sulla stampa
14 dicembre 2013
|
|
Apocalittici ed euforici
Di Alessandro Gilioli su
Piovono
Rane
Ho passato un’oretta abbondante a sfogliare le reazioni del mio piccolo
‘panel’ su Facebook e ho notato che l’elezione di Renzi ha provocato
l’effetto di un rasoio: con una divisione netta tra apocalittici ed
euforici.
Gli apocalittici parlano della fine della sinistra: come se il Pd fosse
stato finora un partito di sinistra.
È, semmai, il contrario. Nel senso che la classe dirigente ex comunista
ha sempre avuto un bisogno feroce di legittimarsi: con i poteri
economici, con il Vaticano, con Washington. E ha sempre fatto una
politica che di sinistra non aveva nulla. Pensate solo a D’Alema che
bombarda la Jugoslavia per farsi bello con Clinton, pensate al lungo e
infausto corteggiamento all’Udc di Casini (e poi a Monti), pensate alla
timidezza estrema in termini di diritti civili e sociali,
all’inginocchiamento come modalità permanente.
Non intendo dire che Renzi farà di meglio (dato che ancora non si sa):
intendo però dire che fare di peggio è quasi impossibile.
E che di certo non avere ai piedi quell’antica zavorra che si chiama
ansia da legittimazione (roba che origina dal Dopoguerra, da quando
Togliatti fece entrare i Patti Lateranensi nella Costituzione
repubblicana) offre al nuovo segretario margini di miglioramento (ci
vuole poco, ripeto). Che poi li usi o no, questi margini, è appunto
cosa che scopriremo presto.
Poi ci sono gli euforici, che mi fanno altrettanta paura.
Oh, io capisco la felicità di avere fatto fuori una classe dirigente
incancrenita, autoreferenziale e incapace come quella che ha tenuto in
ostaggio il Pd dalla nascita a oggi. E capisco anche l’entusiasmo
generazionale, i trentenni che stappano champagne per aver finalmente
spedito fuori dai coglioni un establishment di over 60 che si era
imbullonato al potere, dimenticandosi perché stava lì.
Però quest’aria da presa della Bastiglia porta male e rischia di
portare a poco.
Intanto perché somiglia molto a tutte le altre che ho già visto in
passato: compresa quella con cui i Veltroni e i D’Alema, trent’anni fa,
fecero il loro ingresso nella stanza dei bottoni del Pci spedendo in
pensione Natta, Tortorella, Ingrao, Pajetta e Cossutta: gli anziani
dell’epoca, spodestati dai radiosi trenta-quarantenni (non solo Walter
e Max, ma anche Fassino, Turco, Burlando, Bassolino, Finocchiaro etc).
Poco prima, nel Psi, era avvenuta una cosa simile: con Craxi,
Signorile, Manca, Martelli e Amato che avevano detronizzato la vecchia
guardia di Nenni, De Martino e Lombardi.
Questa incapacità molto italiana di procedere al cambiamento non per
idealità e progetti ma attraverso cordate generazionali che si fanno la
guerra – i vecchi per non mollare le poltrone e i giovani per occuparle
– porta appunto a logiche di cordata, quindi di occupazione del potere.
Sicché anche quelli che oggi hanno vinto ci mettono un attimo, se non
stanno molto attenti, a trasformarsi a loro volta in establishment, in
rete di autoperpetuazione.
E qui lo dico senza giri di parole ai miei non pochi amici che stanno
sventolando le bandiere di vittoria o che sono già entrati nel nuovo
gruppo dirigente: occhio, ragazzi, che se non vi mettete in discussione
ogni giorno, se non vi ricordate sempre a cosa dovete servire, se non
tenete bene a mente che siete lì a svolgere un ruolo provvisorio e per
migliorare le cose, domattina siete già vecchi.
Detto questo, da non apocalittico e non euforico, non mi aspetto
comunque moltissimo dal nuovo Pd, se non che faccia il suo lavoro di
onesto partito moderatamente riformista: il che comunque nel pantano
italiano (e dati i pregressi) sarebbe già qualcosa.
Chi ne sta fuori ha più di prima il compito di pungolare, stimolare,
criticare, e – se possibile – radicalizzare: perché il rischio di
impantanarsi nella pura gestione tattica del presente è sempre il più
imminente e pericoloso.
Il che, ovviamente, non vale solo per il Pd.
10 dicembre 2013
Così Matteo Renzi può diventare il Tony
Blair italiano
Comunicare bene
serve ma non basta e l'ex rottamatore deve rivolgersi a
tutti gli elettori con un grande progetto politico. I cinque consigli
dell'ex direttore dell'Economist
di Bill Emmott su
l'Espresso
Così il mondo intero ora sa quello che gli italiani già sapevano da
anni: che Matteo Renzi si immagina come il Tony Blair del suo paese.
Presumibilmente, quello che Renzi ha in mente non è il Blair di oggi,
un giramondo multimilionario consulente della banca Jp Morgan e di
dittatori dell’Asia centrale, ma piuttosto l’uomo che, come Renzi
stesso ha detto, ha posto fine alla «tendenza tradizionale del suo
partito a perdere le elezioni» diventando il più giovane primo ministro
inglese negli ultimi duecento anni. Ma cosa significa questo in
concreto?
Quando Blair è stato eletto leader del partito laburista nel 1994,
all’età di 40 anni, molti pensavano che, sebbene fosse chiaramente un
grande comunicatore, era comunque troppo superficiale, troppo leggero,
troppo inesperto per farcela davvero. È un vecchio discorso, a quanto
pare.
Diventando il leader laburista di maggior successo, che ha vinto tre
elezioni consecutive, ha dimostrato a quelli che dubitavano di lui che
si sbagliavano, anche se poi si è fatto un sacco di nemici. Ecco allora
cinque consigli che offriamo a Renzi se vuole avere buone chances di
diventare il Tony Blair italiano.
Il primo è ormai superfluo visto che ci ha già pensato da solo:
impadronisciti del tuo partito, non credere di poter vincere grazie al
semplice fatto di essere diventato un personaggio televisivo. Qualsiasi
leader ha bisogno di una base, di un’organizzazione che lo sostenga. Ma
per emulare Blair, deve dar prova di un’altra virtù: la pazienza.
Sebbene non sia dipeso direttamente da lui, dopo esser diventato leader
ha avuto tre anni davanti a sé per consolidare la presa sul suo
partito, creare una solida équipe e preparare un piano adeguato per
vincere le elezioni.
E arriviamo così al secondo consiglio: assumi un comunicatore davvero
perspicace. Anche se pensi di essere già un fuoriclasse, non puoi far
tutto da solo. La comunicazione è un'attività senza posa, 24 ore su 24,
sette giorni su sette, che esige ben più del semplice fiuto e del
talento: richiede abilità, esperienza, pianificazione e dedizione.
Questo è ciò che Blair ha acquisito quando ha assunto Alastair
Campbell, un ex giornalista di un tabloid.
Il terzo consiglio è quello che potrebbe fornire un vero
professionista: fai le tue ricerche, su scala nazionale. Non basta
partecipare ai pubblici raduni nelle piazze e parlare alle folle
entusiaste. Devi usare tutte le tecniche delle moderne ricerche di
mercato per scoprire quali sono le preoccupazioni degli elettori, cosa
vogliono e cosa pensano dei tuoi messaggi. Renzi ha un grande fiuto per
questo, come lo aveva Blair. Ma l’istinto non è sufficiente. Così nel
1994-1997 Blair, Campbell e il grande guru della loro campagna
elettorale, Peter Mandelson (oggi Lord), irritarono i vecchi dinosauri
del Labour Party, diventando dei pubblicitari che conducevano inchieste
e organizzavano “focus group” in tutto il paese per scoprire cosa
pensava la gente. Oggi, analizzerebbero anche le grandi raccolte di
dati d’ogni tipo disponibili. Il loro scopo era quello di imparare dal
loro modello di riferimento, il presidente Bill Clinton, secondo il
quale per vincere non basta fare appello ai propri sostenitori
tradizionali, specialmente in un’epoca moderna, post-ideologica.
E qui arriviamo al quarto consiglio: devi rivolgerti a tutti i tipi di
elettori, non solo alla vecchia sinistra. La parola d’ordine di Blair
era che il Labour Party non doveva ottenere il sostegno soltanto dei
poveri e della classe operaia, ma anche del 60 per cento dei cittadini
inglesi che possedevano la propria casa, avevano buoni stipendi e
vivevano in quartieri agiati. Clinton, soprattutto dopo la pesante
sconfitta nelle elezioni parlamentari del 1994, aveva coniato un
termine, “triangolazione”, che significa trovare dei modi per ottenere
il consenso anche dei propri avversari.
Blair ha definito la sua linea politica "la terza via", né di sinistra
né di destra. Gerhard Schroeder, il cancelliere socialdemocratico
vincente in Germania fra il 1998 e il 2005, al quale oggi viene
assegnato il merito delle riforme che hanno reso il suo paese il più
forte in Europa, la definì invece “Neue Mitte”, il nuovo centro. I
vecchi militanti ti chiameranno traditore. E in un certo senso lo sarai
davvero, poiché se vuoi avere successo dovrai diventare un
liberalizzatore, sbloccando i mercati e riconoscendo che soltanto le
imprese private possono creare posti di lavoro oggi in Italia. Inoltre,
al pari di Schroeder, dovrai riformare le leggi sul lavoro.
Il quinto consiglio pertanto è che per diventare come Blair avrai anche
bisogno di un grande progetto politico da attuare non appena diventerai
capo del governo, per dimostrare che ti occupi anche dei poveri e dei
più deboli. Blair propose un salario minimo nazionale che introdusse
nel 1998, il primo provvedimento di questo tipo che l’Inghilterra abbia
mai conosciuto. Quale sarà il tuo progetto, Matteo?
Traduzione di Mario Baccianini
13 dicembre 2013
Renzi, ci vuol tempo a diventar giovani
di Silvia Triuzzi su Il Fatto
Quotidiano
Ora tocca a noi. Il rottamatore è stato chiaro: non ci
saranno appelli,
rinvii, dilazioni. È il nostro turno. Dove “nostro” sta per una
generazione – i quarantenni – che fino a oggi è rimasta al palo, anche
perché uccidere i padri è compito oneroso. Ci vuole coraggio, le
rivoluzioni non sono confortevoli. Individuarsi costa fatica, necessita
di creatività, ambizione, molta forza per sostenere il conflitto.
Merito di Renzi aver capito il tempo giusto per mettere in scena e
vincere questa battaglia.Per ora, esclusivamente anagrafica. Bisogna
chiarire innanzitutto – Civati l’ha sottolineato più volte – che a
quarant’anni si è giovani solo perché non ci si può ancora definire
vecchi: ma è l’unica ragione. Possono dirsi giovani nel senso di
innocenti, vergini. Nuovi, certo più di una classe politica che si è
accomodata per decenni nei palazzi del potere, scavalcando senza fare
una piega le Repubbliche (e perfino epocali scandali giudiziari).
Su questo giornale, ieri, Antonello Caporale ha scritto: “Avevamo
bisogno solo di tanta gioventù. Non di un’idea, né di un pensiero”. E
qui sta il punto: può il “patto generazionale” fondarsi esclusivamente
sulla carta d’identità? No, pur dovendo riconoscere l’ineludibile
necessità di un ricambio. Al quale non ci si può sottrarre per diverse
ragioni: il fallimento dei predecessori, un’ormai eversiva lontananza
tra rappresentati e rappresentanti, soprattutto la sempre più diffusa
sofferenza nel paese. Non diciamo giovani, però: giovani sono i
ventenni che hanno di fronte la disperazione dell’incertezza (ma almeno
hanno un patrimonio ancora intatto: “La giovinezza è un insieme di
possibilità”, scrive Camus).
Si è parlato anche – con insopportabile enfasi – della rivoluzione rosa
nella segreteria politica del nuovo leader. Ora, deve essere chiaro che
una parità autentica è quella che non ha bisogno di numeri sbandierati
(7 donne – 5 uomini). Non ha senso dirsi felici perché la segreteria è
giovane e rosa: sono due meri fatti, non necessariamente portatori di
progetti. Per adesso possiamo solo aspettare di vedere quel che
faranno, quale azione politica metteranno in campo, quali idee nuove
(nel senso dell’innovazione) porteranno. Altrimenti non basterà una
classe politica di “giovani, carini e occupati”, non basteranno gli
slogan, le “convention”, gli “staff”, le “start up”, gli eventi “cool”,
le atmosfere pop, i lustrini, la musica martellante. “I don’t care”.
Davvero, chi se ne importa dell’apparato scenico? Nel caos si nasconde
il vuoto, nel rumore – e in questa fase del nuovo Pd c’è fin troppo –
non si distinguono le parole. Si sono evocate, spesso a sproposito, due
categorie – destra e sinistra – nel tentativo di collocare la svolta
renziana. Ma è difficile, perché non ci sono più punti di riferimento,
né in termini ideali né di contrapposizione.
Ne è una prova il lapsus della neo responsabile giustizia di Renzi,
l’onorevole Alessia Morani, che aOtto e mezzo ha chiamato il partito di
Alfano “Nuovo centro democratico”. Di sicuro si sono sentite poco
parole come “uguaglianza”, “legalità”, “solidarietà” che hanno fatto
parte del lessico della sinistra. I pantheon non vanno di moda
(oltretutto è parola greca e non inglese) e senza dubbio è più “cool”
Mandela di Berlinguer: rottamare il Pci – estinto da tempo, non certo
dal sindaco di Firenze – significa anche dimenticare che ruolo ha avuto
quel partito nella storia d’Italia del secondo Dopoguerra. E se oggi la
più grande formazione politica della sinistra tornasse a interessarsi
davvero di lavoro e salari forse tamponerebbe l’emorragia di consensi.
Bisogna essere assolutamente moderni, abbiamo capito. Ma qualcuno sa
spiegare perché? E soprattutto: qual è la visione della società, quali
sono i valori che ispirano l’operare politico? Attorno a questo si
stringono alleanze, altrimenti è solo una sostituzione nei centri del
potere. Matteo Renzi ha detto che con Letta “lavorerà bene”: per adesso
– ovviamente è prestissimo non sembrano esserci all’orizzonte rotture
con quei “professionisti dell’inciucio” evocati nel discorso di
domenica. Dunque, rivoluzione o conformismo? Tra questi due poli – di
solito appaiati a giovinezza e maturità – si giocherà tutto. Picasso
diceva che a 12 anni dipingeva come Raffaello, ma che aveva impiegato
tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino. Ci si mette
molto tempo a diventare giovani.
11 dicembre 2013
14
dicembre 2013
|