Le sfide per la
leadership di Putin
Redazione
su www.ispionline.it |
5 febbraio 2014
La
Russia che si appresta a inaugurare le olimpiadi
invernali del 2014 è un Paese attraversato da tensioni interne, etniche
e
politiche, e da pressioni internazionali soprattutto in materia di
diritti
umani.
Il
maggiore pericolo è rappresentato dal terrorismo ceceno,
una minaccia acuita dai tragici attentati di Pyatigorsk e Volgograd,
che si
affianca al permanente attrito fra governo e opposizione, ora esposto
in
maniera particolare ai riflettori della comunità internazionale. In
questo
contesto, un evento di rilevanza mondiale come quello olimpionico può
influire
sull’immagine della Russia e sul prestigio di Putin in maniera
determinante.
La legislazione
contro
il dissenso nella Russia di Putin
In
ambito politico, la netta vittoria di Putin alle presidenziali
del marzo 2012 (63,6%) ha marcato il livello di solidità del suo
consenso, un
elemento che non è sembrato venire eroso nemmeno dal contestuale caso
mediatico
delle Pussy Riot. Dieci giorni prima delle elezioni, tre rappresentanti
di
questo collettivo musicale “riot girl” hanno intonato una canzone di
denuncia
nella cattedrale moscovita di Gesù Salvatore. La provocazione ha
portato al
loro arresto e alla condanna a due anni di reclusione, terminati in
anticipo
nel 2013: per una componente del gruppo è stata decisa la libertà
vigilata; le
altre due hanno invece goduto dell’amnistia in occasione del ventesimo
anniversario della Costituzione lo scorso dicembre.
Sempre
a partire dal 2012, il partito di Putin, Russia
Unita, ha portato poi avanti una legislazione mirata a limitare su più
fronti
l’azione e l’organizzazione dei movimenti di opposizione. Innanzitutto,
nel
luglio 2012 la Duma ha approvato delle leggi sull’utilizzo di internet
e sulle
Ong finanziate dall’estero o impegnate in attività politiche, definendo
queste
ultime “agenti stranieri” e di conseguenza prevedendo per loro
l’obbligo di
registrarsi presso il Ministero della Giustizia e limitandone le
capacità di
finanziamento. Nel novembre 2012 è stata inoltre ampliata la
definizione di
tradimento prevista dal codice penale, fino ad includere casi di
organizzazioni
internazionali che operano in senso contrario all’interesse nazionale.
L’indurimento
dell’atteggiamento governativo, anche da un
punto di vista internazionale, ha segnato un picco verso dicembre in
occasione
degli strascichi della vicenda Sergei Magnitsky. Avvocato russo che
lavorava
per una società statunitense, era stato arrestato nel 2009 ed era morto
dopo
una settimana di detenzione. Il 14 dicembre 2012, la firma da parte di
Obama
del Sergei Magnitsky Rule of Law Accountability Act ha segnato la prima
deliberata accusa nei confronti del Cremlino: agli ufficiali coinvolti
nella
vicenda Magnitsky è stato infatti proibito l’ingresso negli Usa e
congelato i
conti correnti a loro ricollegabili. La risposta di Mosca non si è
fatta
attendere: il 28 dicembre 2012 Putin ha posto la sua firma su una
proposta
legislativa poi ribattezzata legge Anti-Magnitsky. La legge, oltre al
pretesto
da cui era nata (proibire l’adozione di bambini russi da parte di
cittadini
statunitensi), includeva anche il divieto per le Ong russe di ricevere
fondi
dagli Usa o da cittadini americani. Nonostante le petizioni per
l’annullamento
delle leggi e le proteste di piazza, la situazione per le Ong è rimasta
critica.
Il caso del gruppo di Greenpeace, Arctic 30, che nel settembre 2013
protestava
per le attività estrattive di Gazprom nel mare artico, ha attirato
l’attenzione
mondiale in seguito agli arresti per pirateria e vandalismo. La vicenda
si è
poi conclusa con il ritiro delle accuse.
La
legislazione però attualmente più controversa – nonché
causa principale dell’attenzione crescente su Sochi e delle critiche di
potenze
occidentali e attivisti dei diritti umani – è la legislazione russa che
bandisce la propaganda omosessuale, approvata in via definitiva dalla
Duma nel
giugno 2013 al fine di estendere a livello nazionale delle leggi che
erano già
in vigore a livello locale, tra cui a Kaliningrad e a San Pietroburgo.
Questo
insieme di leggi, oltre a prevedere multe fino a 15 mila euro sulla
base di una
definizione estremamente ampia e opaca di “propaganda”, vieta
preventivamente
manifestazioni ed eventi che possano rischiare di fare “propaganda
gay”. A
partire dalla loro entrata in vigore fino ad oggi, molti atleti e
gruppi
dell’opposizione hanno organizzato movimenti di protesta, proposto il
boicottaggio delle Olimpiadi, e minacciato di voler interferire nello
svolgimento delle Olimpiadi in difesa dei diritti dei gay contro la
discriminazione. Per la stessa ragione molti leader politici, tra cui
il
Presidente statunitense Barack Obama, hanno dichiarato che non
presiederanno ai
giochi.
Ufficialmente
in occasione del ventennale della Costituzione
russa, ma ad opinione degli esperti soprattutto per sedare almeno in
parte queste
proteste in vista dell’approssimarsi delle Olimpiadi invernali, nel
dicembre
2013 il presidente Putin ha concesso l’amnistia non solo a due delle
Pussy
Riot, ma anche all’ex oligarca Mikhail Khodorkovsky, detenuto per dieci
anni.
La minaccia
terrorista
cecena alle olimpiadi di Sochi
La
popolazione cecena, i cui attriti con Mosca erano
presenti anche nel periodo sovietico, ha sperimentato il fenomeno del
separatismo a partire dalla dissoluzione dell’Urss. L’opposizione di
Yeltsin
condusse a un periodo di scontri, la Prima Guerra Cecena, conclusasi
con il
cessate il fuoco del 1996. Il sostegno al movimento indipendentista del
Dagestan segnò nel 1999 i primi attentati terroristici con l’esplosione
di
bombe che costituirono il pretesto per la Seconda Guerra Cecena,
cessata nel
2000 con la ripresa del controllo russo su Grozny, la capitale della
regione.
Da allora, il separatismo ceceno si è progressivamente indebolito,
specialmente
dopo la dipartita del leader Shamil Basayev nel 2006, ma ha continuato
la
propria attività terroristica: gli attentati terroristici sono passati
dai 3
del 2006 ai 22 del 2010, per poi abbassarsi di nuovo. Il 2013 ha
mostrato al
contrario una significativa ripresa, con 5 attentati che hanno causato
complessivamente 46 morti e 112 feriti.
La
sede dei giochi invernali, Sochi, località di
villeggiatura nota per il suo clima salutare, si affaccia sul Mar Nero
ed è
situata non lontano dal confine con la Georgia o, meglio, con la
Repubblica
indipendente dell’Abkhazia. La regione in cui la città si trova, il
Krasnodar, è
situata nel Caucaso del Nord e nel cuore di zone di forti tensioni
politiche
come Nord Ossezia, Inguscezia e Cecenia. Già nel luglio 2013, il leader
ceceno
Doku Umarov, proclamatosi emiro del Caucaso e coinvolto negli attentati
della
metro di Mosca (2010) e dell’aeroporto moscovita Domodedovo (2011), ha
preannunciato in un video azioni terroristiche durante i giochi. La
città di
Volgograd, già colpita da una “vedova nera” kamikaze nell’ottobre
precedente,
ha subìto altri due attentati il 29 e il 30 dicembre, uno presso la
stazione
ferroviaria e l’altro su un autobus pubblico a un’ora di punta. Il
bilancio
complessivo è stato di 32 morti.
Il
contesto spiega le ragioni del governo russo nel portare
avanti una legislazione tesa alla ‘prevenzione’ del terrorismo.
Nell’ottobre
2013 è stata estesa fino a sei anni la pena per coloro che sono
impegnati in
conflitti esteri, cioè pur senza aver commesso reati entro i confini
russi, e
in novembre il codice penale è stato ulteriormente modificato in tal
senso. Le
autorità nazionali sono ormai autorizzate a sequestrare le proprietà di
amici e
parenti delle persone identificate come terroriste. Una nuova legge del
gennaio
2014 ha implementato queste misure: imposizione per i familiari degli
attentatori di risarcire i danni causati dagli attacchi; carcerazione
fino a 10
anni per avere ricevuto un addestramento militare con finalità
terroristiche;
controllo delle attività online con particolare attenzione agli
acquisti
effettuati tramite servizi di pagamento.
La
costellazione
dell’opposizione politica
A
partire dalle manifestazioni della primavera del 2013, fra
le forze di opposizione ha acquisito sempre maggiore eco il nome di
Alexei
Navalny, ex vicepresidente della sezione moscovita del partito
democratico
unificato Yàbloko. Nato nel 1976 e laureato in legge ed economia, è
stato
espulso dal partito nel 2007 per divergenze politiche e, fin dal 2010,
si è
distinto per la denuncia online di casi di corruzione e per l’attivismo
politico, specialmente nei riguardi delle presunte irregolarità
parlamentari
del 2011. A portarlo alla ribalta delle cronache nel luglio 2013 è
stato
l’affare KirovLes: Navalny è stato accusato di frode per le sue
consulenze a
un’azienda pubblica dell’oblast di Kirov, e quindi condannato a cinque
anni di
reclusione con una sentenza poi sospesa per un vizio di procedura.
L’attivista,
nonostante la pena sospesa che gli preclude una diretta partecipazione
alle
elezioni, è stato eletto segretario di Alleanza Popolare, l’ex partito
Rodnaya
Strana (Paese Nativo).
Tuttavia,
l’opposizione politica in Russia è ben lungi
dall’essere unita attorno a un’unica figura. La galassia di
organizzazioni e
partiti presenti nel paese ha tentato più volte di organizzarsi e
costituire,
ma senza successo. L’establishment di Putin, d’altro canto, non sembra
sentirsi
particolarmente minacciato da Navalny, a cui è stato concesso di
partecipare
nel 2013 alle elezioni del sindaco di Mosca nonostante non fosse ancora
conclusa la vicenda giudiziaria KirovLes.
Nell’agone
politico, il secondo partito rimane il Partito
Comunista della Federazione Russa (10-17%), successore di quello
d’epoca
sovietica e sempre legato alla prassi marxista-leninista. L’ideologia
di
partito, per quanto critica sullo svolgimento delle elezioni e sulle
scelte
dell’esecutivo, non collima con le idee della ‘piazza’: per esempio, i
comunisti hanno sostenuto la legge contro le Ong che difendono i
diritti degli
omosessuali. Un altro dei principali partiti dell’opposizione, lo
Yabloko
(Democratici Uniti), si colloca maggiormente ‘vicino’ alle
manifestazioni, ma
sembra registrare meno entuasismo di Navalny. Nel 2012 non ha potuto
registrare
il proprio candidato per le molte firme della petizione giudicate
invalide. Fra
i sostenitori di Putin, invece, si trova Spravedlivaya Rossiya (Russia
Giusta),
partito che si è tuttavia dichiarato insoddisfatto dell’egemonia di
Russia
Unita nel panorama parlamentare moscovita. Il Partito
Liberal-Democratico
Russo, una formazione autodefinitasi “centrista” pur essendo
ricollegabile al
fronte nazionalista e ultra-nazionalista, vorrebbe proporsi come ‘terza
forza’
del paese.
Sochi
2014: sprechi e corruzione: Olimpiadi a rischio
default
Antonella
Scott su www.ispionline.it
| 5 febbraio 2014
I
prezzi dello skipass stagionale per il nuovo comprensorio
di Rosa Khutor sono davvero convenienti, quest’anno: il fatto è che gli
impianti di risalita saranno di nuovo accessibili ai turisti solo in
marzo, ad
avventura olimpica conclusa. A quel punto non ci sarà molto tempo per
ricalcare
le piste di Sochi 2014: i manager del paesino nato dal nulla per
volontà di
Vladimir Putin contano sul richiamo dei Giochi per attirare turisti
nella valle
di Krasnaja Poljana e convincerli però a tornare, quest’estate o
l’inverno
prossimo. È questa la grande incognita: il progetto decollerà oppure
Rosa
Khutor, con i suoi palazzi di lusso allineati sul fiume, è destinata a
trasformarsi rapidamente in una città fantasma? Ci sarà vita, dopo le
Olimpiadi?
Politicamente,
in questa impresa Putin ha investito quasi
tutto. Finanziariamente l’impegno viene stimato attorno ai 51 miliardi
di
dollari, grosso modo il 2,5% del prodotto interno russo. Una cifra
colossale,
in realtà difficile da confrontare con le edizioni precedenti dei
Giochi perché
è giusto distinguere tra le spese sostenute per gli impianti sportivi e
quelle
dedicate alle infrastrutture e ai trasporti, un'eredità che resta. Ma
anche
così, il budget di Sochi è riuscito a superare i 40 miliardi spesi per
Pechino
2008, malgrado le Olimpiadi estive implichino un numero di gare e di
impegni
molto superiore a quelle invernali. Senza neppure aspettare l’arrivo
della
fiaccola, il primo record è già battuto.
Si dice che
l’impatto economico di quanto investito in
un’Olimpiade possa agire anche per più di 30 anni: e chi conosce il
Caucaso sa
quanto bisogno di attenzione e di sviluppo ci sia nella regione. Una
manna dal
cielo, dunque, questi Giochi voluti qui per riqualificarla. Purtroppo
le cose
non sono così semplici.
Come i fiumi di
denaro indirizzati da Mosca verso Grozny e
dintorni, e svaniti nel nulla, così il lauto bottino di Sochi in buona
parte
non è arrivato nella destinazione giusta. Secondo Gian Franco Kasper,
dirigente
svizzero del Comitato olimpico internazionale, un terzo della spesa “è
scomparso” nel nome della corruzione che ha coinvolto «businessmen
strettamente
legati al Cremlino e al presidente Vladimir Putin». I contratti,
sostiene
Kasper, «sono stati dati a gente che aveva già un piede dentro, lo
sappiamo».
Da Mosca, il blogger anti-corruzione Aleksej Navalnyj ha compilato una
mappa di
Sochi (http://sochi.fbk.info/en/) che illustra ogni dettaglio di questo
immenso
giro d’affari: gli amici, le cifre, gli scandali, gli sprechi.
Il nome che
ricorre più di frequente è quello di Arkadij
Rotenberg, che da giovane si allenava a judo insieme a Putin. Le sue
compagnie
sono tra i beneficiari principali di queste Olimpiadi: hanno costruito
strade,
aeroporti, un gasdotto e una centrale elettrica, ponti e il centro
stampa del
villaggio olimpico. Totale, 7,1 miliardi di dollari. «L'intero progetto
Sochi –
ha detto Navalnyj all'agenzia Reuters – è stato concepito non solo per
produrre
i Giochi Olimpici, ma anche per arricchire un numero ristretto di amici
di
Putin».
Ma per chi
s’interroga sulla sostenibilità del progetto
Sochi, l’elemento preoccupante sta nel fatto che se Putin ha assicurato
ai
propri amici i contratti più lucrosi, sulle compagnie di stato e sugli
oligarchi come Vladimir Potanin e Oleg Deripaska ha caricato i grossi
investimenti che, dopo le Olimpiadi, rischiano di non avere un futuro.
Facendoli finanziare in gran parte dalla Vneshekonombank (Veb), la
banca
dedicata allo sviluppo dell’economia, usata dal governo come un secondo
budget.
«In caso di default – si preoccupa il vicepresidente Serghej Vasiljev –
il
progetto olimpico aprirà una voragine nei conti».
Potanin è il re
del nickel e di Rosa Khutor, pensava di
costruirla con soli 300 milioni, che sono diventati 2,6 miliardi. A
Deripaska,
cui hanno lasciato in mano l’alluminio di tutte le Russie, il
contributo
richiesto per la causa sono stati l’aeroporto, il porto commerciale, il
villaggio olimpico.
Progetti il cui
futuro è quanto meno incerto, soprattutto
considerato che gli oligarchi-patrioti non possono vendere le migliaia
di
appartamenti spuntati a Sochi prima dell’avvio dei Giochi e del
rimborso dei
prestiti. Così mesi fa, insieme a Gherman Gref che è presidente di
Sberbank –
altro ente di stato coinvolto – hanno scritto una lettera chiedendo
aiuto,
agevolazioni fiscali e tassi meno onerosi sui prestiti concessi dalla
Veb. «Le
nostre aziende – scrivono Gref, Deripaska e Potanin – hanno accettato
di
partecipare all’avventura olimpica per la natura sociale del progetto.
Ma
Sberbank, Gazprom, Rusal e Norilsk Nickel sono compagnie quotate, il
loro
compito è aumentare i profitti degli azionisti». Nei prossimi mesi
dovranno
invece cominciare i rimborsi.
I programmi per
il futuro non mancano. Sochi sarà ancora al
centro delle attenzioni del governo con il G8 della prossima estate, e
poi sarà
la sede del Gran Premio di Formula 1, e ospiterà i Mondiali di calcio
del 2018.
Ci sarebbe l’intenzione di costruire qui due casinò, trasformando la
valle di
Krasnaja Poljana in una delle poche destinazioni concesse in Russia al
gioco
d’azzardo. In un certo senso, la scelta è davvero azzeccata: l'anima di
Sochi
2014 è una scommessa.
Antonella
Scott, Vice capo redattore a Il Sole 24 Ore
I migranti di
Sochi
Il mito della
fratellanza olimpica, che si celebra da oggi a Sochi, nasconde il
racket dello
sfruttamento dei lavoratori migranti. Le voci degli operai serbi e
bosniaci
rientrati dalla Russia
Andrea
De Noni su Osservatorio Balcani e Caucaso
| 7 febbraio 2014
Lavoratori
clandestini, costretti a spezzarsi la schiena per
un tozzo di pane, tenuti in condizioni di semi-schiavitù. Sfruttati per
costruire gli impianti grazie ai quali gli sportivi e gli appassionati
di tutto
il mondo potranno celebrare, a partire da oggi e per le prossime due
settimane,
il mito della fratellanza olimpica. È stata questa la sorte di 123
lavoratori,
serbi e serbo bosniaci, che solo recentemente sono riusciti a ritornare
a casa
dopo aver lavorato nei cantieri edili di Sochi, la città russa dove
oggi si
aprono i giochi invernali.
A denunciare la
situazione dei lavoratori migranti a Sochi
ci aveva già pensato un rapporto di Human Rights Watch, pubblicato
esattamente
un anno fa sotto il titolo di "Corsa verso il basso". “Per preparare
i giochi invernali del 2014”, si può leggere nel documento, “la Russia
ha
dovuto trasformare radicalmente Sochi, una città costiera sul Mar Nero,
costruendo impianti sportivi, hotel di lusso, oltre che infrastrutture
e
sistemi di comunicazione modernissimi”. Per fare ciò, e concludere
quest'opera
faraonica con il minimo costo, la Russia ha fatto ricorso anche “a
16.000
immigrati provenienti dall'estero”, impiegati spesso in condizioni
durissime:
gli operai lavorano per “turni di dodici ore, senza aver diritto a
giorni di
riposo”, e dopo che “sono stati loro confiscati il passaporto e il
permesso di
lavoro, per fare sì che non si ribellino e per renderne impossibile la
fuga”.
La storia di
questo sfruttamento, che per HRW riguardava
principalmente gli immigrati del Caucaso e dell'Asia centrale, è
diventata
anche la storia di questo centinaio di lavoratori serbi e bosniaci:
attirati da
ambigue agenzie di intermediari, o da società di costruzione che
offrivano loro
un lavoro in Russia; allettati dalla promessa di salari non faraonici
ma certo
cospicui, buoni a sistemarsi per parecchi mesi una volta rientrati a
casa, in
Serbia o Bosnia Erzegovina; e quindi caduti vittime di un vero e
proprio racket
di sfruttamento internazionale.
Volevamo i
soldi,
abbiamo avuto la prigione
“Abbiamo vissuto
un'esperienza orrenda”, ha raccontato alla televisione BHRT Radovan
Biserčić,
uno dei serbo-bosniaci che hanno lavorato a Sochi. “Uno dei nostri
colleghi è
morto, uno è stato ucciso e un altro, che ha avuto un attacco di cuore,
è
sparito e non sappiamo tuttora che fine abbia fatto. I nostri ricordi
degli
ultimi tre mesi sono dolorosissimi”, continua Biserčić, “siamo andati
in Russia
perché volevamo i soldi, ma invece abbiamo avuto la prigione. Vivevamo
in una
casa che ci eravamo costruiti noi, con le nostre mani”, ricorda l'uomo.
“Il
pavimento era di cemento, non c'era spazio sufficiente per dormire, né
per
andare al bagno o per farsi la doccia”.
I lavoratori
serbi e serbo bosniaci sono andati a Sochi
convinti di poter sfuggire alla disoccupazione e guadagnare uno
stipendio molto
più alto di quello che in media viene loro corrisposto a casa.
Darko Glišić,
di Višegrad, è arrivato in Russia grazie a un
amico di Belgrado, Nikola, che un giorno gli ha presentato Raško
Tankošić.
Tankošić ha creato una propria agenzia che si occupa di inviare operai
edili in
Russia, e promette a Glišić un salario che va dai sei agli otto dollari
all'ora.
La paga media,
in Bosnia Erzegovina, è di 425 € al mese
soltanto. La cifra promessa da Tankošić non è faraonica. Ma è una paga
onesta,
e tanto basta a convincere Darko a partire.
“Lavoravamo
duro, ma ogni volta che si finiva un edificio,
Raško ci dava al massimo cento euro”, ricorda Glišić a Radio Sarajevo.
“Noi
eravamo convinti che tutto sarebbe stato pagato alla fine. Le
condizioni di
vita lì erano orrende, disastrose, venti persone dormivano in un'unica
stanza
disadorna, senza potersi lavare, in letti senza materassi”.
Poi, un giorno,
la polizia russa compie un controllo a
sorpresa. Trenta lavoratori vengono arrestati, gli altri in qualche
modo
riescono a scappare. Ma sono senza documenti e con pochissimi soldi in
tasca:
“Io sono sfuggito alla prigione russa, per fortuna”, racconta sempre
Glišić,
“ma sono rimasto praticamente subito senza i pochi soldi che ero
riuscito a
guadagnare”.
Con lui c'è
anche un altro fuggitivo, Milan Jeftić, venuto a
Sochi con la promessa di quattromila euro per tre mesi di lavoro. “Per
tre
giorni”, ricorda Jeftić in un'intervista rilasciata a Radio Slobodna
Evropa,
“non abbiamo fatto altro che scappare dalla polizia”. Poi, finalmente,
è
arrivato l'aiuto delle autorità di Belgrado. Che sono riuscite ad
organizzare
il trasporto dei propri cittadini, così come di quelli bosniaci, con un
volo il
23 gennaio scorso.
I mondiali di
calcio
nel 2018 e il precedente di SerbAz
Dopo
la scoperta di questo sistema di sfruttamento, poco in
realtà è stato fatto per punire i responsabili. Lo stesso 23 gennaio,
la
polizia serba ha arrestato Dušan Kukić, di Čačak (Serbia), a capo di
una delle
agenzie responsabili di aver procurato operai alla costruzione di
Sochi. Ma
secondo Saša Simić, presidente del sindacato serbo per gli operai
edili, resta
ancora moltissimo lavoro da fare. Questa potrebbe essere soltanto la
punta
dell'iceberg. “Ci potrebbero essere più di 40.000 serbi che lavorano in
Russia
oggi; il loro numero esatto purtroppo non è possibile saperlo”, ha
dichiarato
Simić aRadio Slobodna Evropa.
Secondo Simić,
il fenomeno rischia di aggravarsi anche in
vista dell'organizzazione della Coppa del mondo di calcio in Russia nel
2018:
“I nostri lavoratori sono competenti, e tra i peggio pagati della
regione”.
Facile quindi pensare che in pochi saranno in grado di resistere alle
proposte
di partire per la Russia.
Nel caso
specifico della Bosnia Erzegovina, invece, “il
fenomeno non ha ancora assunto proporzioni così preoccupanti; ma certo,
si
parla di un trend che purtroppo rischia di aumentare nel prossimo
futuro”,
sottolinea per Osservatorio Balcani e Caucaso Ivana Kozina.
Da anni, Ivana
si occupa di dare sostegno alle vittime del
traffico di esseri umani, attraverso Caritas Bosnia Erzegovina.
“Questo
fenomeno non è ancora molto diffuso, ma
sfortunatamente alla base c'è una tendenza che probabilmente aumenterà
in
futuro, dal momento che in Bosnia Erzegovina esistono – e continueranno
ad
esistere – ampie sacche di povertà, un alto tasso di disoccupazione e
forti
tensioni sociali”.
Ivana Kozina da
anni è a capo del progetto "Enhancing
local capacities to stop trafficking in BiH" (potenziare le capacità
locali per fermare il traffico di esseri umani in Bosnia Erzegovina), e
rappresenta
il proprio paese in un progetto antitrafficking euro-mediterraneo.
“Un caso molto
simile a quello di Sochi, tuttavia, si è
realizzato in passato e riguarda alcune centinaia di bosniaci spediti a
lavorare in Azerbaijan come operai edili per un'impresa chiamata
SerbAz. Quello
che ora in Bosnia Erzegovina è noto come 'il caso azero' ha avuto luogo nel 2009 ed
è, attualmente, in
attesa di giudizio di fronte alla Corte dei Diritti Umani di
Strasburgo”.
Anche in quel
caso, cittadini bosniaci erano stati attirati
dalla promessa di un lavoro migliore, per trovarsi poi – di fatto –
ridotti in
condizione di schiavitù dai propri datori di lavoro locali.
8
febbraio
2014