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a cura di Fr.I. - 16 ottobre 2013

«Nascosta in balcone mi salvai dai campi di concentramento»
Alberta Levi scampata per miracolo ai rastrellamenti il 16 ottobre del 1943
Fabio Isman su Il Messaggero


rastrellamento

LA STORIA
ROMA La prima scampanellata dei nazisti, «preferisco chiamarli così invece che tedeschi» dice Alberta Levi Temin, 94 anni portati magnificamente e una splendida signora, «è stata la notte tra l'8 e il 9 ottobre 1943, a Ferrara dove vivevamo: un questurino italiano e un soldato germanico cercavano il nonno Tullio Ravenna, morto da 22 anni; mettono a soqquadro la casa, perlustrandola tutta. Quel rumore delle scarpe chiodate io lo sento ancora». Quella notte, presero 22 persone. Due giorni dopo, è Kippur: una delle massime feste ebraiche. Compiuto il digiuno, «spiego che dobbiamo partire tutti. Papà tentennava, diceva: cercano solo i maschi da 20 a 30 anni». 

IL 16 OTTOBRE
Lei racconta quanto indirettamente aveva saputo da un prete: «A Vienna, i nazisti avevano preso 40 ragazze ebree; le avevano offerte in premio a un reparto di SS, e l'indomani uccise». Il padre prende il cappello, e esce. La madre la rimprovera per la durezza: «Allora, le ragazze, io avevo 24 anni, di certe cose non parlavano». Papà torna, ma con i biglietti del treno. Fino ad Arezzo, per non lasciare tracce; «il supplemento per Roma l'abbiamo pagato in treno. Niente valige per non destare sospetti». Era il giorno 13. A Roma, stavano gli zii, che da tempo li reclamavano; il Po non era più sicuro. Nemmeno preavvisati. Via Flaminia, 21. Una stanza e un lettone, per Alberta, la sorella Piera, la madre. Papà va altrove: lo aiuta un commilitone della Prima guerra. 
«Il 16 mattina, scampanellata. Prima che finisse il coprifuoco: non possono che essere i nazisti. Ma il rumore delle loro scarpe chiodate non potevo sentirlo di nuovo. La zia apre, urla: «sono tedeschi». In camicia da notte, «esco sul balcone; mia madre chiude la porta finestra. Sentivo le voci: Komm, Komm, andiamo; mia zia Alba: no, non prendo la pelliccia, non andiamo mica a teatro. I nazisti erano due; ma da quanto urlavano, io credevo che fossero dieci».

IL VALZER
«Ero pietrificata. A un certo punto, l'altra porta del balcone, che dà sulla cucina, si apre appena appena; uno spiraglio; vedo una scarpa da uomo; li sento andar via e la porta d'ingresso chiudersi a chiave. Dopo, saprò che quel piede era di Giorgio, cugino amatissimo, finito a Auschwitz con i suoi: mi aveva aperto la porta, per non farmi restare in trappola». Di lui, le resta un'immagine: l'ultima cena non è solo quella di Leonardo a Milano. «La sera del 15, dopo mangiato, lui, al piano, suona un valzer di Chopin».

Alberta Levi con il bigliettino

IL SALVATAGGIO
Da quella fessura sul balcone, lei rientra. «Mamma aveva lasciato a terra il volantino con cui i nazisti impartivano gli ordini: ho capito. Trovo le chiavi. Esco di soppiatto. Si apre la porta di fronte: il barone Sava aveva visto. Mi fa entrare. Falsifica i miei documenti, e da Levi divento Levigati. Mi fa telefonare a papà. Non spiego: gli dico soltanto esci e ci vediamo». I genitori e gli zii finiscono sul Lungotevere, Palazzo Salviati. «Gli zii dicono a mamma: a Roma nessuno ti conosce, non sei nelle liste degli ebrei, fingetevi cattolici senza documenti. Una voce indica: chi è cattolico vada nell'altro stanzone. Ma altri avvisa: se un ebreo prova a fuggire, 10 saranno uccisi. Mamma non ce la fa. Un'altra voce: i cattolici di nozze miste nell'altro stanzone. Mamma si decide. Intanto, ha già fatto uscire un biglietto per noi: ce l'ho ancora».
Mamma e sorella se ne vanno. Mancava un'ora al coprifuoco; unico indirizzo noto, quello del compagno d'armi del padre. «Sentiamo suonare; l'amico di papà, Di Santolo, ci aveva mostrato un soppalco in cucina: se qualcuno avesse suonato, dovevamo nasconderci. Lo facciamo. La voce dell'amico urla: sono la mamma e Bruna, che poi è diventata suocera di Amos Luzzatto».

NELLE SCUOLE
Tempi difficili. Documenti falsi. «Diventiamo la famiglia Nanni: ecco la carta d'identità». La pensione Patrizia è accanto alla scalinata di Piazza di Spagna: «Costava poco, non avevamo soldi». C'era un perché: mal frequentata, dice così: «due giorni dopo, una ragazza grida: c'è la polizia». Finisce la guerra; Alberta ritrova un ebreo ferrarese emigrato a Napoli, Fabio Temin. Le aveva già «fatto la corte», «ma io pensavo a una cosa combinata, e mi ero ritratta». Sono stati insieme 57 anni: cinque figli, 12 nipoti e 23 pronipoti come prova lampante che Hitler ha fallito. «Di queste cose, a lungo ho taciuto. I miei figli le hanno sapute già da grandi»: troppa pena a ricordarle, anche se «non odio nessuno». 
Poi, ha cominciato a spiegarle nelle scuole: «Da quando esiste il negazionismo storico: prima, ce li hanno massacrati, ora li vogliono cancellare». L'ultimo anno, ben 19 incontri; «non voglio nemmeno i fiori, facciano beneficenza; ma devono venirmi a prendere»: nella splendida casa di Napoli, un panorama da spezzare il fiato, davanti c'è Capri: «Sento il tempo, mi accorgo che i figli invecchiano». 
Era giusto 70 anni fa: la peggior tragedia italiana della Shoah, vituperio di Roma. «Penso ai troppi che ho perso. Essendomi salvata, mi sono sempre voluta occupare di cose sociali, ma da ebrea. Talora ho paura; mi chiedo: perché devo rivedere quelli lì? Vanno educati i ragazzi; ci sono ancora i diversi, di ogni tipo. Soltanto quando non ne esisteranno più, finiranno anche le guerre». 




  16 ottobre 2013