Se nasce la Renzi Coalition
Marco Damilano
su Finemondo
| 13 marzo 2014
A
chiudere gli
occhi, certo, sembrava di ascoltare il fin troppo noto modello
dell’ultimo
ventennio, “Una casa per tutti” come “Meno tasse per tutti”, “Un piano
per le
scuole” come le tre I (inglese, internet, impresa), “Il lavoro svolta”
come “Un
buon lavoro anche per te”… E poi vendesi auto usata (blu ministeriale),
spade
da samurai contro i gufi che pensano «non ce la può fare» e pesciolini
rossi,
«che volevate di più?» con l’aria di chi non vende sogni ma comode
realtà, come
recita lo slogan di una nota agenzia immobiliare. Solo che questa volta
non
eravamo nel pieno di una campagna elettorale, ma all’uscita di un
Consiglio dei
ministri, non c’erano i manifesti sei per tre affissi sui muri o uno
studio
televisivo da cui far partire contratti con gli italiani ma le slides
sul
pannello della sala conferenze stampa di Palazzo Chigi, il venditore di
sogni
non era un candidato premier ma il premier in carica. E da quelle false
promesse di Silvio Berlusconi sono passati tredici anni, invano. Mentre
Matteo
Renzi, di fronte a sé, ha un tempo breve per dimostrare che non è solo
un nuovo
e più giovane Vanna Marchi della politica. Una verifica immediata.
Cento
giorni.
Cento
giorni è
l’evocazione di un modello che non abita ad Arcore, va cercato altrove.
Una
citazione nascosta, una scopiazzatura, una suggestione. Il modello va
cercato
oltreoceano e indietro nel tempo, all’inizio degli anni Trenta. Il
presidente
americano che cominciò il suo mandato con un discorso tra i più famosi
della
storia: «Sono convinto se c’è qualcosa da temere è la paura stessa, il
terrore
sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo
sforzarci di
trasformare una ritirata in una avanzata…». Era Franklin Delano
Roosvelt,
eletto nel 1932, nel bel mezzo della grande depressione, che rilanciò
l’economia con le misure dei cento giorni, il New Deal, il nuovo patto.
Era un
grande comunicatore, non usava twitter ma si rivolgeva agli elettori
parlando
alla radio, con i “discorsi dal caminetto”. Aveva in mente una dottrina
economica, quella keynesiana. E un blocco sociale di riferimento: la
coalizione
roosveltiana, democratica, che dominò la politica americana per
decenni.
Sostituita, solo negli anni Ottanta, dalla rivoluzione conservatrice
del
repubblicano Ronald Reagan: la Reagan Coalition.
In
molti hanno
provato a imitarlo. Anche il celebratissimo Barack Obama, come dimostra
questa
copertina di “Time” del 2008, al momento della prima elezione a
presidente:
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Non è andata
bene a Obama, figuriamoci a Renzi che non è certo Roosvelt e che semmai
può
accarezzare un riferimento più vicino. C’era una volta
l’interclassismo, parola
magica della Democrazia cristiana al governo per decenni: rappresentare
insieme
contadini e operai, piccoli imprenditori settentrionali e pubblico
impiego,
soprattutto il grande, infinito ceto medio italiano indispensabile per
governare il Paese. A questo blocco sociale si contrapponeva quello
della
sinistra che ruotava attorno al Pci. Negli ultimi venti anni, quelli
della
Seconda Repubblica, gli unici che hanno provato a definire e a
rappresentare un
blocco sociale di riferimento sono stati Berlusconi e la Lega. Forza
Italia è
stata un partito di plastica attorno a un Capo ma aveva un’idea
precisa, feroce
degli interessi che intendeva tutelare, la Padania era una creatura
della
fantasia che copriva solidissime realtà sociali in cerca di partiti che
a Roma
difendessero le ragioni del «territorio». Mentre, negli stessi anni, la
sinistra ha quasi totalmente smarrito un’idea sull’Italia da
rappresentare. Ha
sostituito l’ideologia con la cinematografia. Ha confuso la conquista
del
centro della società con l’inciucio con il centro del Palazzo, con
Casini, o
con il centro storico o con il centro Italia, l’immaginario della
Meglio
gioventù. È rimasta a coltivare sentimentalmente i riferimenti sociali
del
passato, o ha inseguito una visione tutta politicistica, alleanze di
vertice,
della rappresentanza politica.
Incredibile,
anzi «in-cre-di-bil-le», come ha detto lui accentuando il tono da
banditore,
che sia Renzi il leggero, Matteo il superficiale, a coltivare un’idea
pazzesca
che va ben al di là del pacchetto annunciato ieri: ricostruire un
blocco
sociale, una coalizione di consenso non politica ma sociale. Eppure nel
piano
dei cento giorni, nei referenti individuati come destinatari delle
misure
economiche, questa ambizione è ben visibile. I dieci miliardi per dieci
milioni
di italiani che guadagnano meno di 1500 euro al mese arrivano a un ceto
medio
diffuso e impoverito, il più aggredito dalla crisi negli ultimi anni,
dimenticato dalla destra berlusconiana, dai tecnici ma anche dalla
sinistra
vecchio stile. Il pacchetto lavoro, il Jobs Act che fa tanto America,
parla ai
giovani senza lavoro, flessibili ormai per condizione esistenziale più
che scelta
o per costrizione. Il taglio dell’Irap finanziato con l’aumento della
tassazione sulle rendite finanziarie è, addirittura, una cosa di
sinistra
(«riequilibrio, equità», dice Renzi) mescolata con una di destra:
Bertinotti e
Berlusconi insieme. Perfino l’istituzione di un fondo di cinquecento
milioni
per le imprese sociali è un amo lanciato alla Compagnia delle Opere e
alla Lega
Coop, ben piazzate nel governo con i ministri Lupi e Poletti. Un
tassello
dell’obiettivo che Renzi vuole costruire: una grande coalizione, non
nel
Palazzo, ma nel Paese. Non la coalizione alla tedesca, tra partiti, ma
all’americana, nella società. Una larga intesa che non si salda con le
alchimie
di gruppi parlamentari inesistenti nella società ma parlando agli
italiani
smarriti e senza riferimenti politici. Quasi tutti, ormai.
Nessuno
meglio
di lui, negli ultimi decenni, può riuscirci, nessuno più del
post-ideologico
Matteo Renzi. Con la sua indifferenza ai dettagli (le coperture? il
provvedimento in cui arrivano i mille euro? boh… la riforma del Senato
con i
ventuno nominati dal presidente della Repubblica per sette anni: e
perché non
ventidue, come i convocati in Nazionale?) e la sua identità politica
oltre la
destra e la sinistra. Con la sua disinvoltura istituzionale (i ministri
lasciati in piedi ad ascoltare il Verbo) e il presidenzialismo di
fatto. Perché
la Dc conquistava una maggioranza relativa di italiani ma il suo
serbatoio di
voti aveva un limite nella guerra fredda e nella presenza fortissima e
ben
organizzata del Pci e nella laicità di chi non voleva morire
democristiano.
Berlusconi ha colonizzato le speranze di una parte degli italiani, ma
tutto il
resto lo ha ritenuto un virus da cui liberarsi. In più, fin dalla
discesa in
campo, ha spaccato gli italiani, di qua o di là, la scelta di campo, o
con me o
con la morte e la distruzione, i comunisti, aveva recuperato la parola
destra
uscita dal vocabolario italiano dopo il fascismo. Mentre Renzi è un
autentico
leader generalista, è la Rai democristiana e la Mediaset berlusconiana
insieme.
Gli anni Cinquanta, con quel sapore di ottimismo che precedeva il boom
economico e anche quell’intolleranza soft verso il dissenso, «il
disfattismo»
(ma nessun democristiano avrebbe chiamato un giornalista per chiedergli
di
ritirare il pezzo e minacciando di quererarlo come ha fatto con Lucia
Annunziata Madonna Maria Elena Boschi che tanto gentile e onesta
appare: prenda
esempio da Giulio Andreotti che è entrato al governo più giovane di lei
e che
non ha mai querelato nessuno) e gli anni Ottanta. Tra De Gasperi e gli
U2, come
si intitolava un aureo libretto del futuro premier.
Il
suo è un
interclassismo liquido, gassoso e perciò pervasivo, in grado di
infilarsi
ovunque, nel vuoto lasciato a destra dagli ex berlusconiani allo
sbando, i
grillini delusi, perfino in una parte di sinistra priva di bussola e di
identità. Renzi è il primo leader potenzialmente senza confini
elettorali
pre-definiti, in grado di acchiappare ovunque. E dunque è ozioso
sovrapporre
l’immagine del venditore di Pontassieve a quella del piazzista di
Arcore.
Quello che più interessa ora è vedere se riuscirà a incrociare il
solido e il
pesante, gli interessi e i valori di una parte degli italiani. Se ce la
fa,
nasce la coalizione renziana, la Renzi Coalition, in grado di durare
decenni.
Se invece tra cento giorni tutto svanisce in una nuvola di cerone o si
esaurisce in un tweet, altro che new deal roosveltiano, Renzi perderà
disastrosamente le elezioni europee, proverà a riprendersi la rivincita
anticipando le elezioni politiche. E amen.
L'evasione
che non ti aspetti: ecco
perché gli
italiani non sanno chi sfugge davvero al Fisco
Enrico Bronzo
su il Sole 24 Ore
| 11 marzo 2014
Sono
30mila
circa le persone che hanno risposto al quiz sull'evasore medio
italiano. In
generale si può dire che il fenomeno sia molto seguito e che la gente
pensa di
conoscerlo ma questo quiz sfata molti luoghi comuni. Come quello che
siano i
lavoratori autonomi, magari del Nord, ad evadere di più. Non è così, ma
andiamo
per ordine, partendo dal sesso che sulle cinque domande del test è
stata
l'unica a essere stata indovinata: la propensione degli uomini italiani
a
evadere l'Irpef è del 17,3% contro il 9,9% delle donne.
Questi
invece
sono gli altri elementi che completano il profilo dell'evasore medio: è
uomo,
under 44, risiede nel Centro Italia, generalmente vive di rendita e, in
media,
sottrae al fisco 2.093 euro. È quanto emerso dalle tavole presentate
dalla
Banca d'Italia nel corso di un'audizione in Senato. Confrontando i dati
di
un'indagine Bankitalia con quelli della Sogei, la società del ministero
dell'Economia a cui è affidata la gestione del sistema informativo
dell'Anagrafe tributaria si rileva che la propensione a evadere l'Irpef
in
Italia è al 13,5%.
Ecco,
invece
la maggioranza dei lettori che ha risposto al quiz pensa che gli
evasori siano
soprattutto lavoratori autonomi (54%), del Nord (47%), della fascia di
età da
45 a 54 anni (47%) e con un evasione media dell'Irpef dovuta pari al
13,5 per
cento.
Dicevamo
che i
più inclini a evadere (83,7%) sono i cosiddetti rentier, cioè coloro
che vivono
di rendita, che sottraggono al fisco 17.824 euro (secondo Bankitalia il
reddito
netto pro capite è di 21.286 euro e secondo Sogei di 3.462 euro),
seguiti da
lavoratori autonomi e imprenditori (56,3%) che evadono 15.222 euro
(secondo
Bankitalia il reddito netto pro capite è di 27.020 euro e secondo Sogei
di 11.798
euro) e lavoratori autonomi con lavoro dipendente o con pensione
(44,6%) che in
media non dichiarano al fisco 16.373 euro (36.745 euro reddito
registrato da
Bankitalia contro 20.372 euro rilevato da Sogei).
In
linea
generale se si raffronta il reddito netto pro capite registrato dalla
Banca
d'Italia (15.440 euro) con il reddito netto pro capite indicato da
Sogei
(13.356 euro), l'imponibile sottratto mediamente al fisco è di 2.093
euro pari
appunto al 13,5 per cento.
I meno
propensi a evadere sono invece i lavoratori dipendenti (-1,6%), i
pensionati
(-0,6%) e i pensionati con lavoro dipendente (-7,7%).
Per quanto
riguarda, invece, l'evasione Irap e Iva, secondo le rilevazioni della
Corte dei
Conti citate dalla Banca d'Italia, nella media del triennio 2007-2009
il
gettito evaso dell'Irap è stato pari al 19,4% di quello potenziale e si
è
concentrato nel settore dei servizi; escludendo la Pa tale valore sale
al
21,6%. Per questo tributo la propensione a evadere è più elevata al Sud
(29,4%), seguono il Centro (21,4%9 e Nord (14,7%). Secondo le stime
dell'agenzia delle Entrate la differenza tra il gettito effettivo
dell'Iva e
quello potenziale, è stata pari nel 2011 in Italia a circa il 28% di
quest'ultimo. Come per l'Irap, la propensione a evadere è maggiore nel
Mezzogiorno.
14 marzo
2014