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a cura di Fr.I. - 28 novembre 2013


L'eccezione è finita
Ezio Mauro su
la Repubblica

TUTTO è consumato, dunque. Quasi quattro mesi dopo la condanna definitiva per frode fiscale Silvio  Berlusconi deve lasciare il Parlamento perché il Senato lo dichiara decaduto, e non potrà candidarsi per i prossimi sei anni. Tutto questo in forza del reato commesso, della sentenza pronunciata dalla Cassazione e di una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale, come risposta alla corruzione montante e agli scandali crescenti della malapolitica. Persino in Italia, quindi, anche per un leader politico, addirittura per uno degli uomini più potenti del ventennio, valgono infine le regole democratiche dello Stato di diritto, e la legge si conferma uguale per tutti. Un processo è riuscito ad andare fino in fondo, l'imputato ha potuto difendersi con tutti i mezzi leciti e anche con quelli impropri, finché tutto si compie e le sentenze si eseguono, con tutte le conseguenze di legge. È certo una giornata particolare quella in cui si decide l'espulsione dal Senato di un uomo di Stato che ha guidato per tre volte il Paese come premier. Ma l'eccezione non è la decadenza, che segue la norma, una norma che il Paese si è dato da sobrio per essere regolato quand'è ubriaco, quando cioè il comportamento improprio dei suoi rappresentanti prende il sopravvento e viene certificato e sanzionato.

No, nonostante la propaganda. L'eccezione è che il leader di un grande partito che ha avuto l'onore di servire tre volte come presidente del Consiglio si sia macchiato di un reato così grave da subire una severa condanna, innescando con la sanzione del suo profilo criminale la norma di decadenza. 

Questa verità è sparita dalla discussione, dall'analisi politica, dai giornali. Anzi, si è spezzato scientificamente il nesso tra l'inizio (il reato) e la fine della vicenda, cioè la decadenza. Con la scomparsa del nesso, si è smarrito il significato e il senso dell'intero percorso politico e istituzionale del caso Berlusconi. Domina il campo soltanto l'ultimo atto, privato dalla propaganda di ogni logica, trasformato in vendetta, camuffato da violenza politica. E così, il Cavaliere ha potuto evitare di affrontare politicamente e istituzionalmente la sua emergenza nella sede più solenne e propria, l'aula di Palazzo Madama che si preparava a farlo decadere, rinunciando a far valere le sue ragioni e a trasformare in politica le sue accuse. Ha scelto invece la piazza, dove i sentimenti contano più dei ragionamenti e i risentimenti cortocircuitano la politica, umiliandola in un vergognoso attacco alla magistratura di sinistra paragonata con incredibile ignoranza alle Brigate Rosse, mentre un cartello usava l'immagine tragica di Moro per trasportare Berlusconi dentro un uguale, immaginario e soprattutto abusivo martirio.

"Lutto per la democrazia", "Colpo di Stato", "Legge calpestata". "Persecuzione senza uguali", "Plotone di esecuzione". Uscendo dall'aula del Senato per arringare la piazza con queste parole, Berlusconi è uscito nello stesso momento definitivamente - per scelta e per rinuncia, in questo caso, non per decadenza - dall'abito dell'uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica da predellino populista. Una cornice straordinaria, bandiere nuove di zecca e palette pre-distribuite con scritte contro il "golpe", una ribellione di strada contro il Parlamento e la decadenza, dunque contro le istituzioni e la legge. Ma in questa cornice, è andato in scena un discorso ordinario, faticoso nella pronuncia e nell'ascolto, già sentito decine di volte, virulento nelle accuse ma rassegnato nell'anima. Riassunto, alla fine, nell'ostensione del leader alla folla nel momento in cui si schiude l'abisso, il re pastore che incontra il suo popolo ma non sa andare oltre la tautologia fisica, affidandole la residua politica estenuata: "Siamo qui, non ci ritiriamo, noi ci siamo". Come se mostrarsi ai suoi fosse l'unica garanzia oggi possibile: per loro, ma soprattutto per se stesso, la sopravvivenza scambiata per l'eternità. Con un'ultima, minima via d'uscita per l'immediato futuro: "Si può essere leader anche fuori dal Parlamento, come Renzi e Grillo". Con la differenza - taciuta - che i due avranno piena libertà di movimento nei prossimi nove mesi, Berlusconi no, oltre a non essere candidabile per sei anni. Subire infine la realtà che si continua a negare è possibile solo se si vive in un universo titanico, dove non valgono regole e ogni limite può essere violato. L'universo personale del ventennio, per il leader della destra italiana. Il guaio per il Paese è che questa visione dilatata che scambia la libertà con l'abuso è diventata programma politico, progetto istituzionale, mutazione costituzionale di fatto. Dal giorno in cui per Berlusconi è cominciata l'emergenza giudiziaria fino a domenica (quando il Quirinale ha richiuso la porta ad ogni richiesta impropria) il tentativo di imporre alla politica e ai vertici istituzionali una particolare condizione di privilegio per il leader è stata costante e opprimente. Questo tentativo poggia su una personalissima mitomania sacrale di sé, l'unto del Signore. E su una concezione della politica culturalmente di destra, che fa coincidere il deposito reale di sovranità col soggetto capace di rompere l'ordinamento creando l'eccezione, e ottenendo su questo consenso.

La partita della democrazia a cui abbiamo assistito aveva proprio questa posta: l'eccezione per un solo uomo, l'eccezione permanente. Prima deformando le norme, allungando il processo, accorciando la prescrizione, chiamando "lodo" i privilegi, trasformando in norme gli abusi. Poi contestando non l'accusa ma i magistrati, inizialmente i pm, in seguito i giudici, da ultimo l'intera categoria. Quindi contestando il processo. Naturalmente rifiutando la sentenza. Infine condannando la condanna.

E a questo punto è incominciato il mercato dei ricatti. Si è capito a cosa serviva la partecipazione di Berlusconi al governo di larghe intese: a usarlo minacciando la crisi se non si fosse varata la grande deroga, con buona pace degli interessi del Paese. Minacce continue, sottobanco e anche sopra. Tentativi di accalappiare il Pd, scambiando l'esenzione berlusconiana con il via libera alle riforme. Blandizie e pressioni per il Quirinale, perché trasformasse i suoi poteri in arbitrio e la prassi in licenza, pur di arrivare alla grazia tombale.

Una grazia non chiesta come prescrive la norma, quindi uno schietto privilegio. Ecco la conferma che il Cavaliere non cercava solo una scappatoia, ma un'eccezione che confermasse la sua specialità, sanzionando definitivamente la sua differenza, già certificata dal conflitto d'interessi, ogni giorno, dall'uso sproporzionato di denaro e fondi neri (come dice la sentenza Mediaset) su mercati delicati e sensibili, come quello politico e giudiziario, alla legislazione ad personam. Abbiamo dunque assistito a un vero e proprio urto di sistema. E il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato una sua autonomia, le istituzioni hanno retto, persino i giornali - naturalmente per ultimi, e quando la malattia della leadership era stata ampiamente diagnosticata dai medici - hanno incominciato a rifiutare i costi della grande deroga, scoprendo un'anomalia che dura in realtà da vent'anni, e non ha uguali in Occidente.

Il ricatto sul governo è costato a Berlusconi la secessione dei ministri, coraggiosi nel rompere con un potere che usa mezzi di guerra in tempo di pace, molto meno coraggiosi nel dare a se stessi un'identità repubblicana riconoscibile. Questa può nascere soltanto nel riconoscimento e nella denuncia dell'anomalia radicale del ventennio, una denuncia che determina una separazione politica e non solo fisica, una differenza culturale e non soltanto ministeriale, una scelta "repubblicana", come dice Scalfari.

Per il momento il governo è più forte nei numeri certi (i dissidenti non possono certo rompere con Letta dopo aver rotto con Berlusconi), in una maggiore omogeneità programmatica, soprattutto nella libertà dai ricatti. Il governo usi quella libertà, questa presunta omogeneità e quei numeri per uno strappo sulla legge elettorale, offrendo al parlamento la sua maggioranza come base sufficiente di partenza per una riforma rapida, che venga prima di ogni altro programma, non in coda. Perché con Berlusconi libero e disperato, la tentazione lepeniana è a portata di mano per la destra italiana, un'opposizione a tutto, l'Italia, l'euro, l'Europa, e non importa se il firmatario del rigore con Bruxelles è proprio il Cavaliere, colpevole non certo di aver creato la crisi ma sicuramente di averla aggravata negandola.

Il governo è più forte, ma il quadro politico è terremotato. La tenuta delle istituzioni in questa prova di forza deve essere trasformata in un nuovo inizio per la politica: per riformare il sistema, dopo aver sconfitto il tentativo di deformarlo.


  28 novembre 2013