiornamento e il governo di turno che sarà costretto a un nuovo braccio di ferro.

2) Preoccupa l´estensione delle categorie escluse. Archiviata la richiesta di Rifondazione, che per esigenze di classe avrebbe voluto esentare tutto il lavoro operaio, l´area delle categorie usurate si è ristretta, sulla carta, ai lavori «nocivi», agli addetti alle catene di montaggio, ai turnisti notturni. Dovrà decidere una Commissione, l´ennesima. Ma la platea degli esclusi dall´aumento dell´età rimane comunque molto vasta: circa 1 milione e mezzo di lavoratori. Quanto costa questa «clausola di salvataggio»? Difficile dirlo. Ma è un´altra probabile incognita finanziaria, oltre che un discutibile discrimine sociale.

Dopo la firma apposta sul testo da Cgil, Cisl e Uil, per i partiti della sinistra radicale è più difficile rompere su questo l´alleanza. Giordano e Diliberto possono soffiare sul fuoco della rabbia dei duri della Fiom. Ma per ora, sia pure con la formula un po´ ambigua della firma «per presa d´atto» apposta sul documento firmato nella notte, Epifani sembra reggere all´urto dei metalmeccanici di Cremaschi. Questo rende più stretto il sentiero di Prc e Pdci, che ora sono in evidente difficoltà. La prova sta nell´appello, improprio, che ora i due partiti comunisti fanno alle fabbriche, chiedendo ai lavoratori di esprimersi sull´accordo con un referendum, e scavalcando ancora una volta a sinistra i sindacati.



La buona e la cattiva notizia
Tito Boeri su
La Stampa

La buona notizia è che l'accordo c'è. È arrivato nella notte ed è un documento di cinque pagine. C'è dunque un testo con delle decisioni importanti e delle firme in calce. Finirà così l'estenuante ridda di voci su scalini e quote e con essa le fantasiose liste di lavori usuranti. Non è poco dato che, alla vigilia, si contavano sulle dita di una mano quelli che scommettevano su questo accordo. La brutta notizia è nelle tre firme a fianco di quelle dei ministri e del sottosegretario Letta. Sono quelle di Luigi Angeletti, Raffaele Bonanni e Guglielmo Epifani, quest'ultimo soltanto per presa d'atto. È davvero una strana democrazia quella che permette che un accordo che ha al suo centro un patto fra generazioni venga sottoscritto solo dai segretari dei sindacati più vecchi d'Europa. Assieme ai tempi lunghissimi della trattativa e alla sua opacità (nessun coinvolgimento dell'opinione pubblica), quelle tre firme sono un segno evidente del fatto che questo modo di «concertare» stravolge l'esercizio della democrazia. Urge un ripensamento della concertazione. O si trova un modo di consultare tutte le parti in modo relativamente rapido (ponendo limiti di tempo legati all'iter parlamentare dei disegni di legge) o è meglio fare questi negoziati su questioni di rilevanza generale solo nelle commissioni del Parlamento. Nei contenuti ci sono due sorprese rispetto alle anticipazioni della vigilia. La prima è che il tortuoso meccanismo delle quote contempla comunque dei minimi anagrafici, che salgono gradualmente da 58 a 62 anni.

Solo un tavolo che rappresenta quasi unicamente gli interessi dei 129.500 lavoratori bloccati dallo scalone poteva finanziarne l'abolizione coi contributi di chi lavora. Altrove in Europa si cerca di contenere la spesa previdenziale, anziché aumentare i contributi. Pensate a cosa sarebbe accaduto se si fossero seguiti i dettami della sinistra massimalista, quella che ancora oggi si chiama fuori dall'accordo. I 35 miliardi legati all'abolizione dello scalone sarebbero gravati tutti, fino all'ultimo euro, sui contributi dei lavoratori più giovani. Per fortuna, il presidente del Consiglio Prodi e il ministro Padoa-Schioppa sono riusciti a ridurre a 10 miliardi i costi dell'abolizione dello scalone. Sempre che la strada irta di insidie che attende questo accordo non celi qualche trappola. Bisognerà ormai inevitabilmente inserire l'accordo nella Finanziaria e ci sono tanti adempimenti previsti da qui a fine anno (definizione dei lavori usuranti, revisione delle finestre d'uscita, piano industriale di riordino degli enti previdenziali) e ulteriori verifiche durante l'attuazione degli scalini.


Staino sull'Unità

Unipol, Forleo: politici complici di disegno criminoso
sommari de
Il Sole 24 Ore

I parlamentari intercettati in 73 conversazioni telefoniche nel corso dell'inchiesta condotta a Milano sulla mancata scalata alla Bnl, non sono solo interlocutori ma «consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata». Lo scrive il gup milanese Clementina Forleo nell'ordinanza con la quale ha disposto la trasmissione al Parlamento delle intercettazioni richieste dalla procura, come prova della responsabilità di alcuni indagati.
«A parere del gup sarà proprio il placet del Parlamento a rendere possibile la procedibilitá penale nei confronti dei suoi membri, inquietanti interlocutori di numerose di dette conversazioni soprattutto intervenute sull'utenza in uso a Consorte, i quali all'evidenza appaiono non passivi ricettori di informazione pur penalmente rilevanti, nè personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata».

Quello che si stava realizzando con la mancata scalata alla Bnl era un «disegno criminoso di ampia portata», ossia un piano che «si stava consumando proprio ai danni dei piccoli e medi risparmiatori in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale». Lo scrive il gup Clementina Forleo nel provvedimento con il quale ha disposto il tasferimento al Parlamento di 68 intercettazioni telefoniche disposte nel corso delle indagini condotte a Milano sulla tentata scalata di Unipol alla Bnl.

Riferendosi poi ai parlamentari coinvolti nelle intercettazioni disposte nel corso delle indagini, il giudice Clementina Forleo sottolinea che «è evidente infatti come, risultando a carico di tali soggetti solo le granitiche risultanze di cui al tenore delle conversazioni in questione, non si sarebbe comunque potuto procedere alla relativa iscrizioni degli stessi nel registro degli indagati, data appunto l'attuale inutilizzabilitá di tali elementi».


Se il parlamento collabora
Giuseppe D'Avanzo su
la Repubblica

Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Clementina Forleo, chiede al Parlamento di rendere «utilizzabili» nel processo le intercettazioni telefoniche in cui sono incappati i Ds Massimo D´Alema, Nicola Latorre, Piero Fassino; il senatore e i deputati di Forza Italia, Grillo, Comincioli e Cicu. Il ceto politico – in coro e con allarme, a destra come a sinistra – discute i toni e le parole che il gip, Clementina Forleo, ha ritenuto di adoperare nella sua ordinanza. Il ministro di giustizia si spinge addirittura a ipotizzare contro il giudice «una potenziale lesione dei diritti e dell´immagine di soggetti estranei al processo».

Che cosa accade? Accade che, dopo la pubblicazione a goccia e a boccone, delle intercettazioni di due anni fa finalmente abbiamo - con la richiesta di utilizzabilità - un giudice che configura penalmente "il fatto" e non è tenero con i politici coinvolti nell´affare. Al giudice, i politici appaiono non «passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da una sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata che si stava consumando ai danni dei piccoli e medi risparmiatori, in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale».

Anche senza trarre affrettate conclusioni di colpevolezza o di innocenza, è indubbio che quelle conversazioni hanno bisogno di spiegazioni, approfondimenti, indagini. Il reato degli "scalatori" è documentato. Ammettono di aver messo insieme il 51 per cento prima di lanciare un´offerta pubblica di acquisto (opa) obbligatoria già quando si detiene il 30 per cento. Confessano candidamente come hanno occultato gli accordi sotto banco. Peccano di «insider trading» e "passano" quelle informazioni privilegiate a soggetti non legittimati a riceverle. Bene, fin qui tutto chiaro. Ma i politici? Non si limitano a raccogliere notizie, a tenersi informati sugli eventi. Per il giudice, intervengono, si danno fare per rimuovere o aggirare gli ostacoli. Hanno un ruolo attivo. Sono partecipi (se complici appare troppo). Per usare le parole di Clementina Forleo, sono «pronti e disponibili a fornire loro supporti istituzionali».

Ora la parola tocca al Parlamento. Che si spera renderà al più presto utilizzabili quelle intercettazioni anche nella consapevolezza che la scelta può significare - per tre uomini del centrosinistra e tre uomini del centrodestra - affrontare i pubblici ministeri, un´istruttoria, un giudice. Una decisione contraria - il rifiuto - creerebbe una nuova nuvola nera sui destini della politica italiana; impedirebbe ai protagonisti di liberare la propria reputazione da ogni sospetto; accentuerebbe la separatezza della politica dal Paese. A chi conviene?


Un «fascista» all'Istituto per la resistenza di Verona
sommari de
l'Unità

Il consiglio comunale di Verona ha nominato Andrea Miglioranzi come membro dell'istituto per la Resistenza. Miglioranzi è dirigente della Fiamma Tricolore, è stato condannato per istigazione all'odio razziale, è componente di un gruppo che ha dedicato una canzone a Priebke. «Fascista? È un termine che mi è molto caro». Proteste dai partigiani.


Perugia, arrestati imam che incitavano a guerra santa
sommari de
l'Unità

Operazione antiterrorismo della polizia. Tre marocchini sono stati arrestati: erano imam della moschea di Ponte Felcino. Nei sermoni incitavano alla guerra santa. Farebbero parte della cellula internazionale Nucleo islamico combattente. Il ministro Amato: «Sventati rischi molto concreti».


La vita reale di Prodi
Antonio Padellaro su
l'Unità

Romano Prodi, all'alba di ieri, che annuncia l'accordo sulle pensioni ai pochi, assonnati giornalisti presenti nella sala stampa di Palazzo Chigi. Gli siedono accanto i ministri Padoa Schioppa e Damiano e il portavoce Sircana. Tutti hanno trascorso la notte in bianco a trattare con i leader sindacali Epifani, Bonanni e Angeletti. Tutti ritengono di avere ottenuto il migliore risultato possibile. Il presidente del Consiglio dichiara: «Ora l'Italia è un paese più giusto». Fermiamoci qui. Non sapremo dire quanto sia reale e quanto celebrativa la frase del premier. E lasciamo agli esperti il giudizio sui contenuti economici dell'intesa raggiunta e sugli immediatii contraccolpi politici. Riprenderemo invece il discorso da un bell'articolo di Giuseppe De Rita, pubblicato sul Corriere della sera di giovedì 12 luglio. Il titolo è di quelli che invitano avidamente alla lettura: «Come opporsi allo sconforto collettivo». Come, infatti, è proprio quello che tutti sempre più spesso ci chiediamo leggendo (e facendo) i giornali o quando siamo alle prese con i nostri affanni quotidiani.

Nelle ultime righe del suo scritto (che non si può riassumere senza il rischio di banalizzarlo), De Rita usa espressioni ormai desuete nel dizionario isterico del nostro scontento. Parole come «pazienza», «giorno per giorno», «lavoro difficile e faticoso». Parole che ci permettiamo di estrapolare dal contesto per il valore in sè che esse hanno. Parole a cui vorremmo aggiungerne altre dal suono gradevole: «ragionevolezza», «buona volontà», «sforzo comune».

Nella rappresentazione mediatica della politica termini considerati ingenui, sempliciotti, banali e quindi messi fuori corso come certi francobolli troppo esotici e colorati. Parole tuttavia che stanno sicuramente nella borsa degli utensili di milioni di italiani quando escono di casa la mattina per affrontare la vita quotidiana. Persone che messe di fronte a complicati e noiosi problemi di lavoro vi si applicheranno con pazienza e buona volontà cercando di trovare non la soluzione perfetta ma quella possibile. Persone che se investite di una qualche responsabilità ascolteranno le diverse opinioni soppesandole con competenza e buon senso. Cercando di ascoltare chi va ascoltato, di non fare torto a nessuno e decidendo alla fine nell'interesse di tutti. Persone sottoposte a pressioni, a minacce e, qualche volta, costrette a giocarsi il tutto per tutto. Persone a cui succederà di sentirsi ingiustamente criticare, accusare e perfino insolentire per le decisioni prese. Persone che (come tutti) sbagliano, e (come tutti) pagano le conseguenze dei propri errori. Persone che si mangeranno il fegato e che nei momenti di più acuta solitudine si chiederanno (come a tutti noi capita di chiederci): ma chi me l'ha fatto fare? Persone che tornano a casa la sera così sfibrate e con un senso tale di fallimento da non riuscire neppure a confidarsi con la propria famiglia. Persone che una volta consegnato il compito, giusto o sbagliato che sia, si sentiranno crescere dentro quella strana calma che parla e che dice: comunque la mia parte l'ho fatta.

Pensavamo a questo, chissà perché osservando Prodi e i suoi ministri, esausti, all'alba di ieri nella sala stampa di Palazzo Chigi.


Lettera aperta al Pd
Furio Colombo su
l'Unità

Caro Partito democratico, ho appena ricevuto questa e-mail. Come devo rispondere?

Caro Furio, ho letto stamattina, su
l'Unità, le regole per partecipare alle primarie. Sono fatte per impedire di parteciparvi a chiunque non faccia parte della casta. Peccato. Avrei votato per Lei. Se non me lo lasceranno fare non voterò per nessuno in questo giro. Poi vedremo. Un saluto affettuoso a Lei, e ai lavoratori de l'Unità (Padellaro in testa). Grazie per le cose che ci scrivi.
Saverio B.

La lettera mi è sembrata affettuosa e pessimista. Avevo esaminato il regolamento.
Francamente mi era sembrato strano perché è pieno di dettagli tecnici che sembrano studiati come prove da Harry Potter, poco rapporto con i contenuti della politica e una serie di ostacoli ben congegnati. Ne superi uno e te ne presentano un altro. Poi mi sono accorto che - come con le pensioni - gli stessi numeri si possono aggregare in tanti modi. Poiché, naturalmente, ho pensato alle semplicissime primarie americane (vai, ti iscrivi, ti presenti, parli poi gli elettori giudicano, alcune riflessioni non festose sono inevitabili. Credo di poter dire che non si conosce, nel mondo democratico alcuna organizzazione politica che - prendendo la lodevole iniziativa di indire elezioni primarie - decida di trasformare quelle elezioni in uno sport estremo, una sorta di arduo pentatlon in cui devi vincere gare diverse in luoghi diversi e con diverse modalità, solo per poter cominciare a parlare.

Confesso che devo all'articolo di Andrea Carugati (l'Unità del 20 luglio) la piena comprensione della strana prova che avete creato e che chiede a chi si candida di organizzare, iniziare, portare a termine con successo, una serie di operazioni che fanno parte di uno strano gioco organizzativo ma non hanno niente a che fare le qualità e il lavoro del candidato. Cito dall'articolo di Carugati queste scene da film dell'orrore: «L'aspirante candidato dovrà schierare una squadra minima di 125 candidati: 5 per ognuno dei 25 collegi scelti. Ogni lista di collegio richiede un minimo di 100 firme per essere ammessa alla gara. Dunque la quota minima di firme per le liste è 2500. Tutto ciò non basta per essere votato in tutta Italia ma solo in quei 25 collegi. Negli altri 450 la sua candidatura non esisterà».

Attenzione, cittadini e lettori, alla frase che segue: «Per esistere in tutta Italia l'aspirante candidato dovrà mettere in campo una lista per ogni collegio, e dunque raccogliere quasi 50 mila firme. Chi non fosse in grado di competere con questi numeri resta al palo».

Uno come Mario Adinolfi (il giovane “new entry” messo finalmente in onda su SKY TG 24 la sera del 19 luglio) e uno come me, che “new entry” non è né nella vita né nella politica ma, come Adinolfi, non ha apparato, macchine, segreteria, sostegno logistico e corrispondenti in ogni luogo, potrebbe lamentare che tutto è stato fatto per offrire un passaggio a pochi grandi. Carugati, da giornalista più attento di altri colleghi, infatti precisa: «A Santi Apostoli (sede del Partito democratico ancora senza volto, ndr) ti spiegano che non sono previsti “aiutini” dal quartier generale Pd né per raccogliere firme né per aprire una stanza. Ognuno si deve arrangiare. Si presuppone che i candidati abbiano dietro di sé una struttura».

Eppure la questione dell'apparato è la prova vistosa che chi è senza apparato e potere organizzativo e logistico non solo non vince ma non deve neppure provare, è una fantasiosa stranezza, che richiama i tragici indovinelli nel finale della “Turandot” (”Popolo di Pechino, la legge è questa!”). Ma non è il peggio.
Il peggio, lo avrete notato, è nel non detto e anzi nel deliberatamente non voluto. Per esempio non è previsto un solo confronto fra candidati, non è richiesto un solo dibattito.
Benché, per fortuna, si siano finora candidate persone di qualità, meritevoli di partecipare alla guida di un grande partito, l'augurio non è “vinca il migliore”. L'augurio è: “vinca il più forte”.
Quello che ha un migliore sistema di trasporto, di comunicazioni, di strutture locali a disposizione e può in pochi giorni fondare e gestire la sua presenza a Marsala e a Pavia, ad Aosta e a Sant'Agata di Militello, a Salerno e a Bressanone.

Dunque il Pd si sta manifestando come una vasta rete turistica da percorrere entro breve tempo (30 luglio) con mezzi propri, lasciando a carico dei fortunati dotati di ubiquità solo i messaggi, ma senza chiedere mai di incrociare quei messaggi in dialoghi o dibattiti che dovrebbero essere, invece, le sole vere prove che interessano gli elettori.

La morale è disastrosa perché - nonostante il valore indiscutibile di alcuni - è meticolosamente antidemocratica. Il Pd sta dicendo che se Adinolfi ed io non siamo capaci di percorrere in una settimana la penisola, affittando stanze, formando centri, compilando liste, mobilitando notai e consiglieri comunali (quelli già non occupati full time dai “grandi” con presenza nazionale causa Ministero, Municipio e tv continua), non potremo mai chiedere a Rosy Bindi in che senso è laica e a Veltroni come mai apprezza il manifesto dei prudentissimi “coraggiosi” che osano schierarsi, niente di meno che con il Governatore della Banca d'Italia.

La conclusione di quanto detto è drammatica e necessaria. Siamo sicuri che tutti e quarantacinque i grandi esperti di regole del Pd volevano solo numeri (che sono possibili solo a chi muove una intera burocrazia di cui già dispone) e niente politica?

Siamo sicuri di volere il contrario esatto delle primarie americane e cioè niente dibattiti, niente politica, ma solo i cittadini che disciplinatamente si mettono in fila prima per firmare, poi per votare e basta? Così come è, la situazione appare incredibile ma anche assurda. C'è qualcuno che possa, nel nascente Pd o nel suo ex consiglio dei saggi riesaminare e cambiare queste regole folli (50 mila firme!) per tornare alla democrazia regolare (io parlo, tu giudichi, noi votiamo)?
C'è qualcuno che si rende conto che il pericolo (nel senso della partecipazione democratica) è di non poter partecipare?
Poiché questo non è un lamento ma una allarmata constatazione dei fatti, non vi sembra che una ragionevole via d'uscita potrebbe essere di poter fare l'intera raccolta di firme nelle varie regioni e in tutto il Paese via e-mail? C'è qualcuno che mi darà, ci darà una risposta?


Pd, tutte le firme che deve raccogliere il candidato
Categorici a Santi Apostoli: non sono previsti «aiutini» per nessuno. La scadenza del 30 luglio
Andrea Carugati su
l'Unità

COSA BISOGNA fare per diventare leader del Pd? Qui ci limitiamo a illustrare il percorso burocratico a cui gli sfidanti dovranno sottoporsi per poter essere ufficialmente «candidati». Già, perché scorrendo il regolamento delle primarie del 14 ottobre, si scopre che molta parte del lavoro l'aspirante candidato dovrà farla prima dell'inzio della vera campagna elettorale. Andiamo con ordine: l'Aspirante, innanzitutto, deve raccogliere entro il 30 luglio tra 2mila e 3mila firme di sostenitori. Le firme dovranno essere raccolte in 5 regioni, con un minimo di 100 per regione. Per farlo bisogna preventivamente scaricare dal sito www.ulivo.it il facsimile del modulo. Le firme, poi, dovranno essere autenticate da un consigliere comunale, provinciale o di circoscrizione. Chi volesse firmare per un candidato, deve imbattersi in un banchetto oppure contattarlo direttamente: Veltroni in Comune a Roma, Bindi al ministero della Famiglia, Furio Colombo al Senato, Adinolfi sul suo sito, ecc.
Raccolte le firme, l'Aspirante dovrà consegnare il malloppo all'Ufficio tecnico amministrativo istituito nella sede del Pd in piazza Santi Apostoli a Roma. L'ufficio procederà a una prima verifica delle firme e, nel caso caso ci fossero problemi, concederà altre 48 ore all'Aspirante per risolverli. Poi ci sarà la proclamazione provvisoria dei candidati. Già, la partita non finisce qui. Il comitato dei 45, infatti, ha stabilito che il leader del Pd non sarà eletto direttamente dai cittadini con una scheda in cui compaiono i nomi e si mette la croce sul preferito. L'elezione avverrà attraverso le liste collegate, con il meccanismo dei «Grandi elettori»: gli eletti collegati a un potenziale leader voteranno per lui nell'assemblea costituente. Dunque, se un Candidato non avrà liste collegate in alcuni collegi, gli elettori di quei collegi che volessero votarlo non potranno farlo.
Per questo è previsto un secondo step: prima di essere ufficialmente Candidato, l'Aspirante dovrà collegarsi a un minimo di 25 liste di collegio in 5 regioni diverse. Questo entro il 22 settembre: è la data limite per la presentazione delle liste per la costituente. Entro questa data, l'Aspirante dovrà schierare una squadra minima di 125 candidati: 5 per ognuno dei 25 collegi scelti. Ogni lista di collegio, inoltre, richiede un minimo di 100 firme per essere ammessa alla gara. Dunque la quota minima di firme per le liste è 2500. Tutto ciò, tuttavia, non basterà per poter essere votato in tutta Italia, ma solo in quei 25 collegi. Negli altri 450 la sua candidatura non esisterà. Per esistere in tutta Italia, l'Aspirante dovrà mettere in campo una lista per ogni collegio: 2500 candidati e oltre 47mila firme. Chi non fosse in grado di competere con questi numeri, resta al palo.
A Santi Apostoli spiegano che non sono previsti “aiutini” dal quartier generale del Pd, né per raccogliere le firme, né per creare uffici di rappresentanza per i candidati. Ognuno si deve arrangiare. Del resto, questo il ragionamento, bastano 20 attivisti un po' motivati per raccogliere 2mila firme. Se poi «una sezione di un partito o un'associazione vuole aiutare un candidato nessuno lo impedirà». Più difficile mettere insieme i candidati per le liste, ma «si sta eleggendo il leader del principale partito italiano, dunque si presuppone che i candidati abbiamo dietro di sé un minimo di struttura», spiegano da Santi Apostoli. «Queste soglie sono veramente basse». Vallo a spiegare a chi questa «struttura» non ce l'ha...


  21 luglio 2007