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a cura di Fr.I. - 18 maggio 2012


Ritorno nell´orrore di Srebrenica   
Nella strage del 1995 furono risparmiate solo le donne. Che oggi, mentre Mladic è sotto processo all´Aja, raccontano. Ma non chiedono vendetta     
Adriano Sofri su
la Repubblica

ci siamo astenuti dal pubblicare le terribili foto delle sevizie e dei cadaveri riesumati dalle fosse comuni
che chi vuole puņ facilmente trovare sul web

Srebrenica è un paesino, lo è sempre stata, tranne che in quel 1995, quando vi si erano ammucchiati a decine di migliaia gli sfollati bosniaco-musulmani. Sarebbe il paesino più triste del mondo, se non vi si arrivasse dopo aver già attraversato al contrario il percorso delle stragi di quei giorni di luglio: Kravica e il magazzino del mattatoio, e Potocari e i capannoni dismessi delle truppe olandesi in cui cercarono invano rifugio i disperati, e l´immenso cimitero memoriale. L´11 luglio di ogni anno arrivano decine di migliaia di pellegrini, famigliari che si raccolgono attorno alle tombe, persone che vengono a capire e ricordare - gli italiani sono i più numerosi. Oggi è un giorno qualunque, e Srebrenica è un paesino scadente, di case brutte, le diroccate e le nuove. In alto c´è la chiesa ortodossa ricostruita. Più giù, dalla moschea ricostruita al margine di una piazza sconclusionata, escono gruppi di donne anziane e qualche uomo che hanno appena partecipato a una cerimonia funebre.
Facciamo un giro, andiamo a cercare il locale in cui le donne vendono ricami e maglie. Le troviamo sedute a chiacchierare su un marciapiede, davanti a un edificio costruito, come una targa avverte, proprio dal governo olandese - ma in affitto. Ci sediamo con loro sui gradini, portano dei cuscini, sono cordiali e confidenziali, fa caldo, preparano il caffè, «Quando c´è il sole qui, è il posto più bello del mondo», dice una.

Si chiamano Dzelahira Halilovic, Gada Ahmetovic, Zineta Bajramovic, Naza Ibisevic, intorno giocano bambini e cuccioletti randagi appena partoriti. Sono tornate a stare qui nel 2009, tranne Naza, che è giovane, ha 35 anni, ed è tornata nel 2006 dopo aver vissuto per cinque anni in Belgio. Le loro storie sono simili, varia il numero dei morti: «tutta la famiglia», «padre e fratello», «marito e figli», «tre figli di un fratello». Raccontano con familiarità e però a volte piangono, come se fosse successo ieri. Furono separate da uomini e ragazzi, come tutte, senza il tempo di abbracciarli, di dirsi qualcosa. Caricate sui camion e portate a Kladanj, da lì avventurosamente arrivate a Tuzla, mentre i loro uomini venivano trucidati. Raccontano com´era prospera Srebrenica, le sue miniere (srebro è l´argento) e le sue fabbriche, e che oggi non c´è lavoro per nessuno, e anche per questo chi è andato a Vogosca, a Sarajevo, o a Tuzla, o più lontano, non vuole tornare. Dicono di non avere voglia di vendette: «Loro sanno quello che hanno fatto». Raccontano cose raccapriccianti, il bambino che piange strappato dalle braccia della madre e sfracellato - «Ora non piange più»; il cadavere portato dalla Drina, col naso le orecchie e le dita mozzate; il ragazzo con un ferro passato da un orecchio all´altro. Certo che incontrano ogni giorno qualcuno di quelli di allora. «Uno guida il nostro autobus» - allora guidava quei camion.

Lo scandalo estremo è che Srebrenica sia stata assegnata, nella ripartizione di Dayton, alla Republika Srpska, cioè alla parte che i rese responsabile del crimine - il massacro di oltre 8mila uomini e ragazzi inermi - condannato dal tribunale internazionale per l´ex-Jugoslavia come genocidio, il crimine più orrendo dopo il 1945 in Europa. La decenza avrebbe voluto che si trovasse per Srebrenica uno statuto peculiare: non lo si è fatto. Cinque anni fa la maggioranza del consiglio comunale di Srebrenica votò la richiesta di indipendenza dalla Republika Srpska. Oggi, al contrario, i serbobosniaci cercano di correggere la legge che riconosce il diritto di voto amministrativo ai cittadini di Srebrenica sfollati in altri luoghi della Bosnia, e grazie al cui voto il comune ha ancora un sindaco "musulmano".
Ero a Sarajevo quando arrivarono le prime orribili notizie dei fuggiaschi da Srebrenica, difficili da credere, che dicevano delle migliaia di deportati e trucidati. Non ero mai venuto qui. Avevo visto innumerevoli facce di donne di Srebrenica nei filmati, ne avevo ascoltato le parole, e però queste donne semplici, sedute in strada come in qualunque paese del meridione d´Europa, così capaci di un´affabilità e di un´intimità improvvisa, smussano la soggezione del memoriale e del casermone, musei della ferocia e della viltà, di Potocari. Queste donne, adesso, sono più forti di tutto. Esclusero per lo più le donne, i boia. Cavallereschi. Prima però le stuprarono a volontà. Anche escludere le donne dallo sterminio può essere un´impresa maschilista.


A Kravica, nemmeno 15 km da Srebrenica, i serbo-bosniachi hanno eretto un monumento funerario con al centro una colossale croce, e la rivendicazione dei loro morti, più di tremila. Violenze e massacri hanno colpito anche i serbi, ma la cifra è abusiva, messa assieme per cercare di emulare il conto con le vittime bosgnacche del luglio 1995. Lì a Kravica, poco distante, sul lato opposto della strada, c´è il deposito in cui furono ammassati e trucidati, a raffiche di mitraglia e bombe a mano, più di mille dei deportati da Srebrenica. Niente lo ricorda. Sul davanti del rudere, sono state piantate delle siepi. «È per nasconderlo alla vista», dice il mio accompagnatore.
A Potocari, l´immenso cimitero monumentale raccoglie migliaia di vittime identificate grazie alle indagini sul dna. Ci sono sempre becchini al lavoro. Le tombe provvisorie sono segnate da tavole di legno verde, quelle definitive da stele di marmo bianche. Di fronte, i grandi tetri capannoni che erano stati di una fabbrica di accumulatori, furono poi la sede della guarnigione olandese delle Nazioni Unite - quasi 500 militari, incaricati della sicurezza della zona dichiarata protetta - alla quale all´arrivo delle milizie di Mladic accorsero terrorizzati gli sfollati e gli abitanti di Srebrenica, per esserne respinti dai "protettori", che arrivarono a collaborare alla selezione degli uomini da donne bambini e vecchi. Quegli olandesi, dal loro colonnello all´ultimo dei soldati, sapevano che cosa sarebbe avvenuto. Lo sapevano anche i loro superiori in Bosnia e fuori, fino al Palazzo delle Nazioni Unite. La codardia di tutti è un´infamia incancellabile sulle pretese del nostro tempo. Anche scrivere questo è troppo facile. Chiunque venga a Potocari e cammini dentro questo capannone stillante umidità e buio, se ha cuore dovrà immaginarsi nella folla disperata che cerca scampo per sé e per i propri cari. Ma dovrà anche porsi l´interrogativo più difficile: che cosa avrei fatto io, se fossi stato un soldato olandese col casco blu, qui, quel giorno?

È bene venire fin qui. È più facile, dal divano di casa propria, guardando un filmato, evitare queste domande. Qui, nel capannone in cui si leggono ancora le scritte sventate degli olandesi, si guarda un filmato, e i passi e le urla sembrano venire di nuovo dalla strada, dai cancelli, dalla folla che preme e dai militari che la respingono. Ne avevo letto e scritto tante volte. Mi accorgo che non ne avevo capito abbastanza. Anche quella cifra, a leggerla da lontano, più di ottomila sterminati, è anestetizzata.
Ci guida al cimitero un giovane intelligente che si chiama Hasan, ci mostra nell´elenco interminabile di nomi scolpiti nella pietra quello di suo padre e suo fratello. Gli chiedo se è vero che un soldato olandese di quelli di allora è venuto ad abitare qui con la famiglia. Macché, dice, è una leggenda, e nemmeno tanto disinteressata. C´è uno che è venuto a volte a visitare Srebrenica, molto intervistato, e a spiegare che loro avevano fatto il possibile. Del resto, dopo che un governo olandese si era dimesso per il disonore, un altro governo provvide a decorare tutti i membri della missione, non al valore militare, chiarì, ma per risarcirli dello stress subito per le critiche.



Se i gay sono solo un milione
Chiara Saraceno su
la Repubblica

Il rapporto sulla popolazione omosessuale nella società italiana, reso noto ieri dall´Istat, mostra una realtà in movimento, fortemente differenziata e non priva di contraddizioni. Comunque più aperta della cultura politica dominante, che sembra ancora fare tanta fatica sia a riconoscere i diritti degli omosessuali, inclusi quelli ad avere una vita affettiva in cui ci sia posto anche per la sessualità, sia a riconoscere l´esistenza di gravi discriminazioni nei loro confronti. La maggioranza degli intervistati, infatti, dichiara che le persone omosessuali, e ancora più quelle transessuali, sono oggetto di discriminazioni e la stragrande maggioranza ritiene che le discriminazioni sul lavoro, o nell´accesso all´abitazione perché si viene rifiutati come inquilini, siano ingiuste e illegittime.

Molto alta (oltre il 70%) è anche la percentuale di coloro che non ritengono che l´omosessualità sia una malattia, una situazione di immoralità e una minaccia per la famiglia, con buona pace, non solo delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche e dei vari Giovanardi e Roccella di turno, ma anche degli altri paurosissimi politici, inclusi quelli del Pd, che evitano sempre di prendere posizioni chiare, per tema di perdere l´appoggio della Chiesa, ma anche voti. Timore infondato, sembrerebbe, dato che quasi il 63% degli intervistati è favorevole a che due conviventi omosessuali abbiano gli stessi diritti di una coppia sposata.

Fin qui si disegna una popolazione in larga maggioranza favorevole a riconoscere alle persone omosessuali i diritti di tutti, anche se rimane una consistente minoranza viceversa più o meno contraria. Le cose sono tuttavia più complicate se si entra nel dettaglio e si va più a fondo. La difesa dei diritti diventa più incerta quando si tratta di avere personalmente un vicino di casa, un medico, un collega, un amico omosessuale. Ancora di più si riduce nell´ipotesi che ad essere omosessuale sia un insegnante. Anche il diritto all´affettività è temperato da una richiesta di discrezione che non viene rivolta alle persone eterosessuali. Al punto che, se oltre il 90 per cento degli intervistati ritiene accettabile e normale che una coppia eterosessuale si tenga per mano e si scambi un fuggevole bacio per strada, solo poco più del 46 per cento lo trova un comportamento accettabile da parte di una coppia dello stesso sesso. Il riconoscimento del diritto alla affettività, inoltre, non sempre si accompagna alla accettazione della sessualità omosessuale.
Infine, il riconoscimento di diritti alle coppie omosessuali non si estende nella stessa misura al riconoscimento della possibilità di sposarsi e ancor meno di adottare, che sono accettati solo da una, pur consistente, minoranza.

Si tratta di ambivalenze e persino contraddizioni significative, che segnalano come sia ancora difficile per una persona omosessuale abitare normalmente lo spazio sociale. La consapevolezza di queste difficoltà probabilmente ha anche influenzato le risposte degli intervistati sul proprio orientamento sessuale. Solo poco più di un milione di persone si è dichiarato omosessuale o bisessuale, una percentuale che, sulla base delle evidenze nazionali e internazionali, probabilmente sottostima il fenomeno. Del resto, anche tra chi si è dichiarato omosessuale o bisessuale (sotto assoluta garanzia di anonimato, anche nei confronti dell´intervistatore), solo una minoranza lo ha detto ai familiari. Il timore della non accettazione segna fortemente la vita di queste persone, costringendole a fingersi diverse da quello che sono.
Non va tuttavia sottovalutato il fatto che una quota rilevante di chi prova disagio di fronte alla omosessualità è favorevole a riconoscere diritti non solo ai singoli, ma alle coppie omosessuali. Riconoscere la legittimità di rapporti e comportamenti che non si condividono è un segno di civiltà e di democrazia. Va aggiunto che esiste una forte eterogeneità negli atteggiamenti all´interno della popolazione. C´è maggiore apertura in chi vive nel nord e soprattutto al centro. Le donne sono più aperte degli uomini, anche tra i giovani, che pure sono in generale più aperti alla accettazione dei diritti degli omosessuali, inclusa la normale manifestazione di amore e incluso il matrimonio, delle persone in età matura o anziana. Un elemento in più per non lasciare che le decisioni sulla questione dei diritti degli omosessuali venga guidata dai gusti, disgusti e paure di una generazione di politici anziani e prevalentemente maschi.


La lunga storia dei soldi padani     
Alberto Statera su
la Repubblica

"Aja vara nagott/ Sti due fioo." Traduzione dal dialetto lombardo: "Non valgono niente questi due ragazzi". Umberto Bossi agli albori della carriera politica amava verseggiare in dialetto e questo è l´incipit di una sua poesia di quegli anni, che si rivela adesso lungimirante per le gesta dei suoi figli scioperati: Renzo il Trota e Riccardo, aspirante pilota detto Sfasciamacchine.
Che ricevevano, tra molto d´altro, una paghetta di 5 mila euro mensili ciascuno, attinti dal finanziamento pubblico con mandati firmati dal papà. L´ode bossiana, nella libera traduzione in italiano, prosegue così: "Buttali nel laghetto/ Con le scatole vuote dei pomodori e le carte del burro/ Cinquant´anni in due non sono pochi/ I pioppi ogni otto anni sono abbattuti dal padrone". Insieme ai due fioo, abbattuto nel laghetto tra i pomodori marci è ora finito anche il monarca napoleonico della Lega Nord, principe del reame italico del familismo amorale.

Gli sviluppi dell´inchiesta, che sembrano lasciare non molti dubbi sul fatto che il Senatùr fosse al corrente della distrazione di milioni di euro pubblici a favore suo e della sua famiglia, pongono il tema del suo rapporto con il "Dio denaro", come egli stesso più di una volta lo ha chiamato. In questi giorni abbiamo letto sul tema molte mistificazioni dei suoi fedelissimi e anche degli oppositori interni. È vero, figlio di contadini, Bossi ha curato per decenni, ad uso del suo popolo, un´immagine plebea (canottiera, pizzeria, bar sport) e di disinteresse per la ricchezza. Ma dal denaro, in realtà, è stato sempre ossessionato, fin da quando nel 1979, medico mancato senza arte né parte, venne reclutato per attaccare cinquecento manifesti da un leader dell´Union Valdotaine. Prendiamo per buona la tesi che il suo scopo non fosse la sopravvivenza sua e della sua complicata famiglia, né l´arricchimento personale, ma il finanziamento della "causa". Tuttavia, la deriva illegale bossiana è ormai consolidata e ben lontana nel tempo. Risale almeno a vent´anni fa, ai tempi di Tangentopoli, quando il tesoriere della Lega, Alessandro Patelli, al bar Doney, luogo topico di Roma Ladrona, riscosse una borsa di contanti provenienti dalla maxi-tangente Enimont. "Erano 200 milioni" (di lire), confessò Patelli, condendo poi la confessione con una storia incredibile: "Preoccupato tornai a Milano e li nascosi in un cassetto del mio ufficio in attesa di capire come regolarizzarli. Finché la mattina dopo mi dissero che durante la notte c´era stata un´incursione nella sede. Avevano portato via tutto, scassinando armadi e scrivanie. Denunciai il furto, ma non quello dei 200 milioni perché non avevo ancora regolarizzato il contributo. Bossi era impegnato giorno e notte nella campagna elettorale e così decisi di non dirgli niente". Patelli offrì il petto al capo con la sua balla, divenendo una specie di eroe padano, ma il Senatùr fu poi condannato a otto mesi per finanziamento illecito. "La condanna al processo Enimont - commentò con le solite iperboli celoduriste - per me è una medaglia per una ferita di guerra".

Dopo aver gridato: "Dalle mie parti una pallottola costa solo 300 lire e se un magistrato vuol coinvolgerci nelle tangenti, sappia che la sua vita vale 300 lire". Se non per le dimensioni della stecca, niente di diverso dalla Dc e dal Psi. Franco Rocchetta, fondatore della Liga Veneta, madre di tutte le leghe, sostiene, del resto, che allora Bossi, che già si era espresso contro il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti, gli chiese di votare contro l´autorizzazione a procedere per Craxi.
Poi venne l´affare Credieuronord, la banca leghista fallita tra mille malversazioni, nel cui consiglio d´amministrazione figurava - per la serie tengo famiglia - anche il fratello Franco Bossi. E venne l´affare del residence Skipper, una speculazione in Croazia sua, della moglie e degli altri caporioni del Carroccio, anche questa fallita. E ancora l´acquisto della sede di via Bellerio, con 14 miliardi di lire di origine incerta, secondo Rocchetta, che dal partito fu cacciato con la moglie, come tanti altri.
Ma la vera svolta finanziaria avvenne con la Lega non più solo di lotta, ma di governo, quando la generosità pelosa di Berlusconi concesse una fideiussione personale per una linea di credito di 20 miliardi garantita dalla Banca di Roma del solito Geronzi. A quel punto, tutti liberi di arricchirsi personalmente con il berlusconismo e con il formigonismo a Milano, mentre il capo maturava la convinzione, ripetuta nei giorni scorsi, che con il surplus di soldi del finanziamento pubblico poteva fare quel che voleva, anche buttarli dalla finestra o pagare gli sfizi della sua signora e gli stravizi dei voraci fioo.

Ora Roberto Maroni annuncia che la Lega diventerà una "newco". Impresa alquanto disperata, anche se lo zoccolo duro elettorale sembra insensibile all´antropologica cifra delinquenziale del capo, dei suoi cari e di altri dignitari padani, che via via viene alla luce. Mentre incombono nuove tempeste giudiziarie. Ad esempio, l´inchiesta milanese sulle quote latte, nella quale i magistrati ipotizzano il versamento di tangenti da parte degli allevatori che con la difesa a oltranza della Lega hanno fin qui evitato il pagamento di 350 milioni di multe comminate per lo sforamento dei limiti di produzione imposti dall´Unione europea. Oltre a cacciare i ladri, Maroni forse dovrà non solo vendere la sede di via Bellerio, ma anche cambiare il simbolo del partito, spadone compreso, che si dice che sia stato venduto a caro prezzo a Silvio Berlusconi. Davanti al notaio.



  18 maggio 2012