Guerra aperta
Renzi-CGIL
Gianluca
Luzi su la Repubblica
| 19 settembre 2014
Il
temporale era nell’aria. Ma quando è scoppiato è
diventato immediatamente una tempesta violenta. Tra Renzi e il
sindacato non
c’è mai stato amore, ma questa volta è guerra aperta. All’ attacco di
Susanna
Camusso che paragonava Renzi alla Thatcher per la sua riforma del
lavoro, il
premier ha risposto a muso duro con un video che accusa la Cgil di non
aver
pensato ai precari ma solo i garantiti e di aver difeso le ideologie e
non i
lavoratori. E’ vero che da tanti anni non esiste più il collateralismo
tra il
sindacato e il maggiore partito della sinistra. Già D’Alema presidente
del
consiglio si era dovuto confrontare duramente con la Cgil. Ma è certo
che una
dichiarazione di guerra di questa portata non si era ancora mai vista
da parte
di un segretario del Pd.
Sullo sfondo di
questa guerra c’è la riforma del mercato del
lavoro e l’abolizione dell’articolo 18 che il presidente del consiglio
ha
intenzione di portare fino in fondo. E anche in fretta. Il Pd in commissione ha votato
compatto per i contratti
a tutela crescente, ma le lacerazioni sono solo rimandate a quando la
riforma
andrà in aula. Cosa che dovrebbe avvenire quanto prima perché Renzi ha una scadenza
molto precisa. L’8
ottobre si svolgerà a Milano - dopo una serie di smentite e conferme -
il
vertice sul lavoro e la crescita. Renzi vuole presentarsi con la
riforma già
in Parlamento e
quindi deve andare
avanti senza incertezze. La riforma del lavoro è il fronte più caldo
per il
presidente del consiglio, soprattutto perché è quello che lo
contrappone più
duramente alla minoranza del suo partito. Ma c’è anche l’elezione dei
due
giudici costituzionali di nomina parlamentare a tenere caldo il clima.
Martedì
prossimo ci sarà la quattordicesima votazione.
Violante e
Bruno sono sempre i due candidati di Pd e Forza
Italia, ma senza un accordo con Sel e Lega difficilmente le "fronde"
dei due partiti voteranno a favore. Ma il premier non sarà a Roma quel giorno perché sta per
volare negli Usa
per una lunga trasferta che comincia con la visita alla sede del suo
amatissimo
Twitter a San Francisco, passando per Detroit con Marchionne (cosa dirà sul lavoro e il
sindacato?) per finire a
New York per l’Assemblea dell’Onu.
L’articolo 18,
da gonfiare e bucare
Alessandro
Gilioli su Piovono Rane
| 18 settembre 2014
A
volte viene da pensare che tipi come Sacconi, se davvero
si dovesse abolire l’articolo 18 (anzi, ciò che dell’articolo 18 resta
dopo la
riforma Fornero), non saprebbero più che senso dare alla loro esistenza.
Per paradosso, infatti, questo articolo è diventato ormai il
totem proprio di chi vuole abolirlo, cioè di chi vuole farci credere
che sia il
problema per eccellenza, superato il quale si aprirebbe un radioso
futuro di
crescita economica e di aumento dell’occupazione e del benessere.
La carne della realtà, purtroppo, dice il contrario; e
questo, se non sono ubriachi, lo sanno benissimo anche i più ossessivi
degli
abolizionisti.
Allora perché si incistano tanto sull’articolo 18, anzi su
ciò che ne resta dopo la riforma Fornero?
Perché, evidentemente, ci vedono la possibilità di una
vittoria epocale e simbolica, di quelle che aprono la strada a ben più
significative avanzate nella lotta di classe dall’alto verso il basso.
Per capirci, tipo
il trionfo di Reagan sui
controllori di volo o quello di Thatcher sui minatori. Quelle cose che
in sé
contano poco o nulla, ma alterano potentemente tutti gli altri
equilibri.
Di qui, e per convenienza, l’enfasi un po’ grottesca con cui
caricano questo simbolo: per abbatterlo, quindi passare a occuparsi del
resto,
che conta molto di più.
Del resto nella società di oggi e di domattina – quelle
delle rapide trasformazioni strutturali, tecnologiche, quelle in cui i
robot si
apprestano ormai anche a svolgere mansioni d’ingegno – il fronte del
conflitto
sociale ha sempre meno a che fare con il lavoro umano; e sempre di più,
invece,
con altre questioni: come la continuità del reddito per le persone, la
redistribuzione della ricchezza e l’universalità dei servizi.
È ovvio: se la produzione di ricchezza si va sempre di più
distaccando dal lavoro umano, non è evidentemente su questo che si
misura più
la diade uguaglianza-disuguaglianza, ma sulle tre cose di cui sopra.
È quindi lì il vero fronte, lì la vera battaglia. Tra chi di
quelle tre cose farà il proprio obiettivo sociale e politico e chi
invece le
combatte e le combatterà.
Questi ultimi, appunto, sono quelli che ora usano l’articolo
18 come grimaldello, tipo Reagan con i controllori di volo o Thatcher
con i
minatori.
Curiosamente, di tutto questo però non si parla, ma solo
dell’articolo 18, da gonfiare e bucare.
Francamente, dubito che sia per ignoranza o per distrazione.
Chiudere con il
passato che non passa
Marcello
Sorgi su la Stampa
| 20 settembre 2014
No,
non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla
pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni,
un
vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori», ma
richiama alla
memoria tutto l’insieme «comunista», in cui rientrano a pieno titolo le
celebrazioni di Togliatti e Berlinguer.
Entrambi
emarginati prima e oggi pienamente riabilitati: il
partito, il sindacato, le sezioni, la fabbrica, le assemblee, i cortei,
le
lotte, le vittorie e le sconfitte di mezzo secolo di vita di un’
organizzazione
che a dispetto della sua cuginanza con l’Urss, s’è sempre sentita molto
italiana. Un edificio - meglio sarebbe dire una cultura, un gran pezzo
della
recente storia italiana - che sembrava
ormai sepolto. Almeno da quando, nel 2007, è nato il Pd, sulle ceneri
novecentesche dei grandi partiti di massa, e con l’intenzione di
scrivere una
pagina nuova nell’esperienza della
sinistra
al governo.
Ma ora che il ciclone renziano, dopo
aver rottamato gli
ultimi eredi di quella tradizione, si appresta a cancellarne anche le
tracce -
il complesso di slanci e dubbi, di convinzione e ambiguità, quei due
passi
avanti e uno indietro che accompagnano da sempre l’evoluzione della
sinistra -,
Bersani, D’Alema e Cofferati dicono no. Il paradosso è che i leader che
più si
sono spesi per costruire una sinistra riformista, ora invece si
oppongono e non
riconoscono a Renzi, non tanto il diritto di fare ciò che ha in testa,
ma di
farlo alla sua maniera.
Così difendono
un mondo che loro stessi hanno contribuito a
superare: il comunismo italiano condannato, da limiti ideologici e
internazionali, a stare all’opposizione per quasi cinquant’anni; ma non
per questo escluso dalle grandi scelte. Il vecchio
partito «di lotta e di governo», il gruppo dirigente «forgiato nella
lotta
antifascista», il Pci berlingueriano del «non si governa senza di noi».
Ora che il Pd ha un segretario nato
nel ’75, e una
segreteria fatta di trenta-quarantenni, è difficile spiegare ai ragazzi
che
hanno preso il loro posto che una stagione, finita quanto si vuole (e
finita da
venticinque anni, verrebbe da
aggiungere), non può essere messa da parte sbrigativamente. Senza
quelle
riflessioni, liturgie, pedagogie, di cui appunto si nutriva il Pci. Il
partito
delle grandi battaglie
e manifestazioni
popolari, eternamente riconvertite negli accordi e negli inevitabili
compromessi di cui è fatta la politica. Il partito del centralismo
democratico,
in cui tutti discutevano, ma presto o tardi dovevano adeguarsi alla
linea del
segretario. Il partito dei grandi intellettuali, Moravia, Calvino, di
cineasti
come Visconti e Pasolini, di pittori come Guttuso. Il partito in cui un
buon dirigente,
per crescere, non doveva fare a botte con la polizia e doveva andare a
distribuire i volantini davanti ai cancelli della Fiat.
La dimensione dell’antagonismo -
operai contro capitalisti -
era sempre fondata sul rispetto. Gianni Agnelli ricordava che «per un
periodo i
segretari comunisti parlavano solo piemontese».
Quando Agnelli morì, nel gennaio 2003, gli
operai torinesi,
inaspettatamente, per un giorno e una notte sfilarono davanti al
feretro, in
segno di rimpianto. Questo perché la fabbrica era, sì, il teatro dello
scontro:
eppure, il sistema di relazioni tra parti avversarie prevedeva di
fermarsi un
attimo o un centimetro prima dell’irrimediabile: non a caso - e fu
l’eccezione
che confermava la regola - l’unica volta che quest’imperativo non venne
rispettato, dalla fabbrica insorse la rivolta dei «colletti bianchi».
La «marcia dei quarantamila» del 14
ottobre 1980 a Torino,
con quasi dieci anni di anticipo sull’89 della caduta del Muro di
Berlino,
rappresentava la fine di quel mondo e di quel modo di essere, in cui
perfino il
calendario era segnato da scadenze corrispondenti: la riunione delle
«Alte
direzioni» Fiat in cui i vertici del gruppo si confrontavano sul modo
di accrescere
i profitti e aumentare la produttività,
anche a costo di ridurre i posti di lavoro. E, parallelamente, la
«Conferenza
di produzione» in cui Pci e Cgil facevano il lavoro opposto. A quel
tempo - è trascorso
più di un trentennio, lo Statuto dei lavoratori aveva dieci anni, Craxi
e il
grande scontro sul taglio della scala mobile evocato in questi giorni
erano
alle porte - la fabbrica fordista era già finita. Dario Fo continuava a
cantare
nei teatri la ballata del lavoratore «parcellizzato» sottoposto alla
rigorosa
«misurazione dei tempi e dei metodi» («Prima prendere/poi
lasciare/destra sinistra/
quindi posare/dare un giro/poi sorridere/questa è la vita del
parcellizzato/l’operaio
sincronizzato»), ma negli stabilimenti era già stata introdotta la
lavorazione
«a isola», che integrava il rispetto dell’autonomia artigiana del
singolo
dipendente con l’esigenza di contrarre gli organici.
È il periodo in cui il capitalismo
nostrano comincia a
interrogarsi sulle conseguenze della globalizzazione e la sinistra di
opposizione, al contrario, si rifiuta di farlo. Errore imperdonabile,
che condizionerà tutto il decennio successivo,
quello in cui
sulle macerie della Prima Repubblica arriva a sorpresa Berlusconi. E il
Pci,
poi Pds e Ds, invece di competerci sul piano dei programmi di governo, decide di
combatterlo e basta,
magari a ragion veduta, ma senza porsi il problema di cosa accadrà se e
quando
ad andare al governo sarà la sinistra. Così che quando succede, nei
sette anni
complessivi dei governi Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi, il
partito ha
cambiato nome varie volte, ma sotto sotto è ancora quello «di lotta e
di
governo»: pro e contro i magistrati,
secondo
se se la prendono con Berlusconi o con i primi gravi casi di corruzione
che
affiorano all’interno del centrosinistra; pro e contro le riforme
economiche,
se è al governo o all’opposizione;
e
addirittura pro e contro la tv privata, con D’Alema che in campagna
elettorale
va a Cologno Monzese a elogiare Mediaset come parte importante del
patrimonio
culturale del Paese, ma poi cambia
idea
quando il Cavaliere torna a Palazzo Chigi.
Per questa strada si arriva alla
grande manifestazione del
23 marzo 2002, contro la cancellazione dell’articolo 18 decisa da
Berlusconi.
Tre milioni di persone a Roma, nel catino del Circo Massimo, Cofferati
sul
palco e il governo di centrodestra, spaventato dalla prova di forza,
che fa
marcia indietro. È l’ultima foto di gruppo della generazione
post-comunista,
prima della confluenza nel Pd e della diaspora correntizia. Da quella
radiosa
«giornata di lotta», alla malinconica chiusura della campagna
elettorale del
2013, quando Bersani si rivolge ai suoi dal palcoscenico dell’Ambra
Jovinelli,
un teatro romano di cabaret, sembra passato un secolo. A riempire la
piazza del
Primo maggio, una San Giovanni traboccante, è arrivato Grillo. È la
vigilia
della terribile sconfitta, pardon, della «non vittoria», come sarà
definita,
del 25 febbraio, che porterà Renzi alla guida del partito e poi a
Palazzo
Chigi, e riporterà Napolitano al Quirinale.
Ma se tutto era finito da un pezzo,
viene da chiedersi cosa
c’entri ancora questo con l’articolo 18 e l’accelerata impressa dal
premier al
Jobs Act. In fondo in fondo, quasi niente. Bersani e D’Alema lo sanno,
anche se
vorrebbero che questo pezzo di storia, il passato che non passa mai e
gli
errori di questi anni, venissero archiviati con un po’ più di cura.
Senza i
calci nel sedere e le maniere spicce con cui Renzi li ha trattati
finora.
I sindacati
rimasti all'età della pietra
L'articolo 18 è
il
dogma intoccabile secondo secondo i sacerdoti della sinistra
archeologica
Vittorio
Feltri su il Giornale
| 20 settembre 2014
Devo
fare un dispetto
a Matteo Renzi. Mi accingo a parlare bene di lui,
ovvero a parlare male dei
suoi oppositori interni, i quali pertanto diranno: visto, se Il
Giornale appoggia
il premier vuol dire che
Matteo è di
destra, quindi noi compagni facciamo bene a combatterlo.
Le solite
scemenze. Ieri sulla Stampa di Torino c'era un
articolo di Federico Geremicca, vecchia pantegana - quasi come me - del
giornalismo politico. Titolo significativo, direi esaustivo: «Nel Pd rivolta di un mondo,
buttiamo via i nostri
valori». Precisiamo. Quello in rivolta è un piccolo mondo (rosso)
antico. Quali
siano i valori buttati lo dice Sergio Cofferati, già segretario della
Cgil e
già sindaco di
Bologna, distintosi per
l'antipatia suscitata perfino nei cittadini che lo avevano eletto, al
punto che
costoro lo avevano soprannominato «sceriffo».
Cofferati
ora è un alieno. Traduco: non conta più nulla.
Egli comunque è tutt'altro che stupido. Tanto è vero che, assunto alla
Pirelli
nella notte dei tempi, non ha mai lavorato essendosi dedicato al
sindacato il
giorno dopo essere entrato nell'aziendona milanese. Quali sono i valori
cui si
riferisce Cofferati e che Renzi avrebbe cominciato a gettare nel
cassonetto
dell'immondizia? Riassumo: i picchetti organizzati davanti alle
fabbriche allo
scopo di bloccare all'ingresso gli operai che non intendevano
scioperare,
contravvenendo agli ordini indiscutibili del divino e cavernicolo
sindacato socialcomunista.
I
citati picchetti erano fuori legge, dato che la
Costituzione prevede il diritto di sciopero, ma anche quello di
liberamente
lavorare. Ma questa per Cofferati e i suoi illustri predecessori era una sfumatura trascurabile. La
Cgil era Dio e il
segretario generale era il Verbo, la voce del Padreterno. Cosicché
coloro che
non scioperavano, disubbidivano all'Onnipotente, erano considerati
eretici meritevoli
di essere respinti a calci nel didietro dagli attivisti che
presidiavano i
cancelli degli stabilimenti. Botte da orbi ai crumiri. Ecco uno dei
valori che
stanno a cuore agli ex comunisti ancora
presenti nel Pd e contrari alla linea modernizzatrice (si fa per dire)
di
Renzi.
Altro
dogma dei nostalgici del Comitato centrale
(centralismo democratico sovietizzante): difendere fino alla morte
l'articolo
18 di brodoliniana ispirazione, che in pratica vieta il licenziamento di qualunque dipendente,
inclusi i farabutti, i
fannulloni (meglio detti fancazzisti), coloro che boicottano, gli
assenteisti
eccetera. L'articolo 18 era ed è il Piave dei tribuni del popolo, tanto
è vero
che da vent'anni si parla invano di eliminarlo. Chiunque abbia
concretamente
tentato di abrogarlo ha fatto una brutta fine. Cosa che sta accadendo
anche
all'ex sindaco di Firenze. Il quale, non appena ha osato dichiarare in
Parlamento di essere contrario all'iniqua legge in questione, è stato
ricoperto
di insulti equiparabili a minacce.
La
norma, il dogma, è intoccabile secondo i sacerdoti della
sinistra archeologica.
C'è poi un
residuato bellico a cui i compagnuzzi tengono
assai, da buoni conservatori delle abitudini risalenti all'età della
pietra: lo
sciopero generale, strumento adottato dalla Cgil e caro ancora ai
fantasmi del
Pci non per rivendicare qualcosa, ma per abbattere o almeno intimidire
i
governi espressione della volontà popolare attraverso il voto
democratico. Mi
fermo qui nella convinzione che ce ne sia abbastanza onde dimostrare
che i
valori cui si appella Cofferati, a nome della genia cui appartiene,
sono
arcaici, superati, da seppellire in quanto trasformatisi in disvalori
alla luce
della realtà.
Il
mondo è cambiato, l'economia non è più quella delle miniere
di carbone e del padrone delle ferriere, e la liturgia conservatrice
dei
marxisti falliti non ha più senso di essere osservata. Di modo che il tentativo di Renzi
di accantonarla, e
di adeguare la politica della sinistra alle esigenze attuali, non è un
atto
controrivoluzionario, ma di buon senso. D'altronde il premier, mutando
la rotta
del partito,
sbarazzandosi cioè delle
anticaglie che lo avevano caratterizzato, è riuscito rapidamente a
recuperare
consensi, a vincere le primarie e a ottenere un risultato elettorale
(alle
europee di primavera)
strabiliante.
Segno che gli italiani ne avevano piena l'anima dei valori evocati da
Cofferati
(e soci), giudicandoli sorpassati e indegni di sopravvivere.
Rimpiangerli e
fare il diavolo a quattro
per riproporli
a soluzione dei problemi italiani è come suggerire una terapia a base
di
camomilla a chi sia malato di cancro.
Colori
i quali nel Pd fanno la fronda a Renzi sono informati
male quanto quei giapponesi che a guerra finita da vent'anni
seguitavano a
imbracciare il fucile persuasi che il conflitto fosse ancora in corso. Oddio, i conflitti
non mancano anche
ora, ma il campo di battaglia è diverso da quello del 1950, quando i
ragazzi a
14 anni prendevano il libretto di lavoro, andavano a imparare un mestiere nell'officina
sotto casa ed erano
pagati 2mila lire la settimana; se si lagnavano o non erano proni, li
licenziavano
in tre minuti.
Allora
i sindacati misero un po' di ordine nel lavoro, oggi
mettono solo disordine, tutelano i peggiori, appiattiscono le paghe,
sono
incapaci di capire. E quella del sindacalista è diventata da decenni
una
professione di tutto comodo: non richiede di sgobbare, ma di parlare;
la paga
arriva lo stesso. Ogni tanto il sindacalista proclama uno sciopero e
pensa di
fare bella figura, invece fa quella del fesso, perché chi occupa un
posto di
lavoro sa di avere un tesoro e se lo conserva. Un Cofferati che entra
in ditta
a poco più di 20 anni e, anziché badare al prodotto, si getta nella
lotta sindacale,
evitando con cura di sporcarsi le mani, e nonostante ciò predica in
materia di
lavoro e di giustizia sociale, ricevendo lo stipendio del padrone a cui
dà addosso,
è un'offesa alla storia e all'attualità.
Non
è Renzi a deambulare sulle nuvole, ma chi vorrebbe che
egli ricalcasse le orme dei comunisti d'antan. A me non garba nemmeno
la nuova
sinistra renziana, ma le riconosco di essere sul punto di ritrovare,
ora che è
sotto tiro delle Procure, un minimo di garantismo e di rispetto per il
diritto
e la libertà dell'individuo, accantonando il collettivismo
spersonalizzante
tanto amato dalla religione proletaria dei padri e dei nonni.
Caro
Matteo, ti sono vicino, ma stai alla larga da quelli
come me. Ti conviene. Se poi tu vincessi, smetteremmo in ogni caso di
fare il
tifo per te e daremmo il via agli attacchi. Non per altro: abbiamo
l'impressione che non combinerai niente neanche da vincitore.
|