Corruzione, gli
inquisiti si ricandidano. E vengono rieletti
I clamorosi
risultati
di una ricerca Usa dimostrano che il 36 per cento dei politici travolti
dagli
scandali si ripresenta. E uno su sei riconquista la poltrona. Un
esempio?
Umberto Bossi, Paolo Cirino Pomicino, Cesare Previti e Marcello
Dell’Utri...
Paolo
Biondani su l'Espresso
| 30 giugno 2014
Le
inchieste giudiziarie riescono davvero a fare pulizia, a
spazzare via i politici corrotti? Oppure l’Italia è condannata a farsi
governare da caste di inquisiti, impermeabili agli scandali? Mentre le
indagini
sul Mose di Venezia e sulle cupole degli appalti di Milano rilanciano
l’allarme
su una corruzione massiccia e sistematica, una ricerca documentatissima
misura
per la prima volta l’effettivo livello di ricambio della nostra classe
politica, a partire dal terremoto giudiziario di Mani Pulite.
I
risultati non sono confortanti: persino dopo lo storico
ciclo di inchieste con migliaia di indagati del 1992-1994, più di un
terzo dei
politici inquisiti di livello nazionale (per l’esattezza il 36 per
cento) è
riuscito a farsi ricandidare in almeno una delle elezioni successive. E
il 17
per cento, cioè uno su sei, ce l’ha fatta: passata la bufera legale, ha
riconquistato una dorata poltrona in Parlamento.
Così
sono tornati in politica condannati come Umberto Bossi,
Paolo Cirino Pomicino, Antonio Del Pennino o Alfredo Vito. Così come
Cesare
Previti e Marcello Dell’Utri, tra gli altri.
La
ricerca è stata condotta da un giovane studioso italiano,
Raffaele Asquer, che vive e studia a Los Angeles, dove sta completando
un
dottorato in scienze politiche alla Ucla, la prestigiosa università
della
California. Aiutato da alcuni tra i maggiori esperti italiani, il
ricercatore
ha esaminato il rapporto tra politica e giustizia con metodi
scientifici,
raccogliendo una montagna di dati sul rientro in politica non solo dei
parlamentari, ma anche degli amministratori locali (comunali e
regionali) che
erano stati inquisiti nelle maxi-inchieste di Tangentopoli. Ecco cosa
ha
scoperto.
Duecentodiciannove
sotto accusa
Il lavoro di Asquer parte dall’elenco completo dei 163
onorevoli e 56 senatori dell’undicesima legislatura (1992-1994) che
sono stati
accusati formalmente, con il sistema allora in vigore delle richieste
di
autorizzazione a procedere (un privilegio abolito proprio sull’onda
delle
indagini di Mani Pulite), dei reati di corruzione, concussione,
finanziamento
illecito, abuso d’ufficio con arricchimento patrimoniale, truffa per
incassare
finanziamenti pubblici, ricettazione di tangenti.
Lo
studio documenta tutti i casi di rientro in politica nei
15 anni successivi, analizzando le elezioni locali e nazionali dalla
fine del
1993 al 2008. Il risultato più inatteso, come osserva Asquer, è che «i
parlamentari inquisiti sono stati ricandidati e rieletti in proporzioni
molto
maggiori rispetto agli amministratori locali; il rientro in politica,
in
particolare, è stato più facile a livello nazionale che nei consigli
regionali,
mentre si è rivelato più difficile nei comuni». Più i politici sono
importanti,
dunque, più diventano intoccabili. Dal 1994 al 2006 continua a crescere
il
numero di indagati che riescono a farsi rimandare a Roma. E solo nel
2008 c’è
la prima inversione di tendenza: le ricandidature sono dimezzate e
unicamente
dieci inquisiti di Tangentopoli riescono a rientrare (o a restare) in
Parlamento.
I
risultati della ricerca non sorprendono Alberto Vannucci,
che insegna all’università di Pisa ed è uno dei più autorevoli studiosi
della
corruzione in Italia: «Il passare del tempo attenua l’effetto negativo
sulla
reputazione del politico. Gli elettori tendono a dimenticare le accuse,
anche
perché i processi spariscono o quasi dai mezzi d’informazione, e per i
capi dei
partiti cadono i freni inibitori: da un lato si riduce il rischio di
essere
danneggiati da candidature imbarazzanti, dall’altro cresce la
tentazione di
godere delle reti clientelari di potere e di consenso costruite dagli
indagati.
Che spesso beneficiano del potere di ricatto verso i complici non
indagati. Non
a caso la tendenza s’inverte tra il 2007 e il 2008: è il periodo della
campagna
“Parlamento pulito” e dei primi libri sulla casta. Solo allora chi
decide le
candidature comincia a temere che certi personaggi facciano perdere più
voti di
quanti ne portino».
A volte
ritornano a
Roma
Il
problema dei riciclati in politica è tutt’altro che
accademico. I principali arrestati delle nuove inchieste milanesi
(Expo,
appalti nucleari e tangenti sanitarie) sono tutti pregiudicati della
Tangentopoli di vent’anni fa: Gianstefano Frigerio, dopo aver subito
tre
condanne definitive come tesoriere della Dc lombarda, è stato eletto
parlamentare dal 2001 al 2006 con Forza Italia; l’industriale Enrico
Maltauro,
che aveva confessato e patteggiato un anno di pena (sospesa) per le
mazzette di
Malpensa 2000, è tornato a guidare l’azienda di famiglia; Primo
Greganti, il
cassiere delle tangenti del vecchio Pci, si è riciclato come
faccendiere delle
cooperative rosse. Anche Piergiorgio Baita, il manager che ora ha
confessato
dieci anni di fondi neri e corruzioni per il Mose, era stato
pesantemente
coinvolto nella Tangentopoli veneta del 1992, uscendone indenne grazie
alla
prescrizione. In questi mesi, quando sono stati riarrestati, nessuno di
loro occupava
cariche elettive, eppure gli atti d’accusa documentano che sono rimasti
tutti
al centro di troppi affari illegali collegati alla politica. Ma il caso
Expo e
le nuove Tangentopoli riportano alla ribalta personaggi che non entrano
nella
ricerca della Ucla, che riguarda solo la riconquista di cariche
elettive.
Entro
questi confini, lo studio sfata infatti l’opinione
secondo cui le indagini per corruzione servirebbero a poco o niente. «I
dati
dimostrano che i politici indagati nel 1992-94 hanno avuto minori
probabilità
di essere ricandidati nelle cinque elezioni successive rispetto ai non
indagati», spiega Asquer: «Tra i parlamentari inquisiti, in
particolare, c’è
uno scarto del 22 per cento in meno rispetto ai non indagati». Lo
stesso
ricercatore però avverte che «restano esclusi da questo studio tutti i
casi di
rientro in aziende pubbliche, segreterie di partito, associazioni
politiche o
imprese private».
Dunque,
il tasso complessivo di rientro dei tangentisti in
posizioni di potere è molto più alto. «La ricerca conferma che il
politico
inquisito paga un pedaggio anche in Italia, ci mancherebbe altro»,
osserva il
professor Vannucci. «Ma sarebbe interessante fare un confronto con le
economie
più avanzate: ho la sensazione che in Germania, Stati Uniti, Gran
Bretagna o
Svezia la percentuale di inquisiti che vengono rieletti in parlamento
sia
prossima allo zero. Inoltre la ricandidatura non è sempre la strategia
principale: come dimostrano i casi di Frigerio o di Mario Chiesa, il
primo
arrestato di Mani Pulite tornato in carcere nel 2009, in Italia è
normale
riciclare sotto altra veste il capitale di contatti costruiti nella
precedente
carriera politica. È come avere un know-how di competenze illecite e
cattiva
reputazione. E se non ha cariche elettive, il faccendiere è meno
esposto,
dunque fa correre meno rischi a sé e ai complici».
Ma
perché la società italiana non riesce a liberarsi di una
corruzione sistematica neppure dopo vent’anni di arresti, processi e
condanne?
Grazia Mannozzi, docente di Diritto penale e autrice con il giudice
Piercamillo
Davigo, ex pm di Mani Pulite, di vari saggi sull’effettivo livello
della
corruzione in Italia, risponde che «in Italia c’è un problema storico
di
debolezza del voto e di forza delle reti clientelari e corruttive. Ma,
da
penalista, vedo anche una questione di diritto: l’iscrizione tra gli
indagati e
la stessa condanna non bastano a veicolare il messaggio della
criminosità della
corruzione. Passa l’idea che il politico sia un po’ disonesto, ma non
un vero
criminale. Molti colpevoli evitano la condanna grazie alle scandalose
regole
italiane sulla prescrizione, che poi viene presentata come
un’assoluzione.
Anche nei casi di condanna, gran parte delle sentenze restano sotto il
limite
dei due anni, con la pena sospesa. E il nostro patteggiamento non
presuppone
alcuna ammissione di colpevolezza, anzi dopo soli cinque anni la fedina
penale
torna pulita. Negli Stati Uniti invece chi patteggia deve confessare,
dichiararsi colpevole, risarcire tutti i danni e chiedere scusa ai
cittadini. E
nessuno si sogna di attaccare i magistrati, dichiarandosi vittima di
complotti
o dicendo che così fan tutti.È l’impunità quasi totale che permette di
non
rovinarsi l’immagine e ripresentarsi in politica o nelle aziende. La
giustizia
italiana non riesce a mostrare al Paese il volto dei colpevoli né i
danni della
corruzione. Quindi il corrotto conserva un serbatoio di voti di cui il
capo-partito fatica a rinunciare».
Comuni nuovi,
Regioni
no
A
livello locale, la ricerca si è concentrata sui politici
indagati dalle Procure di Milano e di Napoli, che nel 1992-1994 hanno
avuto un
ruolo trainante nella lotta alla corruzione. Lo studio analizza, in
particolare, quei casi di rientro che rappresentano una specie di prova
di
forza degli inquisiti: il consigliere comunale indagato che riesce a
farsi
rieleggere nella stessa assemblea cittadina; il politico regionale che
si
ricandida e vince in Lombardia o in Campania. Col senno di poi, il dato
più
interessante è che alle elezioni locali dell’autunno 1993, cioè in
piena
Tangentopoli, non è stato ricandidato nessuno dei consiglieri comunali
inquisiti, né a Milano né a Napoli. Nelle tre elezioni successive,
invece, il
quadro cambia: a Milano si ricandida il 10 per cento degli indagati,
contro il
17 per cento di Napoli. Al Sud è più alta anche la quota di rieletti:
10 su
cento a Napoli, 7 a Milano.
Agli
indagati nelle regioni va ancora meglio: a partire dal
1995 in Lombardia rispunta in lista il 23 per cento degli inquisiti e
il 15 per
cento vince. In Campania il tasso di riciclaggio supera il
livello-record del
Parlamento nazionale: la percentuale di ricandidati sale a quota 36 e
la metà
esatta conquista la rielezione.
Se i processi
in Italia fossero un’antologia di errori
giudiziari, come sostengono certi politici, si potrebbero liquidare
questi dati
sostenendo che riguardano i meri indagati, cioè presunti innocenti, ma
l’obiettivo dello studio americano era proprio quello di misurare
l’effetto del
semplice coinvolgimento in un’inchiesta per corruzione, anche senza
condanna.
Ma i condannati ai processi di Tangentopoli, celebrati a Milano dal
1992 al
2002, sono stati ben 1.281. Tra tutti gli indagati, più del 25 per
cento se l’è
cavata con la prescrizione. Solo il 15 per cento ha ottenuto una vera
assoluzione nei tre gradi di giudizio.
«In
Italia il livello di corruzione era e resta
insostenibile», conclude Vannucci. «Il sistema di Tangentopoli era
centralizzato e gerarchizzato: tendenzialmente tutte le imprese
pagavano per
tutti gli appalti; e a riscuotere era un gruppo selezionato di
tesorieri e
fiduciari dei partiti. Oggi la corruzione è diventata policentrica: ci
sono
diversi gruppi organizzati di faccendieri e politici, affiancati da
consorzi di
imprenditori e cricche di alti funzionari. Sembrano mancare quelle
figure
centrali che fino a vent’anni fa erano in grado di garantire il
rispetto dei
patti corruttivi in tutta Italia. Con un’eccezione tragica: nei
territori
dominati dalle organizzazioni mafiose, anche la corruzione è ancora
centralizzata. E fare da garanti tra imprese e politica sono i boss
mafiosi».
Una nuova
pagina europea
Bernard
Guetta su Internazionale
| 30 giugno 2014
Era
nell’aria da settimane, e finalmente la notizia è
arrivata. Durante la riunione di venerdì il Consiglio europeo,
l’assemblea dei
28 capi di stato e di governo, ha deciso di voltare pagina creando un
precedente che modificherà il funzionamento delle istituzioni
comunitarie.
Il
Consiglio ha indicato Jean-Claude Juncker come candidato
alla presidenza della Commissione. L’ex primo ministro lussemburghese
non è
certo un nuovo arrivato sulla scena europea, ma la novità sta nel fatto
che il
suo nome è stato imposto ai leader nazionali dal Parlamento di
Strasburgo,
l’unica istituzione Ue eletta a suffragio universale paneuropeo.
Questo
segna una profonda rottura con la tradizione. Finora
erano stati i leader nazionali a indicare il candidato alla presidenza
della
Commissione, e l’investitura del Parlamento era stata relegata al rango
di
semplice formalità. Finora, ciò aveva permesso agli stati membri di
controllare
la Commissione, e fino a qualche tempo fa era impensabile che un
candidato non
avesse l’approvazione di una grande capitale. Eppure stavolta le
maggiori forze
politiche europee hanno trovato un accordo e hanno fatto capire che
avrebbero
accettato soltanto il capofila della formazione che avrebbe ottenuto la
maggioranza dei voti alle elezioni europee.
La
scelta è caduta dunque su Juncker, candidato dei
conservatori del Partito popolare europeo. Il Regno Unito lo ha
osteggiato fin
dall’inizio, ma i leader nazionali non avrebbero potuto scartarlo senza
aprire
una pericolosa crisi istituzionale con il Parlamento. Alla fine i 28
hanno
preferito evitare il braccio di ferro e hanno scelto di votare sulla
candidatura di Juncker. Il Regno Unito è stato messo in minoranza, e
con un
passo avanti importantissimo nella storia della democrazia europea il
suffragio
universale paneuropeo ha prevalso sulla volontà degli stati.
In
futuro il presidente della Commissione sarà scelto dagli
elettori dell’Ue e non più attraverso una trattativa tra gli stati, e
questa
svolta non farà che accelerare un’evoluzione delle politiche di rigore
chiesta
da tempo dai governi di sinistra.
Tra
i sostenitori di una modifica dell’austerità ci sono i
socialdemocratici tedeschi, che governano insieme ad Angela Merkel, e
diversi
governi di destra. La cancelliera tedesca è ormai isolata nella sua
intransigenza, e il Consiglio ha stabilito di “dover trovare un
equilibrio tra
la disciplina di bilancio e il necessario sostegno della crescita”.
Non
soltanto l’Unione si sta allontanando dal rigore
esasperato, ma il Parlamento, Juncker e molti stati membri (Francia e
Italia in
testa) chiedono a gran voce investimenti europei per rilanciare
l’attività e
bilanciare gli effetti negativi dei tagli alla spesa pubblica. E così,
sullo
sfondo di questo cambiamento istituzionale, assistiamo all’emergere di
una
nuova politica europea.
(Traduzione di
Andrea
Sparacino)
Il danno
peggiore forse non è più la corruzione
Ferruccio
Sansa su il Fatto Quotidiano
tramite triskel182
| 30 giugno 2014
Rubano
anche sugli slip, ma soprattutto governano male.
La
corruzione non è il danno maggiore. Il punto è: come ci
hanno governato i figuri che amministravano miliardi mentre rubavano
sulle
mutande? E come ne usciremo se i “nuovi” – come in Liguria e Veneto –
sono
quelli che stavano gomito a gomito con gli arrestati?
La
corruzione non è il danno maggiore. Il punto non è che si
sono rubati perfino posate e mutande. Che con i miliardi finiti nelle
loro
tasche potremmo sanare il debito pubblico con le imprese e risolvere la
vergogna esodati. No, il punto è un altro: come ci hanno governato
questi
figuri che amministravano centinaia di miliardi e intanto compravano il
vino
per brindare con i nostri soldi?
Il
punto soprattutto è: come speriamo di uscirne se a
proporsi per il cambiamento sono figure che hanno governato gomito a
gomito con
assessori arrestati e decine di consiglieri indagati?
Pensiamo
alla Liguria che si è scoperta – ma bisognava
essere ciechi per non accorgersene prima – malata , con la giunta
regionale di
centrosinistra che ha visto due ex assessori ai domiciliari, con l’Idv
e l’Udc
azzerrati dagli scandali, con mezzo consiglio regionale indagato per i
rimborsi. Con il centrodestra che si genufletteva a Claudio Scajola
(oggi ai
domiciliari) mentre i suoi familiari occupavano ovunque poltrone.
Intanto i
passati vertici della banca Carige – dove sedevano uomini di destra,
sinistra e
Curia – sono in galera. E ora che succede? Il candidato alle primarie
del
centrosinistra è Raffaella Paita, politica dalla culla, che nella
Giunta
travolta dagli scandali era assessore di primo piano. La stessa Paita,
fedelissima di Claudio Burlando (padre del disastro politico degli
ultimi
decenni), che alla sua Leopolda era sostenuta dalla vecchia classe
dirigente
locale, da funzionari regionali e architetti targati Pd che hanno
firmato la
cementificazione della Liguria, magari realizzata da costruttori oggi
latitanti. Dal renziano Oscar Farinetti che riempie di pubblicità di
Eataly gli
organi di informazione che sulla politica dovrebbero sorvegliare.
Pensiamo al
Veneto, dove da anni c’erano movimenti e (pochi) giornalisti che
chiedevano
ragione dello strapotere dei Baita, delle Minutillo. E venivano
scherniti da
destra e sinistra quando puntavano il dito sugli sprechi del Mose,
sulla febbre
da cemento che ha partorito case per 800mila persone, oggi vuote. Per
non dire
di autostrade e ospedali – si deciderà la magistratura a indagare su
questo? –
inutili e costati miliardi.
E
adesso chi sarà chiamato a tirare fuori il Veneto dal
pantano? Quella stessa classe dirigente che sapeva o doveva sapere,
quei
partiti finanziati con i soldi pubblici del Mose?
Ora
ci dicono che dobbiamo essere ottimisti. Ma l’ottimismo
della ragione è diverso da quello del coglione. E vorremmo fare una
domanda a
voi lettori: è l’ottimista che ama davvero il proprio Paese o invece
chi si fa
un fegato così pensando che l’Italia, la terra più bella del mondo,
potrebbe
essere anche ricca come la Germania se fosse governata da persone degne?
30 giugno
2014