sulla stampa 27 gennaio 2014 RIFORMA ELETTORALE, PREGI E
DIFETTI Più volte
si è suggerito come sistema elettorale il sistema spagnolo di piccoli
collegi
(5-6 eletti), il che comporta di fatto una alta soglia di sbarramento e
così
l’eliminazione della frammentazione partitica (noi siamo arrivati sino
a 30 e
passa), che ovviamente ostacolano la governabilità. Si capisce che i
partitini
protestano a squarciagola: era comodo (vedi Mastella) diventare
ministro della
Giustizia essendo in tutto in tre. Ma la salute della politica esige
che
spariscano, e quando non ci sono più il dramma finisce. In Inghilterra
nessuno
piange se i partiti sono due o tre. Fin qui ripeto cose risapute. La
nostra
novità (gemiti dei partitini a parte) è la proposta del doppio turno di
coalizione, che a mio avviso non ha senso anche se D’Alimonte la
presenta come
proposta «realistica» che mette assieme capra e cavoli, Renzi e
Berlusconi. A parte il
fatto che a me sembra scorretto, scorrettissimo, trasformare con un
premio una
minoranza in una maggioranza (il che avviene anche nei sistemi
maggioritari, ma
perché questa è la natura del maggioritario, non un regalo che Renzi e
Berlusconi fanno a se stessi). E la domanda è: il doppio turno di
coalizione
con ballottaggio cosa ci sta a fare in questo contesto? È una ulteriore
elezione per fare o ottenere che cosa? Il premio di maggioranza
attribuito a
una coalizione di minoranza (addirittura del 35%) è secondo me molto
discutibile. C’è poi l’annosa questione delle preferenze. Le avevamo, e poi Pannella (con Segni) le fece abolire con due trionfali referendum. Era giusto, perché al Sud le preferenze erano molto alte e per ciò stesso ingrandite e manipolate dalla mafia. Aggiungi che il Pci di allora se ne serviva (quando erano tre) per controllare i voti dei suoi votanti infidi; mentre le preferenze al Nord erano relativamente poche e venivano facilmente pilotate dalle fazioni ben organizzate dei partiti di allora. Il bello è che per qualche decennio nessuno protestò dichiarando che senza preferenze gli eletti non erano scelti dagli elettori ma dai partiti. Poi, d’un tratto, venne in mente alle nuove generazioni di politici e giornalisti che così gli eletti non erano veramente eletti dal demos votante ma «nominati» dai partiti. Stranezze della storia.
Eugenio Scalfari su la Repubblica | 26 gennaio 2014 QUALCUNO si
ricorda la legge elettorale truffa,
proposta dalla Democrazia cristiana e dai suoi
alleati laici, i
cosiddetti partitini? Ne dubito; sono passati sessant’anni da allora e
molti
degli attori di quella vicenda non ci sono più. Io ricordo bene: la
legge fu
sconfitta dall’opposizione di dissidenti da sinistra e da destra, tra i
quali
emergevano Codignola, Parri e Corbino. Eppure non era una grande
truffa:
attribuiva un premio del 15 per cento alla coalizione che avesse
superato il
50,1 dei voti. Si votava in collegi uninominali, gli stessi con i quali
nel
1948 la Dc aveva incassato il 48 per cento dei voti e la maggioranza
assoluta
dei seggi. Altri
tempi, sembrano la preistoria. C’erano personaggi come De Gasperi,
Togliatti,
Ugo La Malfa e molti altri di analogo conio; al Quirinale c’era Luigi
Einaudi,
del quale Napolitano è un devoto cultore nonostante il suo passato di
comunista
(ma non marxista). Oggi siamo
alle prese con una riforma elettorale voluta da Renzi e da Berlusconi e
diventata disegno di legge in pochi giorni, che cerca di realizzare il
massimo
di governabiltà sacrificando i criteri di rappresentanza. Il punto di
frizione
con i partiti minori e con i Cinque Stelle è proprio questo: attraverso
un
complicato gioco di soglie di sbarramento e di premi, le forze minori
vengono
di fatto ridotte al silenzio lasciando in campo i partiti maggiori.
Come si può
uscire da quest’imbroglio? Berlusconi se ne preoccupa poco o niente:
voleva
riguadagnare il titolo di salvatore della Patria e ce l’ha fatta. Per lui è
una posizione di importanza enorme che può avere ripercussioni anche
sulle sue
vicende personali. Ma per Renzi è diverso; lui deve assolutamente
portare a
casa il risultato. Se fosse battuto sarebbe un disastro e lo sarebbe
anche per
il Pd. Nei sondaggi quel partito supera il neo-salvatore della Patria
di 12
punti, ma li perderebbe di colpo se Renzi cadesse sulla riforma
elettorale. Il
crollo dei consensi finirebbe col travolgere anche il governo Letta.
Del resto
la forza di Renzi è proprio questa: o vincete con me o con me
affonderete. È
questo l’imbroglio in cui ci troviamo. A proposito
del salvatore della Patria, credo sia giusto segnalare di nuovo un
gesto di
coraggiosa dignità che Repubblica ha già registrato con un’intervista
venerdì scorso.
Si tratta di Pietro Marzotto che aveva chiesto da alcuni mesi
l’espulsione di
Berlusconi dall’associazione dai cavalieri del Lavoro, senza ottenere
alcuna
risposta. Per protestare contro questo silenzio Marzotto si è dimesso
da
quell’associazione e ne resterà fuori fino a quando un condannato per
frode
fiscale non ne sarà escluso. Finora l’esempio di Marzotto non è stato
seguito
da altri. Bel gesto egli ha fatto e brutto segnale il pesante silenzio
degli
altri associati. Cavalieri smontati da cavallo? *** A me Matteo
Renzi non ispira molta fiducia né come segretario del Pd né come
eventuale
presidente del Consiglio; le ragioni le ho più volte spiegate e non
starò a
ripetermi, riconosco però che la sua iniziativa ha dato una scossa al
partito
del quale è il leader e di conseguenza a tutta la politica italiana,
governo
compreso il quale ne aveva urgente bisogno. La legge da
lui presentata, tuttavia, è assai poco accettabile poiché — volutamente
e
quindi consapevolmente — cancella non soltanto i partiti minori
avversari senza
se e senza ma del Partito democratico, ma anche quelli disposti ad
allearsi col
Pd ed entrare a far parte d’una coalizione da esso guidata. Il gioco
delle soglie d’ammissibilità, da quella del 12 per cento a quella
dell’8 e del
5, rischia di escluderli dall’eventuale premio previsto per chi
raggiunge il 35
per cento dei consensi. Se infatti quei partiti non superano la soglia
del 5
per cento non parteciperanno ai voti ottenuti dalla coalizione. Sono
soltanto
portatori d’acqua che non ricevono alcun tipo di ringraziamento dal
partito
maggiore che, anche con i loro voti, ha sconfitto l’avversario o
comunque
diventerebbe il partito d’opposizione. Ai portatori d’acqua non resta
nulla
fuorché gli occhi per piangere. Con questa
legge, come è uscita dalle stanze del Nazareno, non restano in campo
che Pd,
Forza Italia e l’incomunicabile Grillo che probabilmente sarà
beneficiario di
quegli elettori che saranno schifati dal duopolio Renzi-Berlusconi e
dalla loro
riaffermata e reciproca sintonia. In una
situazione di questo genere restano due punti fermi: la libertà
costituzionalmente affermata del mandato parlamentare al quale non si
può
opporre alcun vincolo e la necessità che Renzi rimanga al suo posto di
segretario del Pd per l’esistenza stessa di quel partito. La legge
elettorale si trova ora all’esame del Parlamento che è libero di
pronunciarsi.
Se viene rivista in alcuni punti essenziali Renzi deve accettarne il
risultato
e restare al suo posto; dimettersi da segretario avrebbe infatti le
stesse
conseguenze d’una scissione del partito che nelle primarie ha votato
massicciamente per lui. Un conto è
il partito, un conto è il Parlamento. Il primo è una libera
associazione, il
secondo è un organo istituzionale sul quale si fonda la democrazia
rappresentativa. Il primo è depositario di una sua visione del bene
comune, il
secondo è titolare dell’interesse generale e non ha nessun leader ma
soltanto i
propri organi previsti dai suoi regolamenti. I leader dei partiti non
hanno in
Parlamento alcun potere salvo la propria autorevolezza. Ugo La Malfa ai
suoi
tempi era più autorevole in Parlamento di quanto non lo fossero Rumor o
Piccoli
o De Martino o Mancini quando erano segretari della Dc o del Psi e
guidavano
partiti dieci o cinque volte più forti dei repubblicani i cui voti alla
Camera
oscillavano tra i 5 e i 20, su 630 membri. La legge
più appropriata deve dare il peso che merita al criterio della
rappresentanza e
diminuire — non certo abolire — il criterio della governabilità. La
soluzione migliore sarebbe quella di votare in collegi uninominali,
innalzare
la soglia prevista per ottenere il premio di maggioranza al 40 per
cento,
abolire la soglia del 5 per cento o abbassarla al 3, abbassando in
proporzione
la soglia dell’8 prevista per i partiti che si presentano da soli. Più o meno
sono questi i lineamenti di una legge elettorale accettabile
nell’interesse
della democrazia parlamentare. Assai meglio delle preferenze che Renzi
fa bene
a non volere perché possono inquinare il voto in favore di clientele e
mafie,
come è spesso avvenuto in passato. Se
Berlusconi non ci sta, il Pd si appelli a tutti i parlamentari di buona
volontà
e se non ci saranno altre soluzioni che il voto, si voterà con la
proporzionale
che prevede collegi e non liste. E vinca il migliore. *** Alcuni
osservatori ed editorialisti di altri giornali hanno scritto che non
esistono
“governi amici” se non nei casi di emergenza. I governi amici cioè non
sono
altro che un commissariamento efficace e destinato ad esser breve. Su questo
punto — che da molto tempo ritengo fondamentale per la democrazia
rappresentativa — la mia opinione è completamente diversa; sostengo
infatti (e
lo sostengo dai primi anni Ottanta del secolo scorso) che il governo è
titolare
del potere esecutivo e in quanto tale è uno dei tre poteri dello Stato
a
somiglianza del Parlamento e dell’Ordine della magistratura. Quando un
uomo
politico, membro del Parlamento o tecnico, diventa presidente del
Consiglio o
ministro o sottosegretario, quale che sia la sua provenienza egli
rappresenta
un potere dello Stato. E poiché il governo ha bisogno della fiducia del
Parlamento, esso è appunto amico della maggioranza parlamentare che lo
sostiene, ma autonomo da essa. Tiene conto della visione del bene
comune di
quella maggioranza, ma deve sempre privilegiare l’interesse generale e
quindi
lo Stato che in sé lo riassume. Questo
sostenne Enrico Berlinguer nell’intervista data al nostro giornale nel
1981 e
questa egli chiamò “questione morale”. In questo modo si accresce
l’autonomia
del governo e del Parlamento dai partiti determinando così la nuova
natura
delle persone che ne fanno parte. La visione della democrazia
rappresentativa
qui esposta prevede un rafforzamento del potere esecutivo e soprattutto
di chi
ne è il titolare, così come un rafforzamento del Parlamento nei suoi
poteri di
controllo della pubblica amministrazione. Prevede anche una diversa concezione delle magistrature amministrative rispetto a quella ordinaria e quindi una profonda riforma sia della Corte dei Conti sia soprattutto del Consiglio di Stato. Ieri Galli Della Loggia ha documentato sul Corriere della Sera l’invadenza soffocante della burocrazia che si autotutela anziché essere il braccio armato del potere esecutivo. Concordo interamente e non da oggi con questa tesi. Bisogna disboscare e semplificare la pubblica amministrazione. Questa è la madre di tutte le riforme, senza la quale le altre restano barchette di carta nell’acqua, sulla quale a stento galleggiano prima di disfarsi.
In linea
generale e da un punto di vista,
diciamo
così, sistemico il principale obiettivo del blocco
burocratico-corporativo — a
parte la protezione degli specifici interessi dei propri membri — è
quello di
autoalimentarsi, e quindi di frenare ogni cambiamento che alteri il
quadro
normativo, le prassi di gestione e le strutture relazionali all’interno
del
blocco stesso: insomma tutto ciò che gli assicura la condizione di
potere di
cui oggi gode. Potere che riveste due aspetti essenziali: quello
dell’indirizzo, del suggerimento, del condizionamento, perlopiù sotto
la veste
del consiglio tecnico-legale; e quello — ancora più importante —
d’interdizione. Il potere cioè di non fare, di ritardare, di mettere da
parte o
addirittura di cancellare anche per via giudiziaria qualunque
provvedimento non
gradito. Sul piano generale il risultato inevitabile di una simile
azione
finisce così per essere nella maggior parte dei casi quello di impedire
tutte
le misure volte a introdurre meccanismi e norme di tipo meritocratico,
intese a
liberalizzare, a semplificare, a rompere le barriere di accesso, le
protezioni
giuridiche e sindacali indebite. Spesso per il proprio interesse, ma il
più
delle volte per la sua stessa natura inerziale, il blocco
burocratico-corporativo, infatti, tende a lasciare sempre tutto com’è:
sotto il
controllo di chi è dentro, dei poteri esistenti e dei loro vertici di
comando.
Non importa se per far ciò bisogna arrivare a vanificare pure il ruolo
di
imparzialità e di terzietà che dovrebbe essere proprio dello Stato: se
per
esempio le Authority di garanzia e di controllo piuttosto che
esercitare con
incisività il proprio mandato e rivendicare con altrettanta incisività
un
potere di sanzione, preferiscono — come accade di regola — voltare la
testa
dall’altra parte e lasciar fare i grandi interessi su cui in teoria
dovrebbero
vegliare. Intendiamoci, fenomeni più o meno analoghi a quelli fin qui
accennati
caratterizzano tutti i regimi democratici. Ma tra i grandi Paesi
dell’Europa un
processo così forte ed esteso di autonomizzazione degli apparati
burocratico-giudiziari e di crescita dei loro collegamenti con gli
interessi
economici mi pare si sia avuto solo in Italia. Solo in Italia quegli
apparati e
gli interessi, economici e non, ad essi collegati, si sono appropriati
di spazi
di potere così vasti. E di conseguenza — complice il discredito
generale della
politica — solo in Italia il comando politico e i suoi rappresentanti
sono
stati così intimiditi, messi così nell’angolo, sono stati resi così
subalterni
alla sfera amministrativa. E non a caso, forse, ciò ha corrisposto a
una crisi
generale del Paese, a una sua stasi progressiva in tutti i campi, alla
sua
crescente incapacità di cercare e di trovare strade e strumenti nuovi
per il
proprio sviluppo. La gabbia di ferro del blocco burocratico-corporativo
e degli
interessi protetti ha soffocato la politica. C’è solo da sperare che
questa,
nella nuova stagione che sembra annunciarsi, torni a respirare
liberamente per
assolvere i compiti cruciali che sono esclusivamente i suoi. 27 gennaio 2014 |