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sulla stampa
5 maggio 2014

freemedia

Solo 1 persona su 7 vive in un Paese con una stampa “libera”
Italia 64esima insieme a Namibia, Nauru e Cile
Umberto Mazzantini su www.greenreport.it | 5 maggio 2014

 Secondo il rapporto  Freedom of the Press 2014 di Freedom House, la libertà di stampa globale è scesa al livello più basso da oltre un decennio. Secondo il rapporto, «La flessione è stata determinata in parte dalla regressione della libertà in diversi Stati del Medio Oriente, tra cui Egitto, Libia e Giordania; marcate  battute d’arresto in Turchia, Ucraina, e un certo numero di Paesi dell’Africa orientale; e dal deterioramento nell’ambiente relativamente aperto e del sostegno ai media negli Stati Uniti».

Stampa davvero libera in Europa in Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda, Danimarca/Groenlandia, Gran Bretagna, Irlanda, Francia,Spagna, Portogallo, Svizzera, Austria, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo, Malta, Cipro, Andorra, Liechtestein, Monaco, San Marino. L’Italia è a 31 punti, come la Namibia, Nauru e il Cile.

L’Europa è  laregione che vanta il più alto livello di libertà di stampa, ma il punteggio medio regionale ha registrato il secondo più grande calo del  mondo nel 2013., in particolare per gli attacchi alla stampa ed ai nuovi media in Turchia, Grecia, Montenegro e Gran Bretagna. In Italia  la situazione è leggermente migliorata con l’uscita di Silvio Berlusconi dal governo,  ma «Rimane tra i parzialmente liberi».

In Eurasia (ex Urss) il  97%  delle persone vive in ambienti Not Free media. In  Russia le condizioni di libertà di stampa non sono buone, l’agenzia di stampa Ria Novosti è passata sotto il totale controllo del governo che ha promulgato ulteriori restrizioni legali alla libertà di parola online. L’Ucraina nel 2013 è stata declassata a “Not Free” soprattutto a causa degli attacchi contro ai giornalisti che hanno coperto prima le proteste di Euromaidan ed ora quelle filo-russe. Un’’ulteriore erosione della libertà di stampa ha avuto luogo in Azerbaigian, mentre sviluppi positivi co sono stati in Kirghizistan e in Georgia.

In America in  Canada, Usa, Giamaica, Belize, Bahamas, Barbados, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadines, Saint Kitts e Nevis, Grenada, Dominica, Trinidad e Tobago, Costarica, Suriname, Uruguay. Nelle Americhe la media regionale è al livello più basso  degli ultimi 5 anni, e solo il 2% della popolazione dell’America Latina  vive in un ambiente mediatico libero. I cali più grossi per la libertà di stampa sono avvenuti in Honduras, Panama, Suriname e Venezuela, mentre è migliorato il punteggio del Paraguay. Le condizioni negli Usa si  sono deteriorate soprattutto per i tentativi del governo di inibire le notizie sulle questioni di sicurezza nazionale.

In Africa la piena libertà di stampa esiste solo a Capo Verde, Ghana, Sao Tomè e Pincipe, Mauritius.

In Medio Oriente e Nord Africa solo il 2% della popolazione vive in ambienti con  media liberi, mentre la stragrande maggioranza, l’84% vive in paesi o territori non liberi. I regressi peggiori ci sono stati in Libia ed Egitto, mentre un deterioramento significativo ha avuto luogo in Giordania e in misura minore in Iraq ed Emirati Arabi Uniti. La libertà di stampa è ulteriormente diminuita in Siria, nel bel mezzo di una guerra civile particolarmente brutale che pone enormi pericoli per i giornalisti. Miglioramenti solo in Algeria,  Yemen, la Cisgiordania e Striscia di Gaza e Israele, che torna tra i Paesi v con la stampa totalmente libera.

Nell’Africa sub-sahariana la maggioranza delle persone (56%) vive in Paesi con  media parzialmente  liberi. Nel 2013 i miglioramenti giuridici ed economici sono stati bilanciati da peggioramenti di tipo politico, in particolare per i giornalisti la situazione si è fatta più difficile in  Sud Sudan e Zambia,  Repubblica Centrafricana ed in diversi Paesi dell’Africa orientale, tra cui Kenya, Mozambico, Tanzania e Uganda. L’Africa occidentale ha visto una serie di miglioramenti, compresi quelli in Costa d’Avorio,  Mali, Senegal e Togo. Un miglioramento della classifica lo hanno fatto registrare anche Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Seychelles e Zimbabwe.

In Oceania godono di libertà di stampa Australia, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Palau, Isole Marshall, Micronesia, Vanuatu, Tuvalu, Tonga, Kiribati, Samoa  In Asia un vera Libertà di stampa c’è solo in Giappone,  Taiwan ed Israele (ma qui siamo al limite, proprio davanti all’Italia).

Nonostante l’ottima performance democratica di praticamente tutta l’Oceania, nell’Asia-Pacifico solo il 5% della popolazione ha libero accesso ai mezzi di informazione. La Cina continua a reprimere la circolazione di notizie online, in particolare sui microblog, ed ha aumentato la pressione sui giornalisti stranieri. La libertà di stampa si è deteriorata ad Hong Kong, India, Sri Lanka, Thailandia, e molti Stati insulari del Pacifico, tra cui Nauru, che è stato declassati.  Birmania e  Nepal registrano un miglioramento del loro punteggio.

Per Freedom of the Press 2014, nonostante  gli sviluppi positive in un certo numero di Paesi, in particolare nell’Africa sub-sahariana, i trend dominanti riflettono battute di arresto in ogni altro continente.

Il paradiso della libertà di stampa è l’Europa: la top ten vede ai primi tre posti a pari merito Olanda, Norvegia e Svezia, seguono Belgio e Finlandia, Danmarca/Groenlandia Islanda, Svizzera e Lussemburgo, e chiude Andorra. Gli Usa sono solo al 30esimo posto. Per trovare l’Italia bisogna scendere al 64esimo.

All’ultimo posto, 197eseima c’è la Corea del nord, preceduta da Uzbekistan, Turkmenistan, Eritrea, Bielorussia, Iran, Cuba, Guinea Equatoriale, Siria, Bahrain.  La Cina è poco lontana, 183esima, separata dai peggiori 10 solo da Vietnam e Kazakistan. La Cina e la Russia (176esima insieme a Sudan ed Etiopia) hanno mantenuto uno stretto controllo sui media locali, mentre tentano anche di controllare i punti di vista più indipendenti sia nella blogosfera che da fonti di notizie straniere.


 
In campo la storia si ripete
John Foot su Internazionale | 5 maggio 2014

Dopo i fatti avvenuti allo stadio Olimpico il 3 maggio, avrei potuto semplicemente segnalare un altro articolo scritto in passato, perché non è cambiato nulla. Non cambia mai niente nel mondo del calcio italiano. L’altra sera, però, è stata esemplare: un esempio dell’ordinaria follia di questo sport che è circondato da una logica che lo porta verso l’autodistruzione, pochi giorni dopo la notizia che l’Italia è ormai dietro perfino al Portogallo nella classifica europea.

Un film già visto. Ecco quello a cui abbiamo assistito (otto milioni di spettatori in Italia, più altri all’estero, poverini). Prima le notizie (contrastanti) sugli scontri in città tra i tifosi, poi addirittura gli spari e le persone ricoverate in ospedale in codice rosso. Poi la confusione totale. I tifosi (ultrà e no) sono dentro lo stadio. Ci sono anche Matteo Renzi e altri vip. Twitter comincia ad agitarsi. I giornali pubblicano informazione e disinformazione.

Fin qui è tutto abbastanza normale (a parte gli spari, esagerati perfino per il calcio). Ci sono scontri ogni settimana, e accoltellamenti intorno allo stadio, soprattutto a Roma. Non fanno neanche notizia, ormai. Ma questa è una partita importante, e la possibilità che ci sia una persona morta cambia le carte in gioco. È morto o non è morto? Se è morto, giochiamo? Comincia il solito discorso sul giocare o non giocare, come se la partita fosse la cosa più importante, quasi sacra, in grado di “portare l’ordine” ed “evitare il caos”.

Arriva in campo un miliardario. Il capitano del Napoli, Marek Hamšík. Quello con la cresta (che più tardi diventerà blu). Hamšík è scuro in faccia, sembra che abbia quasi paura. Va verso la curva. Che sta facendo? Perché sta parlando con quel tifoso grosso, con i tatuaggi e la maglietta con scritto “Speziale libero”? Molti vanno sul Google per scoprire chi è Speziale. È l’uomo condannato in via definitiva per l’uccisione di un poliziotto, Filippo Raciti, fuori da un (altro) stadio. Otto milioni di italiani assistono a questa scena, incluso Matteo Renzi. Di che stanno parlando? È una trattativa o no? Chi comanda?

Il Corriere della Sera, il più blasonato giornale italiano, fa un titolo sul sito: “Ecco cosa è successo”. C’è un filmato sfocato in cui non si capisce assolutamente niente, privo di commenti. Giornalismo di alto livello, ma magari erano tutti fuori per il ponte.

I giornalisti parlano di clima surreale. Macché surreale: questa è l’assoluta normalità. Gli ultrà compiono i loro riti (striscioni abbassati eccetera) per mandare precisi segnali. Si gioca? Non si gioca? Gli scontri sono estranei al mondo del calcio o no? Ci sarebbero stati senza la partita o no? Poi segue la solita ondata di retorica. “Delinquenti, non tifosi”, “Queste scene non hanno niente a che fare con il calcio” (e invece sì), “Incredibile” (ma non e incredibile per niente, è la routine). Un altro tifoso si siede sopra la barriera. Sta lì, sospeso nel vuoto. Secondo il commentatore Mario Somma, ha “bisogno di spazio per dirigere i cori”.

Poi la decisione è presa. Da chi, non si sa. Ma sembra chiaro che il capo della tifoseria (un privato cittadino, come uno di noi) ha avuto qualche peso nella decisione. Ormai è una star, il suo nome fa il giro del web. È un soprannome: il grande, indimenticabile, Genny ’a carogna.

Poi si gioca una partita di calcio: ci sono tiri, passaggi, contrasti, fischi, espulsioni. Vince il Napoli, 3-1. Alzano la coppa. Adesso Hamšík ride. Ha tinto la cresta di blu. Ci sono perfino dei commenti tecnici. La sacralità è stata rispettata, anche se l’appello del papa è stato abbastanza inutile. E ora? Il solito, inutile, giro di retorica e ignoranza, con commenti (disinformati) sul modello inglese e il modello tedesco. A me fanno le stesse domande da vent’anni.

Un film già visto, come dicevo.

Basta leggere qualcosa sul passato. Ecco qualche indizio: Paparelli (1979), Heysel (1985), Claudio Spagnolo (1995), il derby del bambino morto (2004), Raciti (2007), Sandri (2007).

Aspettiamo la prossima volta. Sarà più o meno uguale.


 
Una Costituzione riscritta dai bidelli
L’Italicum vuole sfacciatamente favorire i due maggiori partiti. Il nuovo Senato è un pasticcio senza capo né coda, destinato a produrre solo caos. Questo accade quando le riforme finiscono in mano ai dilettanti
Marco Travaglio su l'Espresso | 5 maggio 2014

Appena uno si azzarda a mettere in dubbio la bontà della riforma elettorale “Italicum” o di quella del Senato, il premier e la sua vestale Maria Elena Boschi arrotano le boccucce a cul di gallina: «Il patto del Nazareno non si tocca». Trattasi dell’accordo siglato da Renzi e Berlusconi (attualmente detenuto ai servizi sociali) il 18 gennaio nella sede del Pd. Che, complice la toponomastica, evoca un che di sacrale: roba da tavole della legge, da arca dell’alleanza. Chiunque osi discostarsene - il presidente del senato Piero Grasso, o i giuristi di Libertà e Giustizia, o il mite Vannino Chiti trattato ormai come un brigatista rosso - viene subito bollato di “rosicone”, “gufo”, “professorone”, “solone milionario”, “conservatore” e nemico del “cambiamento”. Il fatto è che questo patto Ribbentrop-Molotov all’amatriciana tutti lo evocano, ma nessuno - a parte i due firmatari, più Boschi e Verdini - lo conosce. Renzi ha appena annunciato la “total disclosure” sulle stragi di 40-50 anni fa, cioè la revoca del segreto di Stato, che però copre al massimo fatti di 30 anni fa, escluse le stragi, dunque non esiste. Ma forse farebbe cosa più utile a desegretare il Patto del Nazareno, così finalmente sapremmo cosa c’è scritto e potremmo regolarci.

L'Italicum è notoriamente una boiata pazzesca che riproduce e talora peggiora i vizi del Porcellum, già bocciati dalla Consulta: liste bloccate con deputati nominati dai segretari di partito e premio di maggioranza-monstre per chi arriva primo, con spaventose soglie di sbarramento per escludere chi non s’intruppa. Però almeno si comprende la logica brutalmente partitocratica e semplificatoria dei due partiti - Pd e Forza Italia - che l’hanno partorito. La riforma del Senato, invece, è una porcata di cui sfugge pure la logica. E siccome persino Forza Italia se n’è resa conto, ed è sempre più tentata di appoggiare il testo di Chiti (che piace anche ai 5Stelle), è giocoforza chiederne conto agli unici genitori rimasti: Renzi e la Boschi.

Diamo pure per scontato ciò che non lo è affatto, e cioè che il nuovo “Senato delle autonomie” non sia più elettivo, non voti più la fiducia al governo e non possa esprimere che pareri consultivi sulle leggi votate dalla Camera (a parte quelle costituzionali). E cerchiamo di dare un senso alla sua nuova composizione: cioè alle modalità di accesso dei 148 senatori. I primi 21 li nomina il capo dello Stato (in aggiunta ai 5 senatori a vita): ma che senso ha che il 15 per cento dei membri del Senato li nomini una sola persona? Altri 21 saranno i governatori delle 19 regioni e i 2 presidenti delle province autonome di Trento e Bolzano. Altri 21 saranno i sindaci dei capoluoghi di regione e di provincia autonoma. Altri 40 verranno scelti fra i consiglieri regionali: 2 per regione. E altrettanti fra i sindaci: 2 per regione.

Ma perché mai tutta questa brava gente - in parte non eletta, in parte eletta per fare tutt’altro - dovrebbe approvare le leggi costituzionali ed eleggere il capo dello Stato, i membri del Csm e della Consulta? E, se tutti questi signori dovranno trascorrere metà della settimana a Roma, non rischiano di essere dei senatori e degli amministratori locali a mezzo servizio, svolgendo male l’un compito e l’altro? Siccome poi pochissimi saranno residenti a Roma e tutti gli altri in trasferta, andranno rimborsati per i viaggi e i pernottamenti nella Capitale, riducendo i già magri risparmi (50-80 milioni all’anno) ricavati dall’abolizione del Senato elettivo e retribuito. La Valle d’Aosta, poi, avrà tanti senatori quanti la Lombardia, che ha 80 volte i suoi abitanti, e così il Molise con la Campania, 20 volte più popolosa. Anche questa scemenza è scritta col sangue nel Patto del Nazareno, o se ne può discutere?

Infine, last but not least, il Senato dura cinque anni, ma nelle regioni e nei comuni si vota in ordine sparso, sicché ogni anno qualche governatore e sindaco perde il posto. E Palazzo Madama diventa un albergo a ore con le porte girevoli, dove si entra e si esce. E le maggioranze sono affidate al caso. O al caos.

Cose che càpitano quando, a furia di disprezzare i professori, la Costituzione la riscrivono i bidelli.


 
Il lavoro non si festeggia
Andrea Fumagalli su www.alfabeta2.it | 1 maggio 2014

Il 1° maggio (con l’eccezione degli Usa) è notoriamente la festa del lavoro. Il che significa che il lavoro va festeggiato ed è oggetto di festa. Un tempo, il lavoro veniva festeggiato in quanto strumento di emancipazione, in grado di fornire i mezzi monetari (reddito) e i diritti di cittadinanza per poter godere del tempo del non-lavoro, ovvero dell’ozio, nel suo più nobile significato (otium).

Era un tempo in cui la separazione tra lavoro e non lavoro era ben chiara e netta. Tale distinzione derivava da un’altra distinzione, funzionale al processo di accumulazione e valorizzazione capitalista: quella tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, da cui discendevano i parametri che decidevano quali attività umane dovevano essere remunerate in moneta e quali no (come, ad esempio, il lavoro di riproduzione).

Oggi tutta la vita è messa a lavoro e a valore, ovvero è vita produttiva, sempre più inserita nel processo di mercificazione che accomuna tutte le attività umane, da quella artistica a quella manuale. La svalorizzazione dell’attività creativa-cognitiva, emblema della produzione contemporanea, è oggi archetipo delle mutate condizioni di valorizzazione e delle trasformazioni del lavoro. Il lavoratore creativo-cognitivo, infatti, lavora tutto il giorno, ma viene pagato (e impiegato) solo raramente e, per di più, solo se è disposto ad alienare formazione e competenze in funzione della domanda e delle ideologie dei pochi committenti rimasti. Per il lavoratore creativo-cognitivo, il 1° maggio non può essere dunque la festa del lavoro.

Ma la stessa situazione la vive chi presta lavoro manuale. Le recenti vicende che hanno visto protagonisti i lavoratori, migranti e non, delle cooperative (molte delle quali legate a Lega Coop, il cui ex presidente è oggi ministro del lavoro), dalla Granarolo di Bologna, all’Ikea di Piacenza e all’Esselunga di Milano, solo per citare alcuni esempi, hanno evidenziato come il livello di precarietà e quindi di sfruttamento, con paghe orarie da fame (sino ai 2,80 euro dei lavoratori della Coopservice, nell’indotto dei servizi dell’Università di Bologna), è oramai un fatto esistenziale, che tracima la stessa condizione lavorativa.

Poco meno di un anno fa, il 23 luglio 2013, veniva siglato un accordo tra Cgil, Cisl, Uil, Expo Spa e Comune di Milano per assumere 700 giovani con contratti di apprendistato e a termine, in deroga alle norme vigenti all’epoca (riforma Fornero), e ben 18.500 volontari gratis in vista del megaevento di Expo Milano 2015. Tale accordo ha anticipato a livello locale ciò che poi si è esteso a livello nazionale con la riforma del jobs act: liberalizzazione acausale del contratto a tempo determinato con l’obiettivo di farlo diventare il contratto di lavoro standard in sostituzione di quello stabile, e trasformazione del contratto di apprendistato in contratto di inserimento per i giovani meno qualificati, a stipendio inferiore (-30%) e con agevolazioni contributive solo per le imprese.

Il 1° maggio di quest’anno – coincidenza non casuale – dovrebbe entrare in vigore il progetto Garanzia Giovani, con lo scopo, sulla base delle indicazioni europee, di trovare un’occupazione a più di 600.000 giovani che hanno terminato gli studi, non lavorano e non fanno formazione (i famosi Neet). Nulla di male, se non fosse che tale occupazione si tradurrebbe in prestazioni di servizio civile, corsi di riqualificazione e volontariato. Come aveva anticipato l’accordo per l’Expo Milano 2015, si tratta di giovani precari che lavorano gratis o, nella migliore delle ipotesi, sottopagati.

Se le cose stanno così, c’è veramente poco da festeggiare. Oggi il 1° maggio non può essere più la festa del diritto al lavoro. Dovrebbe trasformarsi, se di festa si tratta, in festa del non-lavoro e del reddito di base, ovvero richiesta di libertà di scelta del lavoro e di autodeterminazione di vita, contro l’imperante ricatto sempre più massiccio della damnatio del lavoro per sopravvivere.

Non sarà un caso che il termine “lavoro” etimologicamente significhi “dolore”, “pena”, “tortura” e che oggi non implichi più dignità ma povertà. E non sarà un caso che negli ultimi anni in Italia la manifestazione più partecipata del 1° maggio non è il tradizionale corteo mattutino indetto dai sindacati tradizionali bensì la MayDay Parade di Milano, appunto una parade, festa del reddito e del non-lavoro.

  5 maggio 2014