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8 febbraio 2014

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Le sfide per la leadership di Putin
Redazione su www.ispionline.it | 5 febbraio 2014

La Russia che si appresta a inaugurare le olimpiadi invernali del 2014 è un Paese attraversato da tensioni interne, etniche e politiche, e da pressioni internazionali soprattutto in materia di diritti umani.

Il maggiore pericolo è rappresentato dal terrorismo ceceno, una minaccia acuita dai tragici attentati di Pyatigorsk e Volgograd, che si affianca al permanente attrito fra governo e opposizione, ora esposto in maniera particolare ai riflettori della comunità internazionale. In questo contesto, un evento di rilevanza mondiale come quello olimpionico può influire sull’immagine della Russia e sul prestigio di Putin in maniera determinante.

La legislazione contro il dissenso nella Russia di Putin

In ambito politico, la netta vittoria di Putin alle presidenziali del marzo 2012 (63,6%) ha marcato il livello di solidità del suo consenso, un elemento che non è sembrato venire eroso nemmeno dal contestuale caso mediatico delle Pussy Riot. Dieci giorni prima delle elezioni, tre rappresentanti di questo collettivo musicale “riot girl” hanno intonato una canzone di denuncia nella cattedrale moscovita di Gesù Salvatore. La provocazione ha portato al loro arresto e alla condanna a due anni di reclusione, terminati in anticipo nel 2013: per una componente del gruppo è stata decisa la libertà vigilata; le altre due hanno invece goduto dell’amnistia in occasione del ventesimo anniversario della Costituzione lo scorso dicembre.

Sempre a partire dal 2012, il partito di Putin, Russia Unita, ha portato poi avanti una legislazione mirata a limitare su più fronti l’azione e l’organizzazione dei movimenti di opposizione. Innanzitutto, nel luglio 2012 la Duma ha approvato delle leggi sull’utilizzo di internet e sulle Ong finanziate dall’estero o impegnate in attività politiche, definendo queste ultime “agenti stranieri” e di conseguenza prevedendo per loro l’obbligo di registrarsi presso il Ministero della Giustizia e limitandone le capacità di finanziamento. Nel novembre 2012 è stata inoltre ampliata la definizione di tradimento prevista dal codice penale, fino ad includere casi di organizzazioni internazionali che operano in senso contrario all’interesse nazionale.

L’indurimento dell’atteggiamento governativo, anche da un punto di vista internazionale, ha segnato un picco verso dicembre in occasione degli strascichi della vicenda Sergei Magnitsky. Avvocato russo che lavorava per una società statunitense, era stato arrestato nel 2009 ed era morto dopo una settimana di detenzione. Il 14 dicembre 2012, la firma da parte di Obama del Sergei Magnitsky Rule of Law Accountability Act ha segnato la prima deliberata accusa nei confronti del Cremlino: agli ufficiali coinvolti nella vicenda Magnitsky è stato infatti proibito l’ingresso negli Usa e congelato i conti correnti a loro ricollegabili. La risposta di Mosca non si è fatta attendere: il 28 dicembre 2012 Putin ha posto la sua firma su una proposta legislativa poi ribattezzata legge Anti-Magnitsky. La legge, oltre al pretesto da cui era nata (proibire l’adozione di bambini russi da parte di cittadini statunitensi), includeva anche il divieto per le Ong russe di ricevere fondi dagli Usa o da cittadini americani. Nonostante le petizioni per l’annullamento delle leggi e le proteste di piazza, la situazione per le Ong è rimasta critica. Il caso del gruppo di Greenpeace, Arctic 30, che nel settembre 2013 protestava per le attività estrattive di Gazprom nel mare artico, ha attirato l’attenzione mondiale in seguito agli arresti per pirateria e vandalismo. La vicenda si è poi conclusa con il ritiro delle accuse.

La legislazione però attualmente più controversa – nonché causa principale dell’attenzione crescente su Sochi e delle critiche di potenze occidentali e attivisti dei diritti umani – è la legislazione russa che bandisce la propaganda omosessuale, approvata in via definitiva dalla Duma nel giugno 2013 al fine di estendere a livello nazionale delle leggi che erano già in vigore a livello locale, tra cui a Kaliningrad e a San Pietroburgo. Questo insieme di leggi, oltre a prevedere multe fino a 15 mila euro sulla base di una definizione estremamente ampia e opaca di “propaganda”, vieta preventivamente manifestazioni ed eventi che possano rischiare di fare “propaganda gay”. A partire dalla loro entrata in vigore fino ad oggi, molti atleti e gruppi dell’opposizione hanno organizzato movimenti di protesta, proposto il boicottaggio delle Olimpiadi, e minacciato di voler interferire nello svolgimento delle Olimpiadi in difesa dei diritti dei gay contro la discriminazione. Per la stessa ragione molti leader politici, tra cui il Presidente statunitense Barack Obama, hanno dichiarato che non presiederanno ai giochi.

Ufficialmente in occasione del ventennale della Costituzione russa, ma ad opinione degli esperti soprattutto per sedare almeno in parte queste proteste in vista dell’approssimarsi delle Olimpiadi invernali, nel dicembre 2013 il presidente Putin ha concesso l’amnistia non solo a due delle Pussy Riot, ma anche all’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky, detenuto per dieci anni.

La minaccia terrorista cecena alle olimpiadi di Sochi

La popolazione cecena, i cui attriti con Mosca erano presenti anche nel periodo sovietico, ha sperimentato il fenomeno del separatismo a partire dalla dissoluzione dell’Urss. L’opposizione di Yeltsin condusse a un periodo di scontri, la Prima Guerra Cecena, conclusasi con il cessate il fuoco del 1996. Il sostegno al movimento indipendentista del Dagestan segnò nel 1999 i primi attentati terroristici con l’esplosione di bombe che costituirono il pretesto per la Seconda Guerra Cecena, cessata nel 2000 con la ripresa del controllo russo su Grozny, la capitale della regione. Da allora, il separatismo ceceno si è progressivamente indebolito, specialmente dopo la dipartita del leader Shamil Basayev nel 2006, ma ha continuato la propria attività terroristica: gli attentati terroristici sono passati dai 3 del 2006 ai 22 del 2010, per poi abbassarsi di nuovo. Il 2013 ha mostrato al contrario una significativa ripresa, con 5 attentati che hanno causato complessivamente 46 morti e 112 feriti.

La sede dei giochi invernali, Sochi, località di villeggiatura nota per il suo clima salutare, si affaccia sul Mar Nero ed è situata non lontano dal confine con la Georgia o, meglio, con la Repubblica indipendente dell’Abkhazia. La regione in cui la città si trova, il Krasnodar, è situata nel Caucaso del Nord e nel cuore di zone di forti tensioni politiche come Nord Ossezia, Inguscezia e Cecenia. Già nel luglio 2013, il leader ceceno Doku Umarov, proclamatosi emiro del Caucaso e coinvolto negli attentati della metro di Mosca (2010) e dell’aeroporto moscovita Domodedovo (2011), ha preannunciato in un video azioni terroristiche durante i giochi. La città di Volgograd, già colpita da una “vedova nera” kamikaze nell’ottobre precedente, ha subìto altri due attentati il 29 e il 30 dicembre, uno presso la stazione ferroviaria e l’altro su un autobus pubblico a un’ora di punta. Il bilancio complessivo è stato di 32 morti.

Il contesto spiega le ragioni del governo russo nel portare avanti una legislazione tesa alla ‘prevenzione’ del terrorismo. Nell’ottobre 2013 è stata estesa fino a sei anni la pena per coloro che sono impegnati in conflitti esteri, cioè pur senza aver commesso reati entro i confini russi, e in novembre il codice penale è stato ulteriormente modificato in tal senso. Le autorità nazionali sono ormai autorizzate a sequestrare le proprietà di amici e parenti delle persone identificate come terroriste. Una nuova legge del gennaio 2014 ha implementato queste misure: imposizione per i familiari degli attentatori di risarcire i danni causati dagli attacchi; carcerazione fino a 10 anni per avere ricevuto un addestramento militare con finalità terroristiche; controllo delle attività online con particolare attenzione agli acquisti effettuati tramite servizi di pagamento.

 La costellazione dell’opposizione politica

A partire dalle manifestazioni della primavera del 2013, fra le forze di opposizione ha acquisito sempre maggiore eco il nome di Alexei Navalny, ex vicepresidente della sezione moscovita del partito democratico unificato Yàbloko. Nato nel 1976 e laureato in legge ed economia, è stato espulso dal partito nel 2007 per divergenze politiche e, fin dal 2010, si è distinto per la denuncia online di casi di corruzione e per l’attivismo politico, specialmente nei riguardi delle presunte irregolarità parlamentari del 2011. A portarlo alla ribalta delle cronache nel luglio 2013 è stato l’affare KirovLes: Navalny è stato accusato di frode per le sue consulenze a un’azienda pubblica dell’oblast di Kirov, e quindi condannato a cinque anni di reclusione con una sentenza poi sospesa per un vizio di procedura. L’attivista, nonostante la pena sospesa che gli preclude una diretta partecipazione alle elezioni, è stato eletto segretario di Alleanza Popolare, l’ex partito Rodnaya Strana (Paese Nativo).

Tuttavia, l’opposizione politica in Russia è ben lungi dall’essere unita attorno a un’unica figura. La galassia di organizzazioni e partiti presenti nel paese ha tentato più volte di organizzarsi e costituire, ma senza successo. L’establishment di Putin, d’altro canto, non sembra sentirsi particolarmente minacciato da Navalny, a cui è stato concesso di partecipare nel 2013 alle elezioni del sindaco di Mosca nonostante non fosse ancora conclusa la vicenda giudiziaria KirovLes.

Nell’agone politico, il secondo partito rimane il Partito Comunista della Federazione Russa (10-17%), successore di quello d’epoca sovietica e sempre legato alla prassi marxista-leninista. L’ideologia di partito, per quanto critica sullo svolgimento delle elezioni e sulle scelte dell’esecutivo, non collima con le idee della ‘piazza’: per esempio, i comunisti hanno sostenuto la legge contro le Ong che difendono i diritti degli omosessuali. Un altro dei principali partiti dell’opposizione, lo Yabloko (Democratici Uniti), si colloca maggiormente ‘vicino’ alle manifestazioni, ma sembra registrare meno entuasismo di Navalny. Nel 2012 non ha potuto registrare il proprio candidato per le molte firme della petizione giudicate invalide. Fra i sostenitori di Putin, invece, si trova Spravedlivaya Rossiya (Russia Giusta), partito che si è tuttavia dichiarato insoddisfatto dell’egemonia di Russia Unita nel panorama parlamentare moscovita. Il Partito Liberal-Democratico Russo, una formazione autodefinitasi “centrista” pur essendo ricollegabile al fronte nazionalista e ultra-nazionalista, vorrebbe proporsi come ‘terza forza’ del paese.


 
Sochi 2014: sprechi e corruzione: Olimpiadi a rischio default

Antonella Scott su www.ispionline.it | 5 febbraio 2014

I prezzi dello skipass stagionale per il nuovo comprensorio di Rosa Khutor sono davvero convenienti, quest’anno: il fatto è che gli impianti di risalita saranno di nuovo accessibili ai turisti solo in marzo, ad avventura olimpica conclusa. A quel punto non ci sarà molto tempo per ricalcare le piste di Sochi 2014: i manager del paesino nato dal nulla per volontà di Vladimir Putin contano sul richiamo dei Giochi per attirare turisti nella valle di Krasnaja Poljana e convincerli però a tornare, quest’estate o l’inverno prossimo. È questa la grande incognita: il progetto decollerà oppure Rosa Khutor, con i suoi palazzi di lusso allineati sul fiume, è destinata a trasformarsi rapidamente in una città fantasma? Ci sarà vita, dopo le Olimpiadi?

Politicamente, in questa impresa Putin ha investito quasi tutto. Finanziariamente l’impegno viene stimato attorno ai 51 miliardi di dollari, grosso modo il 2,5% del prodotto interno russo. Una cifra colossale, in realtà difficile da confrontare con le edizioni precedenti dei Giochi perché è giusto distinguere tra le spese sostenute per gli impianti sportivi e quelle dedicate alle infrastrutture e ai trasporti, un'eredità che resta. Ma anche così, il budget di Sochi è riuscito a superare i 40 miliardi spesi per Pechino 2008, malgrado le Olimpiadi estive implichino un numero di gare e di impegni molto superiore a quelle invernali. Senza neppure aspettare l’arrivo della fiaccola, il primo record è già battuto.

Si dice che l’impatto economico di quanto investito in un’Olimpiade possa agire anche per più di 30 anni: e chi conosce il Caucaso sa quanto bisogno di attenzione e di sviluppo ci sia nella regione. Una manna dal cielo, dunque, questi Giochi voluti qui per riqualificarla. Purtroppo le cose non sono così semplici.

Come i fiumi di denaro indirizzati da Mosca verso Grozny e dintorni, e svaniti nel nulla, così il lauto bottino di Sochi in buona parte non è arrivato nella destinazione giusta. Secondo Gian Franco Kasper, dirigente svizzero del Comitato olimpico internazionale, un terzo della spesa “è scomparso” nel nome della corruzione che ha coinvolto «businessmen strettamente legati al Cremlino e al presidente Vladimir Putin». I contratti, sostiene Kasper, «sono stati dati a gente che aveva già un piede dentro, lo sappiamo». Da Mosca, il blogger anti-corruzione Aleksej Navalnyj ha compilato una mappa di Sochi (http://sochi.fbk.info/en/) che illustra ogni dettaglio di questo immenso giro d’affari: gli amici, le cifre, gli scandali, gli sprechi.

Il nome che ricorre più di frequente è quello di Arkadij Rotenberg, che da giovane si allenava a judo insieme a Putin. Le sue compagnie sono tra i beneficiari principali di queste Olimpiadi: hanno costruito strade, aeroporti, un gasdotto e una centrale elettrica, ponti e il centro stampa del villaggio olimpico. Totale, 7,1 miliardi di dollari. «L'intero progetto Sochi – ha detto Navalnyj all'agenzia Reuters – è stato concepito non solo per produrre i Giochi Olimpici, ma anche per arricchire un numero ristretto di amici di Putin».

Ma per chi s’interroga sulla sostenibilità del progetto Sochi, l’elemento preoccupante sta nel fatto che se Putin ha assicurato ai propri amici i contratti più lucrosi, sulle compagnie di stato e sugli oligarchi come Vladimir Potanin e Oleg Deripaska ha caricato i grossi investimenti che, dopo le Olimpiadi, rischiano di non avere un futuro. Facendoli finanziare in gran parte dalla Vneshekonombank (Veb), la banca dedicata allo sviluppo dell’economia, usata dal governo come un secondo budget. «In caso di default – si preoccupa il vicepresidente Serghej Vasiljev – il progetto olimpico aprirà una voragine nei conti».

Potanin è il re del nickel e di Rosa Khutor, pensava di costruirla con soli 300 milioni, che sono diventati 2,6 miliardi. A Deripaska, cui hanno lasciato in mano l’alluminio di tutte le Russie, il contributo richiesto per la causa sono stati l’aeroporto, il porto commerciale, il villaggio olimpico.

Progetti il cui futuro è quanto meno incerto, soprattutto considerato che gli oligarchi-patrioti non possono vendere le migliaia di appartamenti spuntati a Sochi prima dell’avvio dei Giochi e del rimborso dei prestiti. Così mesi fa, insieme a Gherman Gref che è presidente di Sberbank – altro ente di stato coinvolto – hanno scritto una lettera chiedendo aiuto, agevolazioni fiscali e tassi meno onerosi sui prestiti concessi dalla Veb. «Le nostre aziende – scrivono Gref, Deripaska e Potanin – hanno accettato di partecipare all’avventura olimpica per la natura sociale del progetto. Ma Sberbank, Gazprom, Rusal e Norilsk Nickel sono compagnie quotate, il loro compito è aumentare i profitti degli azionisti». Nei prossimi mesi dovranno invece cominciare i rimborsi.

I programmi per il futuro non mancano. Sochi sarà ancora al centro delle attenzioni del governo con il G8 della prossima estate, e poi sarà la sede del Gran Premio di Formula 1, e ospiterà i Mondiali di calcio del 2018. Ci sarebbe l’intenzione di costruire qui due casinò, trasformando la valle di Krasnaja Poljana in una delle poche destinazioni concesse in Russia al gioco d’azzardo. In un certo senso, la scelta è davvero azzeccata: l'anima di Sochi 2014 è una scommessa.

 Antonella Scott, Vice capo redattore a Il Sole 24 Ore



I migranti di Sochi

Il mito della fratellanza olimpica, che si celebra da oggi a Sochi, nasconde il racket dello sfruttamento dei lavoratori migranti. Le voci degli operai serbi e bosniaci rientrati dalla Russia
Andrea De Noni su Osservatorio Balcani e Caucaso | 7 febbraio 2014

Lavoratori clandestini, costretti a spezzarsi la schiena per un tozzo di pane, tenuti in condizioni di semi-schiavitù. Sfruttati per costruire gli impianti grazie ai quali gli sportivi e gli appassionati di tutto il mondo potranno celebrare, a partire da oggi e per le prossime due settimane, il mito della fratellanza olimpica. È stata questa la sorte di 123 lavoratori, serbi e serbo bosniaci, che solo recentemente sono riusciti a ritornare a casa dopo aver lavorato nei cantieri edili di Sochi, la città russa dove oggi si aprono i giochi invernali.

A denunciare la situazione dei lavoratori migranti a Sochi ci aveva già pensato un rapporto di Human Rights Watch, pubblicato esattamente un anno fa sotto il titolo di "Corsa verso il basso". “Per preparare i giochi invernali del 2014”, si può leggere nel documento, “la Russia ha dovuto trasformare radicalmente Sochi, una città costiera sul Mar Nero, costruendo impianti sportivi, hotel di lusso, oltre che infrastrutture e sistemi di comunicazione modernissimi”. Per fare ciò, e concludere quest'opera faraonica con il minimo costo, la Russia ha fatto ricorso anche “a 16.000 immigrati provenienti dall'estero”, impiegati spesso in condizioni durissime: gli operai lavorano per “turni di dodici ore, senza aver diritto a giorni di riposo”, e dopo che “sono stati loro confiscati il passaporto e il permesso di lavoro, per fare sì che non si ribellino e per renderne impossibile la fuga”.

La storia di questo sfruttamento, che per HRW riguardava principalmente gli immigrati del Caucaso e dell'Asia centrale, è diventata anche la storia di questo centinaio di lavoratori serbi e bosniaci: attirati da ambigue agenzie di intermediari, o da società di costruzione che offrivano loro un lavoro in Russia; allettati dalla promessa di salari non faraonici ma certo cospicui, buoni a sistemarsi per parecchi mesi una volta rientrati a casa, in Serbia o Bosnia Erzegovina; e quindi caduti vittime di un vero e proprio racket di sfruttamento internazionale.

 
Volevamo i soldi, abbiamo avuto la prigione

“Abbiamo vissuto un'esperienza orrenda”, ha raccontato alla televisione BHRT Radovan Biserčić, uno dei serbo-bosniaci che hanno lavorato a Sochi. “Uno dei nostri colleghi è morto, uno è stato ucciso e un altro, che ha avuto un attacco di cuore, è sparito e non sappiamo tuttora che fine abbia fatto. I nostri ricordi degli ultimi tre mesi sono dolorosissimi”, continua Biserčić, “siamo andati in Russia perché volevamo i soldi, ma invece abbiamo avuto la prigione. Vivevamo in una casa che ci eravamo costruiti noi, con le nostre mani”, ricorda l'uomo. “Il pavimento era di cemento, non c'era spazio sufficiente per dormire, né per andare al bagno o per farsi la doccia”.

I lavoratori serbi e serbo bosniaci sono andati a Sochi convinti di poter sfuggire alla disoccupazione e guadagnare uno stipendio molto più alto di quello che in media viene loro corrisposto a casa.

Darko Glišić, di Višegrad, è arrivato in Russia grazie a un amico di Belgrado, Nikola, che un giorno gli ha presentato Raško Tankošić. Tankošić ha creato una propria agenzia che si occupa di inviare operai edili in Russia, e promette a Glišić un salario che va dai sei agli otto dollari all'ora.

La paga media, in Bosnia Erzegovina, è di 425 € al mese soltanto. La cifra promessa da Tankošić non è faraonica. Ma è una paga onesta, e tanto basta a convincere Darko a partire.

“Lavoravamo duro, ma ogni volta che si finiva un edificio, Raško ci dava al massimo cento euro”, ricorda Glišić a Radio Sarajevo. “Noi eravamo convinti che tutto sarebbe stato pagato alla fine. Le condizioni di vita lì erano orrende, disastrose, venti persone dormivano in un'unica stanza disadorna, senza potersi lavare, in letti senza materassi”.

Poi, un giorno, la polizia russa compie un controllo a sorpresa. Trenta lavoratori vengono arrestati, gli altri in qualche modo riescono a scappare. Ma sono senza documenti e con pochissimi soldi in tasca: “Io sono sfuggito alla prigione russa, per fortuna”, racconta sempre Glišić, “ma sono rimasto praticamente subito senza i pochi soldi che ero riuscito a guadagnare”.

Con lui c'è anche un altro fuggitivo, Milan Jeftić, venuto a Sochi con la promessa di quattromila euro per tre mesi di lavoro. “Per tre giorni”, ricorda Jeftić in un'intervista rilasciata a Radio Slobodna Evropa, “non abbiamo fatto altro che scappare dalla polizia”. Poi, finalmente, è arrivato l'aiuto delle autorità di Belgrado. Che sono riuscite ad organizzare il trasporto dei propri cittadini, così come di quelli bosniaci, con un volo il 23 gennaio scorso.

 
I mondiali di calcio nel 2018 e il precedente di SerbAz

Dopo la scoperta di questo sistema di sfruttamento, poco in realtà è stato fatto per punire i responsabili. Lo stesso 23 gennaio, la polizia serba ha arrestato Dušan Kukić, di Čačak (Serbia), a capo di una delle agenzie responsabili di aver procurato operai alla costruzione di Sochi. Ma secondo Saša Simić, presidente del sindacato serbo per gli operai edili, resta ancora moltissimo lavoro da fare. Questa potrebbe essere soltanto la punta dell'iceberg. “Ci potrebbero essere più di 40.000 serbi che lavorano in Russia oggi; il loro numero esatto purtroppo non è possibile saperlo”, ha dichiarato Simić aRadio Slobodna Evropa.

Secondo Simić, il fenomeno rischia di aggravarsi anche in vista dell'organizzazione della Coppa del mondo di calcio in Russia nel 2018: “I nostri lavoratori sono competenti, e tra i peggio pagati della regione”. Facile quindi pensare che in pochi saranno in grado di resistere alle proposte di partire per la Russia.

Nel caso specifico della Bosnia Erzegovina, invece, “il fenomeno non ha ancora assunto proporzioni così preoccupanti; ma certo, si parla di un trend che purtroppo rischia di aumentare nel prossimo futuro”, sottolinea per Osservatorio Balcani e Caucaso Ivana Kozina.

Da anni, Ivana si occupa di dare sostegno alle vittime del traffico di esseri umani, attraverso Caritas Bosnia Erzegovina.

“Questo fenomeno non è ancora molto diffuso, ma sfortunatamente alla base c'è una tendenza che probabilmente aumenterà in futuro, dal momento che in Bosnia Erzegovina esistono – e continueranno ad esistere – ampie sacche di povertà, un alto tasso di disoccupazione e forti tensioni sociali”.

Ivana Kozina da anni è a capo del progetto "Enhancing local capacities to stop trafficking in BiH" (potenziare le capacità locali per fermare il traffico di esseri umani in Bosnia Erzegovina), e rappresenta il proprio paese in un progetto antitrafficking euro-mediterraneo.

“Un caso molto simile a quello di Sochi, tuttavia, si è realizzato in passato e riguarda alcune centinaia di bosniaci spediti a lavorare in Azerbaijan come operai edili per un'impresa chiamata SerbAz. Quello che ora in Bosnia Erzegovina è noto come 'il caso azero'  ha avuto luogo nel 2009 ed è, attualmente, in attesa di giudizio di fronte alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo”.

Anche in quel caso, cittadini bosniaci erano stati attirati dalla promessa di un lavoro migliore, per trovarsi poi – di fatto – ridotti in condizione di schiavitù dai propri datori di lavoro locali.

  8 febbraio 2014