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30 aprile 2014


Aldrovandi, al congresso del Sap ovazione agli agenti condannati
La madre: «Voltastomaco». Renzi le telefona: «Indegno» Alfano: «Gravissimo». Pansa: «Offensivo». Il sindacato di polizia ribatte: «Danno infinito ai nostri colleghi».
sul Corriere della Sera

applausi

BOLOGNA - Sono gli agenti condannati per l'uccisione del diciottenne Federico Aldrovandi le star del congresso nazionale del Sap, il secondo sindacato di polizia dopo il Siulp, in corso al Grand Hotel di Rimini. È bastato che la loro presenza fosse annunciata, martedì pomeriggio, perché la sala si sciogliesse in un lungo e liberatorio applauso dei colleghi, con tanto di standing ovation. Comportamento fortemente criticato dal governo e dal capo della polizia.
GLI AGENTI CONDANNATI PER IL CASO ALDROVANDI -
 Al congresso del Sap partecipano tre dei quattro agenti, Paolo Forlani, Luca Pollastri ed Enzo Pontani. Non c'era la l'unica donna coinvolta, Monica Segatto. Tutti e quattro sono stati condannati a tre anni e mezzo per omicidio colposo per quanto avvenne la notte del 25 settembre 2005 a Ferrara, quando un banale controllo di polizia sul giovane Aldrovandi che rientrava da una serata a Bologna si concluse con la morte di quest'ultimo. Nel 2012 la Corte di Cassazione ha confermato le condanne. Tre anni erano coperti dall'indulto ma gli agenti hanno scontato in carcere parte dei sei mesi residui, come raramente accade a condannati fino a quel momento incensurati, e per questo hanno trovato un'ampia solidarietà nella categoria. Decine di colleghi appartenenti al Sap e ad altri sindacati, naturalmente in borghese, li hanno letteralmente scortati, nei mesi scorsi, alle diverse udienze tenute al tribunale di sorveglianza di Bologna che doveva decidere sull'esecuzione della pena. È nota la polemica scatenata nel marzo 2013 a Ferrara da una manifestazione organizzata dal Coisp, piccola organizzazione appartenente come il Sap alla galassia del sindacato autonomo di polizia, proprio sotto le finestre degli uffici comunali in cui lavora Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi. Il questore del capoluogo estense è stato successivamente trasferito.
LA MAMMA DI FEDERICO: «TERRIFICANTE» -Proprio Patrizia Moretti ha commentato con sgomento l'ovazione tributata a Rimini ai responsabili dell'omicidio di suo figlio. «È terrificante, mi si rivolta lo stomaco - ha detto – Cosa significa? Che si sostiene chi uccide un ragazzo in strada? Chi ammazza i nostri figli? È estremamente pericoloso». Poi su Facebook ha aggiunto: «Provo ribrezzo per tutte quelle mani. Pansa era li?». Il capo della polizia, ospite del congresso in mattinata, era già andato via.
RENZI: «INDEGNO»; ALFANO: «GRAVISSIMO» -
 La madre di Federico ha ricevuto in serata una telefonata dal premier Matteo Renzi, che ha voluto esprimerle solidarietà per «l'indegna vicenda». E anche per il ministro dell'Interno,Angelino Alfano, «gli applausi sono un gesto gravissimo e inaccettabile che offende la memoria di un ragazzo che non c'è più e rinnova il dolore della sua famiglia. Applausi che danneggiano la polizia e il suo prestigio».
IL CAPO DELLA POLIZIA: «OFFENSIVO» -
 Duro anche il capo dello polizia Alessandro Pansa, che al momento degli applausi a Rimini aveva come detto lasciato la sala dopo aver parlato delle «nuove regole d'ingaggio» in ordine pubblico che si rendono necessarie dopo gli abusi documentati in occasione degli incidenti dello scorso 12 aprile a Roma. Pansa ha espresso «vicinanza e solidarietà» alla madre di Federico «non riconoscendosi in alcun modo in comportamenti che trova gravemente offensivi nei confronti della famiglia Aldrovandi e della società civile che crede nell'operato delle donne e degli uomini della polizia».
IL SAP: «DANNO INFINITO AI COLLEGHI» -
 Ma il segretario generale del Sap, Gianni Tonelli, replica: «L'onorabilità della Polizia di Stato è stata irrimediabilmente vilipesa e solo una operazione di verità sarà in grado di riscattare il danno patito. Alla stessa stregua i nostri colleghi, ingiustamente condannati, hanno patito un danno infinito». Tonelli ritiene «affrettati alcuni giudizi espressi». E insiste: «Quattro vite sono state rovinate dai danni subiti». Perché, a suo giudizio. «la morte di chiunque è un evento infausto, ma non necessariamente la colpa deve essere attribuita a qualcuno: migliaia di giovani ogni anno muoiono alla guida dei loro automezzi, ma non per questo la colpa è delle strade. Porre una pietra sopra all' accaduto, ci pare una soluzione troppo comoda». Il Sap chiede, in sostanza, «il giudizio di revisione: è un diritto dei nostri colleghi e intendiamo sostenerli su questo percorso».
LA POLEMICA POLITICA -
 E la polemica non finisce qui. Sul versante politico, il Pd, con il responsabile sicurezzaEmanuele Fiano, definisce «inaccettabile» l'ovazione al congresso del Sap. E il coordinatore nazionale di Sel, Nicola Fratoianni, parla di «applausi agli assassini di Federico Aldrovandi agghiaccianti e inaccettabili. Chi applaude quegli agenti applaude ad un crimine vergognoso e non è certo degno di vestire una divisa. Non si può accettare che chi è chiamato a garantire la sicurezza dei cittadini possa compiere gesti terribili come quello di oggi». Dall'altra parte, Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord, scrive su Facebook: «Polemiche contro i Poliziotti del Sap che hanno osato applaudire dei loro colleghi condannati. Io sto con i Poliziotti, con i Carabinieri, e con chiunque rischia la vita per difendere i Cittadini». Per Ignazio La Russa, «se quell'applauso va ai poliziotti che spesso sono oltraggiati, capisco la rabbia che esplode in quell'applauso. Certo però non era il momento migliore». «Bisogna inchinarsi di fronte alla sentenza», dice invece l'ex ministro dell'Interno e ora governatore della Lombardia, Roberto Maroni: «Non commento queste cose - risponde a una domanda a Radio Capital - Sono sempre stato dalla parte dei poliziotti, nel senso che ho sempre difeso l'operato delle forze dell'ordine spesso mandate allo sbaraglio, purtroppo, in piazza», prosegue Maroni precisando che «è ovvio che quando c'è una sentenza di condanna che ha riconosciuto la responsabilità, bisogna inchinarsi di fronte alla sentenza» e che «in questo caso specifico mi pare che i fatti siano stati accertati».
LA PROTESTA SUI SOCIAL -
 Monta, infine, anche la protesta sui social network: commenti negativi sia sulla pagina della mamma di Federico Aldrovandi, sia su Twitter, segnati con l'hashtag #vialadivisa, nome di un movimento che, lo scorso 15 febbraio a Ferrara aveva chiesto, nel corso di una manifestazione, la radiazione degli agenti coinvolti nella vicenda.



683 condanne a morte in Egitto:
notizia agghiacciante che l'Europa finge di ignorare
Gad Lerner sul suo blog

disperazione

Pochissimi giornali italiani riportano oggi col dovuto risalto in prima pagina la notizia agghiacciante della condanna a morte simultanea di 683 militanti dei Fratelli Musulmani detenuti in Egitto. Fra i condannati anche la loro guida religiosa, Mohammed Badie (fatto questo che potrà avere conseguente gravissime sui comportamenti futuri degli affiliati).
In contemporanea, il regime militare del presidente-generale al-Sisi ha messo fuorilegge anche il Movimento 6 aprile, cioè la componente laica della rivolta popolare che ha avuto per epicentro piazza Tahrir nel 2011.
Se l'occidente ritenesse di affidarsi alla repressione feroce di al-Sisi per stabilizzare una regione in fiamme, commetterebbe l'ennesimo tragico errore. La messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani è stata una risposta avventurosa e imprudente alla prepotenza totalitaria di quel movimento, che è radicato nella società egiziana ma al tempo stesso la divide profondamente. Le condanne a morte ora aprono una contrapposizione drammatica, una guerra di fatto all'interno del mondo arabo sunnita. Gli Stati Uniti e L'Unione Europea si illudono se pensano di girare la testa dall'altra parte, lasciando fare il lavoro sporco a al-Sisi.
I Fratelli Musulmani sono una realtà scomoda, un pericolo antidemocratico, ma bisogna farci i conti con un uso responsabile della forza che non snaturi i principi e le procedure della democrazia. Affidarsi a gendarmi come al-Sisi porta poi alla repressione delle componenti più aperte e laiche, come il Movimento 6 aprile. E' questo che vogliamo?



La guerra dell'acqua contro il voto in Iraq
Bloccato l'Eufrate Chiuse le dighe: inondazioni e profughi
Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera


Tigri e Eufrate

BAGDAD — Acqua, acqua dovunque, un gigantesco allagamento per le campagne, che sfiora la periferia occidentale della capitale. Arrivando in aereo da Amman non puoi non notarlo. Ti aspetti di individuare dall'alto, tra il giallo scuro e monotono del deserto sassoso, le lunghe code di vetture ferme ai controlli imposti dalla polizia in vista delle elezioni parlamentari di domani e invece è come se improvvisamente Bagdad fosse diventata un città lacustre. Passata Falluja e poco prima di Abu Ghraib — dove si trovava il terribile carcere voluto da Saddam Hussein trent'anni orsono, poi diventato sinonimo delle violenze americane contro i prigionieri iracheni — l'autostrada per la Giordania si interrompe e inizia la distesa piatta e melmosa dell'inondazione. Ogni tanto un canale più profondo, abitazioni isolate, alberi semi sommersi, macchie di cespugli alti. «E' cominciato tutto ai primi di aprile. I guerriglieri del gruppo estremista noto come lo Stato Islamico in Iraq e del Levante, attaccati dai soldati delle brigate scelte sciite inviate dal governo di Nuri al Maliki, hanno optato di rispondere chiudendo le dighe sull'Eufrate. Ma è una catastrofe. Abbiamo oltre 100.000 profughi in fuga verso nord. L'agricoltura, il commercio, le scuole, ogni possibilità di movimento sono impediti», ci racconta Jaber Jabari, ex deputato per le liste sunnite al parlamento nazionale che risiede a Falluja e incarna il dramma di queste popolazioni strette tra l'incudine della guerriglia estremista, sempre più legata a filo doppio con i militanti islamici siriani che combattono il regime di Bashar Assad, e invece la maggioranza sciita degli iracheni. Per qualche giorno le truppe regolari sono riuscite a riprendere il controllo delle chiuse. Ma da una settimana hanno dovuto ritirarsi. E l'acqua ha ripreso a salire, mentre il corso del fiume più a sud è tornato ad essere in secca. Non è un caso che lo stesso carcere di Abu Ghraib sia stato evacuato due settimane fa e i detenuti distribuiti in altre prigioni. Era minacciato dalla guerriglia e soprattutto dall'inondazione.
Una guerra delle acque che rischia di scatenare il disastro ecologico, non solo sull'Eufrate. E' infatti del 16 aprile l'attentato degli estremisti sunniti presso la raffineria di Beji (nella zona di Tikrit, 220 chilometri a nord di Bagdad) contro l'oleodotto che dai pozzi del sud porta il greggio in Turchia. Una chiazza nera gigantesca ha così inquinato gran parte del corso centrale del Tigri. A poco sono serviti i tentativi di ridurla incendiandola. I depuratori civili che pescano dal fiume e forniscono la rete idrica della capitale si sono dovuti fermare. «E' un dramma. Il Tigri e l'Eufrate sono il Nilo della Mezza Luna Fertile. Blocchi o inquini il corso del fiume e il Paese muore», notano fonti diplomatiche occidentali nella capitale. Ma le notizie sono frammentarie, vengono nascoste, sminuite. Il governo non vuole causare allarmismi ulteriori, che si aggiungerebbero all'emergenza attentati.
Tempo di elezioni nell'Iraq ancora gravemente traumatizzato dalle conseguenze dell'invasione americana del 2003. E' la quarta volta che i suoi cittadini (circa 21 milioni gli aventi diritto al voto) vanno alle urne per eleggere i 328 deputati del parlamento dalla caduta del regime di Saddam. Ed è la prima dal ritiro dei militari Usa nel 2011. Sul fronte politico il carosello variopinto di manifesti elettorali, gli oltre 9.000 candidati (quasi un terzo donne), i 277 gruppi politici, in grande maggioranza del tutto sconosciuti, riflettono la partecipazione caotica ed eccitata che abbiamo già visto caratterizzare i Paesi usciti di fresco dalle dittature, ma privi di una solida tradizione democratica. Maliki ha fatto carte false pur di restare in sella (dopo otto anni) e venire rieletto per la terza volta. Eppure il campo sciita (quasi il 70 per cento dell'elettorato) è oggi più diviso che mai. Come del resto lo sono i curdi nell'enclave de facto indipendente del nord e gli stessi sunniti. «Nessuno tra i nostri politici ha il coraggio di dirlo pubblicamente. Ma nel concreto l'Iraq sta andando a grandi passi verso la divisione netta in tre Stati indipendenti. Siamo ancora assieme semplicemente perché non troviamo leader abbastanza competenti per garantirci una partizione ordinata. Temiamo talmente le nostre debolezze che vi affoghiamo dentro», ci confidava due giorni fa il 43enne Ahmad Zanghenk, commentatore politico per Al Rasheed, una delle quattro maggiori televisioni private. Conseguenza diretta è il permanere della guerra civile strisciante, alimentata dal braccio di ferro tra Iran e Arabia Saudita per l'egemonia sulla regione combattuto direttamente sul territorio iracheno. I dati parlano da soli. Dopo la calma relativa imposta manu militari dagli americani tra il 2008 e il 2011, il tasso della violenza ha ripreso a crescere. Oltre 9.000 gli iracheni morti nel 2013. Meno della media di oltre 3.000 mensili nel 2006. Ma certo un bilancio grave. Dal gennaio di quest'anno è stata superata quota 3.000, di cui circa 600 tra soldati e poliziotti, compresa la trentina di uccisi ieri, aggrediti mentre stavano in coda per votare ai seggi aperti appositamente per loro al fine di garantire la totale mobilitazione mercoledì.
«Siamo sull'orlo del caos. E la nuova guerra delle acque dimostra quanto troppi giovani non abbiano più nulla da perdere. Allagano le loro case pur di danneggiare il governo. Danneggiano se stessi e non se ne curano», notano ancora i diplomatici stranieri. Non ci sono dati verificabili. Quello che risulta certo è però che già il sud del Paese ne sta risentendo in modo diretto. «Il livello dell'Eufrate è sceso in modo considerevole. A Nassiriya segnalano già carenze idriche, e così pure a Bassora. Circa 200 villaggi nella provincia di Al Anbar, come pure Abu Ghraib sono inondati», nota il quotidiano locale Azzaman. Se la piena non venisse fermata, potrebbe rimanere sommerso l'aeroporto internazionale della capitale. Al Amiryia, uno dei quartieri occidentali di Baghdad, vede già gli abitanti mobilitati per l'esodo.


  30 aprile 2014