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14 marzo 2014

renzi

Se nasce la Renzi Coalition
Marco Damilano su Finemondo | 13 marzo 2014

A chiudere gli occhi, certo, sembrava di ascoltare il fin troppo noto modello dell’ultimo ventennio, “Una casa per tutti” come “Meno tasse per tutti”, “Un piano per le scuole” come le tre I (inglese, internet, impresa), “Il lavoro svolta” come “Un buon lavoro anche per te”… E poi vendesi auto usata (blu ministeriale), spade da samurai contro i gufi che pensano «non ce la può fare» e pesciolini rossi, «che volevate di più?» con l’aria di chi non vende sogni ma comode realtà, come recita lo slogan di una nota agenzia immobiliare. Solo che questa volta non eravamo nel pieno di una campagna elettorale, ma all’uscita di un Consiglio dei ministri, non c’erano i manifesti sei per tre affissi sui muri o uno studio televisivo da cui far partire contratti con gli italiani ma le slides sul pannello della sala conferenze stampa di Palazzo Chigi, il venditore di sogni non era un candidato premier ma il premier in carica. E da quelle false promesse di Silvio Berlusconi sono passati tredici anni, invano. Mentre Matteo Renzi, di fronte a sé, ha un tempo breve per dimostrare che non è solo un nuovo e più giovane Vanna Marchi della politica. Una verifica immediata. Cento giorni.

Cento giorni è l’evocazione di un modello che non abita ad Arcore, va cercato altrove. Una citazione nascosta, una scopiazzatura, una suggestione. Il modello va cercato oltreoceano e indietro nel tempo, all’inizio degli anni Trenta. Il presidente americano che cominciò il suo mandato con un discorso tra i più famosi della storia: «Sono convinto se c’è qualcosa da temere è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in una avanzata…». Era Franklin Delano Roosvelt, eletto nel 1932, nel bel mezzo della grande depressione, che rilanciò l’economia con le misure dei cento giorni, il New Deal, il nuovo patto. Era un grande comunicatore, non usava twitter ma si rivolgeva agli elettori parlando alla radio, con i “discorsi dal caminetto”. Aveva in mente una dottrina economica, quella keynesiana. E un blocco sociale di riferimento: la coalizione roosveltiana, democratica, che dominò la politica americana per decenni. Sostituita, solo negli anni Ottanta, dalla rivoluzione conservatrice del repubblicano Ronald Reagan: la Reagan Coalition.

In molti hanno provato a imitarlo. Anche il celebratissimo Barack Obama, come dimostra questa copertina di “Time” del 2008, al momento della prima elezione a presidente:


riciclati
Non è andata bene a Obama, figuriamoci a Renzi che non è certo Roosvelt e che semmai può accarezzare un riferimento più vicino. C’era una volta l’interclassismo, parola magica della Democrazia cristiana al governo per decenni: rappresentare insieme contadini e operai, piccoli imprenditori settentrionali e pubblico impiego, soprattutto il grande, infinito ceto medio italiano indispensabile per governare il Paese. A questo blocco sociale si contrapponeva quello della sinistra che ruotava attorno al Pci. Negli ultimi venti anni, quelli della Seconda Repubblica, gli unici che hanno provato a definire e a rappresentare un blocco sociale di riferimento sono stati Berlusconi e la Lega. Forza Italia è stata un partito di plastica attorno a un Capo ma aveva un’idea precisa, feroce degli interessi che intendeva tutelare, la Padania era una creatura della fantasia che copriva solidissime realtà sociali in cerca di partiti che a Roma difendessero le ragioni del «territorio». Mentre, negli stessi anni, la sinistra ha quasi totalmente smarrito un’idea sull’Italia da rappresentare. Ha sostituito l’ideologia con la cinematografia. Ha confuso la conquista del centro della società con l’inciucio con il centro del Palazzo, con Casini, o con il centro storico o con il centro Italia, l’immaginario della Meglio gioventù. È rimasta a coltivare sentimentalmente i riferimenti sociali del passato, o ha inseguito una visione tutta politicistica, alleanze di vertice, della rappresentanza politica.

Incredibile, anzi «in-cre-di-bil-le», come ha detto lui accentuando il tono da banditore, che sia Renzi il leggero, Matteo il superficiale, a coltivare un’idea pazzesca che va ben al di là del pacchetto annunciato ieri: ricostruire un blocco sociale, una coalizione di consenso non politica ma sociale. Eppure nel piano dei cento giorni, nei referenti individuati come destinatari delle misure economiche, questa ambizione è ben visibile. I dieci miliardi per dieci milioni di italiani che guadagnano meno di 1500 euro al mese arrivano a un ceto medio diffuso e impoverito, il più aggredito dalla crisi negli ultimi anni, dimenticato dalla destra berlusconiana, dai tecnici ma anche dalla sinistra vecchio stile. Il pacchetto lavoro, il Jobs Act che fa tanto America, parla ai giovani senza lavoro, flessibili ormai per condizione esistenziale più che scelta o per costrizione. Il taglio dell’Irap finanziato con l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie è, addirittura, una cosa di sinistra («riequilibrio, equità», dice Renzi) mescolata con una di destra: Bertinotti e Berlusconi insieme. Perfino l’istituzione di un fondo di cinquecento milioni per le imprese sociali è un amo lanciato alla Compagnia delle Opere e alla Lega Coop, ben piazzate nel governo con i ministri Lupi e Poletti. Un tassello dell’obiettivo che Renzi vuole costruire: una grande coalizione, non nel Palazzo, ma nel Paese. Non la coalizione alla tedesca, tra partiti, ma all’americana, nella società. Una larga intesa che non si salda con le alchimie di gruppi parlamentari inesistenti nella società ma parlando agli italiani smarriti e senza riferimenti politici. Quasi tutti, ormai.

Nessuno meglio di lui, negli ultimi decenni, può riuscirci, nessuno più del post-ideologico Matteo Renzi. Con la sua indifferenza ai dettagli (le coperture? il provvedimento in cui arrivano i mille euro? boh… la riforma del Senato con i ventuno nominati dal presidente della Repubblica per sette anni: e perché non ventidue, come i convocati in Nazionale?) e la sua identità politica oltre la destra e la sinistra. Con la sua disinvoltura istituzionale (i ministri lasciati in piedi ad ascoltare il Verbo) e il presidenzialismo di fatto. Perché la Dc conquistava una maggioranza relativa di italiani ma il suo serbatoio di voti aveva un limite nella guerra fredda e nella presenza fortissima e ben organizzata del Pci e nella laicità di chi non voleva morire democristiano. Berlusconi ha colonizzato le speranze di una parte degli italiani, ma tutto il resto lo ha ritenuto un virus da cui liberarsi. In più, fin dalla discesa in campo, ha spaccato gli italiani, di qua o di là, la scelta di campo, o con me o con la morte e la distruzione, i comunisti, aveva recuperato la parola destra uscita dal vocabolario italiano dopo il fascismo. Mentre Renzi è un autentico leader generalista, è la Rai democristiana e la Mediaset berlusconiana insieme. Gli anni Cinquanta, con quel sapore di ottimismo che precedeva il boom economico e anche quell’intolleranza soft verso il dissenso, «il disfattismo» (ma nessun democristiano avrebbe chiamato un giornalista per chiedergli di ritirare il pezzo e minacciando di quererarlo come ha fatto con Lucia Annunziata Madonna Maria Elena Boschi che tanto gentile e onesta appare: prenda esempio da Giulio Andreotti che è entrato al governo più giovane di lei e che non ha mai querelato nessuno) e gli anni Ottanta. Tra De Gasperi e gli U2, come si intitolava un aureo libretto del futuro premier.

Il suo è un interclassismo liquido, gassoso e perciò pervasivo, in grado di infilarsi ovunque, nel vuoto lasciato a destra dagli ex berlusconiani allo sbando, i grillini delusi, perfino in una parte di sinistra priva di bussola e di identità. Renzi è il primo leader potenzialmente senza confini elettorali pre-definiti, in grado di acchiappare ovunque. E dunque è ozioso sovrapporre l’immagine del venditore di Pontassieve a quella del piazzista di Arcore. Quello che più interessa ora è vedere se riuscirà a incrociare il solido e il pesante, gli interessi e i valori di una parte degli italiani. Se ce la fa, nasce la coalizione renziana, la Renzi Coalition, in grado di durare decenni. Se invece tra cento giorni tutto svanisce in una nuvola di cerone o si esaurisce in un tweet, altro che new deal roosveltiano, Renzi perderà disastrosamente le elezioni europee, proverà a riprendersi la rivincita anticipando le elezioni politiche. E amen.


 
L'evasione che non ti aspetti: ecco perché gli italiani non sanno chi sfugge davvero al Fisco
Enrico Bronzo su il Sole 24 Ore | 11 marzo 2014

Sono 30mila circa le persone che hanno risposto al quiz sull'evasore medio italiano. In generale si può dire che il fenomeno sia molto seguito e che la gente pensa di conoscerlo ma questo quiz sfata molti luoghi comuni. Come quello che siano i lavoratori autonomi, magari del Nord, ad evadere di più. Non è così, ma andiamo per ordine, partendo dal sesso che sulle cinque domande del test è stata l'unica a essere stata indovinata: la propensione degli uomini italiani a evadere l'Irpef è del 17,3% contro il 9,9% delle donne.

Questi invece sono gli altri elementi che completano il profilo dell'evasore medio: è uomo, under 44, risiede nel Centro Italia, generalmente vive di rendita e, in media, sottrae al fisco 2.093 euro. È quanto emerso dalle tavole presentate dalla Banca d'Italia nel corso di un'audizione in Senato. Confrontando i dati di un'indagine Bankitalia con quelli della Sogei, la società del ministero dell'Economia a cui è affidata la gestione del sistema informativo dell'Anagrafe tributaria si rileva che la propensione a evadere l'Irpef in Italia è al 13,5%.

Ecco, invece la maggioranza dei lettori che ha risposto al quiz pensa che gli evasori siano soprattutto lavoratori autonomi (54%), del Nord (47%), della fascia di età da 45 a 54 anni (47%) e con un evasione media dell'Irpef dovuta pari al 13,5 per cento.

Dicevamo che i più inclini a evadere (83,7%) sono i cosiddetti rentier, cioè coloro che vivono di rendita, che sottraggono al fisco 17.824 euro (secondo Bankitalia il reddito netto pro capite è di 21.286 euro e secondo Sogei di 3.462 euro), seguiti da lavoratori autonomi e imprenditori (56,3%) che evadono 15.222 euro (secondo Bankitalia il reddito netto pro capite è di 27.020 euro e secondo Sogei di 11.798 euro) e lavoratori autonomi con lavoro dipendente o con pensione (44,6%) che in media non dichiarano al fisco 16.373 euro (36.745 euro reddito registrato da Bankitalia contro 20.372 euro rilevato da Sogei).

In linea generale se si raffronta il reddito netto pro capite registrato dalla Banca d'Italia (15.440 euro) con il reddito netto pro capite indicato da Sogei (13.356 euro), l'imponibile sottratto mediamente al fisco è di 2.093 euro pari appunto al 13,5 per cento.

I meno propensi a evadere sono invece i lavoratori dipendenti (-1,6%), i pensionati (-0,6%) e i pensionati con lavoro dipendente (-7,7%).

Per quanto riguarda, invece, l'evasione Irap e Iva, secondo le rilevazioni della Corte dei Conti citate dalla Banca d'Italia, nella media del triennio 2007-2009 il gettito evaso dell'Irap è stato pari al 19,4% di quello potenziale e si è concentrato nel settore dei servizi; escludendo la Pa tale valore sale al 21,6%. Per questo tributo la propensione a evadere è più elevata al Sud (29,4%), seguono il Centro (21,4%9 e Nord (14,7%). Secondo le stime dell'agenzia delle Entrate la differenza tra il gettito effettivo dell'Iva e quello potenziale, è stata pari nel 2011 in Italia a circa il 28% di quest'ultimo. Come per l'Irap, la propensione a evadere è maggiore nel Mezzogiorno.

  14 marzo 2014