I veri
obiettivi della politica sul lavoro di Renzi
Andrea
Fumagalli su Quaderni di San Precario
| 5 luglio 2014
Non passa
giorno che
il nuovo governo Renzi, forte del 40% ottenuto alle elezioni europee, non emani una declamatoria
in nome della
semplificazione e delle riforme (Costituzione, Giustizia, Tasse, Legge
elettorale, ecc.). Finora alle parole non sono seguiti i fatti. Con
un’eccezione significativa: il mercato del lavoro. In questo campo,
l’attivismo
del governo – bisogna riconoscerlo – è stato particolarmente vivace e
la
trasformazione del decreto Poletti in legge, come prima parte del Jobs
Act, ne
è la testimonianza. E’ quindi necessario analizzare dove questo
attivismo vada
a parare. E il quadro che si prospetta non promette nulla di buono per
i
precarie e le precarie (siano essi/e occupati/e in modo stabile, in
modo
atipico o disoccupati/e). Nulla di nuovo sotto il sole, anzi d’antico….
* * * * *
Il 1 luglio è
iniziato il semestre europeo a guida italiana.
Renzi debutta in Europa con la dote del 40% dei voti delle ultime
elezioni
europee. L’11 luglio avrebbe dovuto esserci l’importante summit sulla
(dis)occupazione giovanile, che molto saggiamente, visto il clima di
accoglienza … poco benevola che si stava preparando, è stato spostato
in
autunno in luogo e data da decidere ancora. A tale appuntamento, Renzi
avrebbe
voluto presentarsi con la sua ricetta, pardon, riforma salvifica. Ma a
differenza delle chiacchiere che hanno accompagnato altre declamatorie
di
riforme, quella sul mercato del lavoro si preannuncia già in fase
operativa. E
gli effetti, purtroppo, non saranno indolori.
In un
contributo di Gianni Giovannelli, siamo già entrati
nel merito dei provvedimenti che il jobs act ha già introdotto nel
mercato del
lavoro italiano. A un mese di distanza e nel corso del dibattito sulla
legge
delega del legge Poletti, vogliamo cominciare a studiarne gli effetti e
a
definire la strategia che il governo di Renzi, targato PD, intende
perseguire
per la definitiva normalizzazione (leggi precarizzazione) del mercato
del
lavoro italiano
Precarietà e
disoccupazione: ovvero l’inesistente nesso tra
flessibilità e occupazione.
Analizziamo
dunque le ragioni economiche (se ci sono) che
stanno alla base del Jobs Act, partendo da tre ordini di considerazioni:
1. Nel periodo
pre-crisi, 2002-2008, gli occupati
complessivi sono aumentati di 1,164 milioni di unità (vedi Tab. a10.8,
p. 76
Appendice Relazione Banca d’Italia, maggio 2014). Contemporaneamente,
gli
inoccupati sono calati di 366.000. Tali dati possono essere
interpretati, come
è stato fatto, alla luce degli effetti di flessibilizzazione del
mercato del
lavoro indotti dagli interventi legislativi promulgati nel 1997
(pacchetto
Treu), 2001 (riforma del contratto a tempo determinato), 2003 (Legge
Maroni).
Ma tali provvedimenti hanno effettivamente creato lavoro? Analizziamo
il
periodo in maggior dettaglio.
In primo luogo,
occorre notare che le Unità di lavoro
equivalenti (Ula) sono aumentate di 797.000, in misura inferiore (di
circa un
terzo, 32%) rispetto al numero degli occupati . Le Ula sono soprattutto
concentrate nei settori del terziario avanzato. Infatti dalla tab.
10.12 (fonte
Istat) si può osservare come nel solo comparto “Intermediazione
monetaria e
finanziaria; attività immobiliari e imprenditoriali” si concentra quasi
il 50%
dell’aumento. Nel settore dell’industria, il numero delle Ula
addirittura si
riduce, nonostante un aumento di 67.000 occupati.
In secondo
luogo, occorre ricordare che nel periodo
2002-2008, con due sanatorie, sono state regolarizzati poco meno di
250.000
migranti irregolari, che da invisibili sono diventati del tutto
visibili, anche
per le statistiche ufficiali. Di conseguenza, la reale crescita
occupazionale
risulta assai più contenuta. In terzo luogo, analizzando la dinamica
del valore
aggiunto a prezzi correnti nell’intero periodo, si può osservare che
l’industria in senso stretto è cresciuta del 12%, mentre nel comparto
del
terziario avanzato la crescita è stata di oltre il 30%.
Ne consegue che
la dinamica dell’occupazione risulta più
strettamente correlata alla dinamica del valore aggiunto e risulta di
fatto
indipendente dall’incremento del processo di flessibilizzazione del
lavoro. Anzi,
analizzando la disparità
tra dinamica occupazionale e Ula, la crescente precarizzazione del
lavoro ha
favorito un processo di sostituzione tra lavoro standard e lavoro non
standard.
2. Nel periodo
più recente, 2009-13, in piena fase
recessiva, la spinta alla crescita dell’occupazione non solo si è del
tutto
bloccata, ma, in linea con la dinamica del Pil, è visibilmente calata,
sino
alla perdita di quasi 1,5 milioni di posti di lavoro. Tale declino ha
favorito,
pur in presenza di dati negativi, un ulteriore processo di sostituzione
tra
lavoro precario e lavoro stabile. Analizzando, infatti, i dati Isfol,
gli
avviamenti al lavoro con contratto a tempo indeterminato sono passati
dal 21,6%
di inizio 2009 al 15,8% del IV trim. 2013. Tra le tipologie precarie,
quella
che ha principalmente beneficiato è stato proprio il Contratto a Tempo
Determinato (CTD), che il Jobs Act ha ulteriormente liberalizzato,
rendendolo
acausale. Da inizio 2009 a fine 2013, la quota degli avviamenti CDT sul
totale
è passata dal 63,2% al 68,5% sul territorio nazionale. Se scomponiamo
tale
crescita a seconda della durata del CDT, sempre i dati Isfol mostrano
come i
contratti della durata massima di un mese sono ben il 43,5% del totale
con una
tendenza crescente. In altre parole, assistiamo ad una ulteriore
precarizzazione del maggior contratto precario utilizzato in Italia. Se
questa
è la situazione, che bisogno c’è di liberalizzare ulteriormente il CDT?
3. Si afferma
che il Jobs Act abbia come fine la riduzione
di un tasso di disoccupazione giovanile senza precedenti (“drammatico”
secondo
Renzi), superiore al 46%. I dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment
Outlook
Ocse 2013, mostrano che in Italia nella fascia giovanile 15-24 anni la
quota di
giovani occupati precari sul totale è pari al 52,9%, un valore di poco
superiore alla media dell’area Euro a 17 (51,3% ) e di poco inferiore
al
corrispondente dato per la Francia e la Germania. Se però osserviamo
non tanto
lo stock al 2012 ma i flussi dal 2009 al 2012, si può notare come
l’Italia
abbia manifestato il tasso di crescita più elevato, pari al 3,1% annuo,
contro
il -1,8% della Germania, il + 0,25% della Francia e + 0,8% della
Spagna. Ciò
significa che il processo di precarizzazione dei giovani occupati è
stata quasi
tre volte superiore a quella europea. Nonostante ciò, il tasso di
disoccupazione giovanile non solo non ha arrestato la sua crescita, ma
la ha
accelerata!
La brevi
analisi di questi dati ufficiali convergono verso
un’unica conclusione. Non esiste un rapporto di correlazione positiva
tra
flessibilizzazione del mercato del lavoro e crescita occupazionale,
soprattutto
giovanile. Piuttosto, nelle fasi recessive, è ravvisabile un rapporto
di
correlazione inversa: quando l’occupazione cala, l’effetto è quello di
aumentare la già esistente flessibilità del lavoro, favorendo contratti
ancor
più precari e peggiorando le condizioni di vita e di reddito, oltre che
di
disoccupazione. Inoltre si liberalizza un contratto, quello CTD, che è
già di
gran lunga il più usato e abusato. Giustificare il Jobs Act sostenendo
che
occorre agevolare l’uso del CDT (come ha fatto Poletti) cozza contro
qualsiasi
realtà.
Occorre
prendere atto di questa dinamica, che in Italia, a
differenza di altri paesi europei, appare accentuata da carenze
strutturali del
sistema produttivo e lavorativo, sulle quali non abbiamo il tempo di
soffermarci.
In altre
parole, la precarizzazione del lavoro svolge una
funzione anti-ciclica nella fasi di espansione, seppur limitata, del
ciclo
economico e pro-ciclica nelle fasi di recessione.
Intervenire
solo sul lato dell’offerta di lavoro – via
aumento della precarietà – non è né condizione necessaria, né men che
meno
sufficiente, a favorire l’occupazione. Quest’ultima dipende infatti più
dalla
domanda di lavoro. Anche se il lavoro costasse zero (sul modello del
protocollo
di Expo-Comune-Sindacati, siglato a Milano il 23 luglio 2013, che
prevede
l’assunzione di 18.500 lavoratori volontari gratuiti e 700 tra CDT e
apprendisti in deroga all’allora normativa: questa è la parte che viene
recepita dal Jobs Act), le imprese non assumerebbero comunque, perché
la
domanda di lavoro (da parte delle imprese) non dipende dalle condizioni
dell’offerta di lavoro quando queste sono quelle che sono (precarie e a
basso e
intermittente reddito) ma dalle prospettive di vendita e di crescita
della
domanda. Si può offrire lavoro gratis (pardon, come si dice, oggi:
volontario)
alle imprese, ma se queste non aumentano la produzione, non accettano
neanche
il lavoro gratis.
La politica
economica dei due tempi (ovvero chi di
precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce)
A partire dagli
anni Ottanta (dopo la sconfitta delle lotte
operaie e sociali degli anni Settanta, che tanto avevano contribuito al
processo di modernizzazione dell’Italia) e soprattutto dagli anni
Novanta, si
mette a fuoco una nuova metodologia della politica economica, che si
manifesterà concretamente nei decenni a venire (perché, checché se ne
creda, in
Italia si fa politica economica): una
politica economica che possiamo definire dei
due tempi. Un primo tempo finalizzato all’incremento di quella
competitività
del sistema economico in fase di globalizzazione come unica condizione
per
favorire la crescita che, in un secondo tempo, avrebbe dovuto – nelle
migliori
intenzioni riformiste – generare le risorse per migliorare la
distribuzione
sociale del reddito e, quindi, il livello della domanda. Le misure per
creare
competitività, nel contesto della cultura economica dominante, hanno
riguardato
in primo luogo due direttrici: lo smantellamento dello stato sociale e
la sua
finanziarizzazione privata (a partire dalle pensioni, per poi via via
intaccare
l’istruzione e oggi la sanità) e la flessibilizzazione del mercato del
lavoro,
al fine di ridurre i costi di produzione e creare i profitti necessari
per
incoraggiare un eventuale investimento. I risultati non sono stati
positivi:
lungi dal favorire un ammodernamento del sistema produttivo, tale
politica ha
generato precarietà, stagnazione economica, progressiva erosione dei
redditi da
lavoro, soprattutto dopo gli accordi del 1992-93, e quindi calo della
produttività. Il secondo tempo non è mai cominciato e sappiamo che, sic
rebus
stantibus, non comincerà mai.
Tutto ciò è poi
avvenuto mentre era in corso una rivoluzione
copernicana nei processi di valorizzazione capitalistica, che ha visto
la
produzione immateriale-cognitiva acquisire sempre più importanza a
danno di
quella materiale-industriale. Oggi i settori a maggior valore aggiunto
sono
quelli del terziario avanzato (come i dati sul valore aggiunto ci
confermano) e
le fonti della produttività risiedono sempre più nello sfruttamento
delle
economie di apprendimento e di rete, proprio quelle economie che
richiedono
continuità di lavoro, sicurezza di reddito e investimenti in
tecnologia: in
altre parole, una flessibilità lavorativa che può essere produttiva
solo se a
monte vi è sicurezza economica (continuità di reddito) e libero accesso
ai beni
comuni immateriali (conoscenza, mobilità, socialità). Il mancato
decollo del
capitalismo cognitivo in Italia è la causa principale dell’attuale
crisi della
produttività. L’attuale mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che
l’eccessiva
rigidità del lavoro sia la causa prima della scarsa produttività
italiana. La
realtà invece ci dice l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà il
principale
responsabile del problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di
precarietà
perisce.
In altre
parole, per creare occupazione e maggior stabilità,
invece di flex-security, è necessaria una politica di secur-flexibility.
Le vere
intenzioni del governo Renzi e il piano europeo
I dati e le
analisi riportati non sono frutto di un’attività
di ricerca fatta da alcuni autonomi e sovversivi. Chiunque si occupa
del
mercato del lavoro con competenza e serietà conosce questa situazione.
Il Jobs Act si
muove quindi in una direzione antica e
fallimentare. Può darsi che ci sia qualche politico o sindacalista che
in buona
fede (!) senta il richiamo delle sirene di Renzi e creda ancora che
aumentando
la flessibilità del mercato del lavoro si possa favorire la crescita
dell’occupazione. Ma chi ha pensato queste provvedimenti vuole
raggiungere
altri obiettivi.
Cerchiamo di
capirli.
In primo
obiettivo è quello di impedire il ricorso
giudiziario e evitare le cause di lavoro, così da eliminare
definitivamente una
possibile arma a tutela dei lavoratori (così come si era cominciato a
fare con
il Collegato Lavoro). Tale obiettivo è stato dichiarato, probabilmente
con un
lapsus, dallo stesso Ministro del lavoro Poletti in un’intervista al
quotidiano
L’Unità, di qualche mese fa. Dall’osservatorio di San Precario,
relativo alla
Lombardia, poco meno di un lavorator* su dieci, una volta che il
contratto a
termine non viene rinnovato, fa causa al datore di lavoro. Una piccola
percentuale, che però vede il 90% dei ricorrenti ad avere ragione.
Infatti,
anche se il CTD prevedeva la causale, i datori di lavori lo applicavano
spesso
senza giustificato motivo facendone un abuso, proprio contando che solo
una
minima parte sarebbe ricorsa alla pretura del lavoro per far valere i
propri
diritti. Ora, l’intento è evitare che rimanga anche questa possibilità.
Tutto
ciò rientra nel progetto di semplificazione, di cui Renzi fa una
bandiera. Una
semplificazione che si attua rendendo legale ciò che prima era
considerato
illegale. In tal modo, uno dei pochi strumenti rimasti – il ricorso
legale
(consci comunque che chi crede troppo nella giustizia prima o poi verrà
giustiziato) – per far valere le proprie ragione, viene cancellato.
Il secondo e
pretenzioso obiettivo è disegnare un mercato
del lavoro ad uso e consumo del padronato. Ricordiamoci che nel governo
Renzi
fanno parte due esponenti che ben rappresentano le lobby che
definiscono la
governance del capitale (e i suo interessi) sul lavoro: il ministro
Poletti, in
rappresentanza delle cooperative rosse e bianche (la distinzione oggi
non
esiste più) come punto di riferimento di un sistema produttivo che
proprio
sulla precarietà e lo sfruttamento del lavoro nero e migrante basa il
suo
potere, e la Ministra Guidi, che invece, rappresentata gli interessi
confindustriali relative alle grandi imprese familiari che gestiscono
il
sistema delle commesse di Stato e degli appalti, delle grandi opere e
di quel
capitalismo non manageriale, bigotto e reazionario che è la principale
causa
del mancato decollo di un capitalismo cognitivo in Italia.
Il progetto è
alquanto ambizioso.
Si tratta di
ridurre il mercato del lavoro italiano in tre
segmenti principali (ancora fa capolino, la magica parola
“semplificazione”!),
in grado di procedere ad una razionalizzazione della rapporto di lavoro
precario, che ne consenta la strutturalità e la generalizzazione, in
una
condizione di ricatto (e sfruttamento) continuo:
a. si punta a
fare del CTD il contratto standard per
tutti/e, dai 30 anni all’età della pensione. Tale contratto, basato su
un
rapporto individuale, ricattabile e subordinato (che prevede una tutela
sindacale
funzionale alle esigenze delle imprese, quando c’è) deve diventare il
contratto
di riferimento, in grado di sostituire per obsolescenza il contratto a
tempo
indeterminato.
b. per i
giovani con minor qualifica, l’ingresso al mkt del
lavoro diventa il contratto di apprendistato, ora trasformato, in
seguito alle
“innovazioni” introdotte dal Jobs Act, in semplice contratto di
inserimento a
bassi salari (- 30%) e minor oneri per l’impresa. Il target di
riferimento sono
essenzialmente i giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno titoli
universitari (trimestrale e magistrale).
c. per i
giovani under 29 anni che invece hanno qualifica
medio-alta (laurea o master di I e II livello) entra in azioni invece
il piano
“garanzia giovani”, che utilizzando i fondi europei del progetto 2020
(1,5
miliardi di euro stanziati per l’Italia, in vigore dal 1 maggio di
quest’anno,
su base regionale), intende definire piattaforma di incontro tra
domanda e
offerta di lavoro, con intermediazione di società pubblico-private
garantire a
livello regionale, in cui si delineano tre percorsi di inserimento al
lavoro in
attesa di poter essere poi assunti con CTD: servizio civili (semi
gratuito),
stage (semi gratuito), lavoro volontario (gratuito). Il modello è
quello
delineato dal contratto del 23 luglio 2013 per l’Expo di Milano, che
ora viene
esteso a livello nazionale. L’obiettivo è aumentare – come si dice nel
linguaggio europeo – l’occupabilità (employability), ovvero definire
occupati a
costo zero circa 600.000 giovani, così da toglierli dalle statistiche
sulla
disoccupazione giovanile e consentire al governo Renzi di mostrare che
nel 2015
il tasso di disoccupazione è miracolosamente diminuito di 10-15 punti!
Questi
provvedimenti, già diventati operativi, dovranno
essere accompagnati – secondo le promesse dichiarate – anche da una
riforma del
sussidio di disoccupazione in forma più allargata dell’attuale, in
grado di
assorbire l’Aspi e il mini-Aspi della riforma Fornero e la cassa
integrazione
in deroga (comunque destinata a finire, visto che i finanziamenti
europei sono
terminati) . La cassa integrazione ordinaria estraordinaria non viene
toccata,
perché fa troppo comodo alle imprese (che scaricano così sulla
socialità i
costi privati delle ristrutturazioni) e ai sindacati confederali (che
grazie
alla gestione della Cassa Integrazione giustificano la loro ragion
d’essere).Tale sussidio di disoccupazione è, sul modello del workfare
anglosassone, fortemente condizionato. Non stupirebbe se nella sua
proposizione
si proponesse di rendere obbligo un certo numero di ore settimanali
volontarie
per poterne avere diritto (come è stato discusso recentemente in
Inghilterra).
Al fine di
rendere meno dolorose queste “semplificazioni”,
l’attenzione mediatica nel periodo elettorale si è fortemente
concentrata sulla
mancia degli 80 euro ai soli dipendenti salariati e oggi si concentra
sulla
proposta di un “contratto a tutele crescenti”. Entrambi questi
provvedimenti
non sono altro che povere “foglie di fico”. 80 euro in busta paga per
qualche
milione di lavoratori dipendenti (quelli che costituiscono non a caso
la base
della declinante base sindacale italiana) sono un infimo risarcimento
di quanto
ha ceduto il potere d’acquisto del reddito di lavoro negli ultimi venti
anni a
partire dall’abolizione della scala mobile del 1993. Riguardo al
contratto a
tutele crescenti (annesso che venga approvato, il che non è del tutto
scontato
visto l’opposizione strumentale della Confindustria), perché mai un
imprenditore italiano dovrebbe farvi ricorso quando ha a disposizione
un CTD
che può rinnovare a piacimento? E’ evidente che siamo più o meno alla
farsa.
In conclusione
il piano Renzi per il lavoro, espressione dei
poteri forti di questo paese subordinati ai diktat delle oligarchie
finanziarie
globali, prevede un dualismo all’interno della condizione di
precarietà, che
non solo conferma di essere strutturale, esistenziale e generalizzata,
ma che
viene oggi anche istituzionalizzata, sancita per legge. Anche in barba
alle
disposizioni europee, che comunque, seppur solo dal punto di vista
formale,
dichiarano che il contratto di lavoro di riferimento è ancora quello a
tempo
indeterminato.
E’ su questi
temi che si sarebbe dovuto discutere l’11
luglio a Torino nel summit europeo. Renzi, che doveva fare gli onori di
casa,
si sarebbe fatto portatore di una proposta che fa perno sulla creazione
di un
nuovo dualismo del mercato del lavoro: non quello tra garantito e non
garantito, ma quello tra lavoro precario, subordinato e ricattabile, e
lavoro
volontario e gratuito. E gli altri paesi europei, in primis la Germania
che ha
già perseguito questa strada con le varie riforme Harz che hanno
introdotto i
mini jobs.
E’ necessario
essere coscienti di tutto ciò. Ed è, alla luce
di quanto scritto, importante che i movimenti europei siano in grado di
presentare una piattaforma propositiva di contro-potere. Una
piattaforma che
sancisce la sua validità nella proposta di Commonfare, welfare del
comune,
centrata su tre assi strategici:
• Un salario
minimo europeo;
• Un reddito di
base incondizionato a partire da chi è al di
sotto della soglia povertà relativa, in grado poi di estendersi a una
platea
crescente di possibili beneficiari, all’aumentare della soglia minima
di
riferimento: un reddito individuale, dato ai residenti e non solo ai
“cittadini”, incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale;
• L’accesso
libero gratuito ai beni comuni materiali (acqua,
ambiente, casa, trasporti) gestiti in maniera pubblica e collettiva e
al
“comune” (istruzione, sanità, socialità, mezzi monetari), in forme
autogestite
Un
welfare del comune che, tramite diversi strumenti e dispositivi, sia in
grado
di favorire un processo di riappropriazione di quel valore che la
nostra vita
produce e quindi aprire non solo a spazi di libertà e
autodeterminazione ma a
anche a possibili scenari produttivi auto-organizzati, non
mercificabili,
finalizzati alla produzione dell’uomo per l’uomo.
7 luglio
2014