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sulla stampa
20 settembre 2014

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Guerra aperta Renzi-CGIL
Gianluca Luzi su la Repubblica | 19 settembre 2014

Il temporale era nell’aria. Ma quando è scoppiato è diventato immediatamente una tempesta violenta. Tra Renzi e il sindacato non c’è mai stato amore, ma questa volta è guerra aperta. All’ attacco di Susanna Camusso che paragonava Renzi alla Thatcher per la sua riforma del lavoro, il premier ha risposto a muso duro con un video che accusa la Cgil di non aver pensato ai precari ma solo i garantiti e di aver difeso le ideologie e non i lavoratori. E’ vero che da tanti anni non esiste più il collateralismo tra il sindacato e il maggiore partito della sinistra. Già D’Alema presidente del consiglio si era dovuto confrontare duramente con la Cgil. Ma è certo che una dichiarazione di guerra di questa portata non si era ancora mai vista da parte di un segretario del Pd.

Sullo sfondo di questa guerra c’è la riforma del mercato del lavoro e l’abolizione dell’articolo 18 che il presidente del consiglio ha intenzione di portare fino in fondo. E anche in fretta. Il Pd in  commissione ha votato compatto per i contratti a tutela crescente, ma le lacerazioni sono solo rimandate a quando la riforma andrà in aula. Cosa che dovrebbe avvenire quanto prima perché  Renzi ha una scadenza molto precisa. L’8 ottobre si svolgerà a Milano - dopo una serie di smentite e conferme - il vertice sul lavoro e la crescita. Renzi vuole presentarsi con la riforma già in  Parlamento e quindi deve andare avanti senza incertezze. La riforma del lavoro è il fronte più caldo per il presidente del consiglio, soprattutto perché è quello che lo contrappone più duramente alla minoranza del suo partito. Ma c’è anche l’elezione dei due giudici costituzionali di nomina parlamentare a tenere caldo il clima. Martedì prossimo ci sarà la quattordicesima votazione.

Violante e Bruno sono sempre i due candidati di Pd e Forza Italia, ma senza un accordo con Sel e Lega difficilmente le "fronde" dei due partiti voteranno a favore. Ma il premier non sarà a Roma  quel giorno perché sta per volare negli Usa per una lunga trasferta che comincia con la visita alla sede del suo amatissimo Twitter a San Francisco, passando per Detroit con Marchionne (cosa  dirà sul lavoro e il sindacato?) per finire a New York per l’Assemblea dell’Onu.


 
L’articolo 18, da gonfiare e bucare
Alessandro Gilioli su Piovono Rane | 18 settembre 2014

A volte viene da pensare che tipi come Sacconi, se davvero si dovesse abolire l’articolo 18 (anzi, ciò che dell’articolo 18 resta dopo la riforma Fornero), non saprebbero più che senso dare alla loro esistenza.
Per paradosso, infatti, questo articolo è diventato ormai il totem proprio di chi vuole abolirlo, cioè di chi vuole farci credere che sia il problema per eccellenza, superato il quale si aprirebbe un radioso futuro di crescita economica e di aumento dell’occupazione e del benessere.
La carne della realtà, purtroppo, dice il contrario; e questo, se non sono ubriachi, lo sanno benissimo anche i più ossessivi degli abolizionisti.
Allora perché si incistano tanto sull’articolo 18, anzi su ciò che ne resta dopo la riforma Fornero?
Perché, evidentemente, ci vedono la possibilità di una vittoria epocale e simbolica, di quelle che aprono la strada a ben più significative avanzate nella lotta di classe dall’alto verso il basso. Per  capirci, tipo il trionfo di Reagan sui controllori di volo o quello di Thatcher sui minatori. Quelle cose che in sé contano poco o nulla, ma alterano potentemente tutti gli altri equilibri.
Di qui, e per convenienza, l’enfasi un po’ grottesca con cui caricano questo simbolo: per abbatterlo, quindi passare a occuparsi del resto, che conta molto di più.
Del resto nella società di oggi e di domattina – quelle delle rapide trasformazioni strutturali, tecnologiche, quelle in cui i robot si apprestano ormai anche a svolgere mansioni d’ingegno – il fronte del conflitto sociale ha sempre meno a che fare con il lavoro umano; e sempre di più, invece, con altre questioni: come la continuità del reddito per le persone, la redistribuzione della ricchezza e l’universalità dei servizi.
È ovvio: se la produzione di ricchezza si va sempre di più distaccando dal lavoro umano, non è evidentemente su questo che si misura più la diade uguaglianza-disuguaglianza, ma sulle tre cose di cui sopra.
È quindi lì il vero fronte, lì la vera battaglia. Tra chi di quelle tre cose farà il proprio obiettivo sociale e politico e chi invece le combatte e le combatterà.
Questi ultimi, appunto, sono quelli che ora usano l’articolo 18 come grimaldello, tipo Reagan con i controllori di volo o Thatcher con i minatori.
Curiosamente, di tutto questo però non si parla, ma solo dell’articolo 18, da gonfiare e bucare.
Francamente, dubito che sia per ignoranza o per distrazione.


 

Chiudere con il passato che non passa
Marcello Sorgi su la Stampa | 20 settembre 2014

No, non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni, un vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori», ma richiama alla memoria tutto l’insieme «comunista», in cui rientrano a pieno titolo le celebrazioni di Togliatti e Berlinguer.

Entrambi emarginati prima e oggi pienamente riabilitati: il partito, il sindacato, le sezioni, la fabbrica, le assemblee, i cortei, le lotte, le vittorie e le sconfitte di mezzo secolo di vita di un’ organizzazione che a dispetto della sua cuginanza con l’Urss, s’è sempre sentita molto italiana. Un edificio - meglio sarebbe dire una cultura, un gran pezzo della recente storia italiana - che  sembrava ormai sepolto. Almeno da quando, nel 2007, è nato il Pd, sulle ceneri novecentesche dei grandi partiti di massa, e con l’intenzione di scrivere una pagina nuova nell’esperienza della  sinistra al governo.

Ma ora che il ciclone renziano, dopo aver rottamato gli ultimi eredi di quella tradizione, si appresta a cancellarne anche le tracce - il complesso di slanci e dubbi, di convinzione e ambiguità, quei due passi avanti e uno indietro che accompagnano da sempre l’evoluzione della sinistra -, Bersani, D’Alema e Cofferati dicono no. Il paradosso è che i leader che più si sono spesi per costruire una sinistra riformista, ora invece si oppongono e non riconoscono a Renzi, non tanto il diritto di fare ciò che ha in testa, ma di farlo alla sua maniera.

Così difendono un mondo che loro stessi hanno contribuito a superare: il comunismo italiano condannato, da limiti ideologici e internazionali, a stare all’opposizione per quasi cinquant’anni; ma non per questo escluso dalle grandi scelte. Il vecchio partito «di lotta e di governo», il gruppo dirigente «forgiato nella lotta antifascista», il Pci berlingueriano del «non si governa senza di noi». 

Ora che il Pd ha un segretario nato nel ’75, e una segreteria fatta di trenta-quarantenni, è difficile spiegare ai ragazzi che hanno preso il loro posto che una stagione, finita quanto si vuole (e finita  da venticinque anni, verrebbe da aggiungere), non può essere messa da parte sbrigativamente. Senza quelle riflessioni, liturgie, pedagogie, di cui appunto si nutriva il Pci. Il partito delle grandi  battaglie e manifestazioni popolari, eternamente riconvertite negli accordi e negli inevitabili compromessi di cui è fatta la politica. Il partito del centralismo democratico, in cui tutti discutevano, ma presto o tardi dovevano adeguarsi alla linea del segretario. Il partito dei grandi intellettuali, Moravia, Calvino, di cineasti come Visconti e Pasolini, di pittori come Guttuso. Il partito in cui un buon dirigente, per crescere, non doveva fare a botte con la polizia e doveva andare a distribuire i volantini davanti ai cancelli della Fiat.

La dimensione dell’antagonismo - operai contro capitalisti - era sempre fondata sul rispetto. Gianni Agnelli ricordava che «per un periodo i segretari comunisti parlavano solo piemontese».  Quando Agnelli morì, nel gennaio 2003, gli operai torinesi, inaspettatamente, per un giorno e una notte sfilarono davanti al feretro, in segno di rimpianto. Questo perché la fabbrica era, sì, il teatro dello scontro: eppure, il sistema di relazioni tra parti avversarie prevedeva di fermarsi un attimo o un centimetro prima dell’irrimediabile: non a caso - e fu l’eccezione che confermava la regola - l’unica volta che quest’imperativo non venne rispettato, dalla fabbrica insorse la rivolta dei «colletti bianchi». 

La «marcia dei quarantamila» del 14 ottobre 1980 a Torino, con quasi dieci anni di anticipo sull’89 della caduta del Muro di Berlino, rappresentava la fine di quel mondo e di quel modo di essere, in cui perfino il calendario era segnato da scadenze corrispondenti: la riunione delle «Alte direzioni» Fiat in cui i vertici del gruppo si confrontavano sul modo di accrescere i profitti e aumentare la  produttività, anche a costo di ridurre i posti di lavoro. E, parallelamente, la «Conferenza di produzione» in cui Pci e Cgil facevano il lavoro opposto. A quel tempo - è trascorso più di un trentennio, lo Statuto dei lavoratori aveva dieci anni, Craxi e il grande scontro sul taglio della scala mobile evocato in questi giorni erano alle porte - la fabbrica fordista era già finita. Dario Fo continuava a cantare nei teatri la ballata del lavoratore «parcellizzato» sottoposto alla rigorosa «misurazione dei tempi e dei metodi» («Prima prendere/poi lasciare/destra sinistra/ quindi posare/dare un giro/poi sorridere/questa è la vita del parcellizzato/l’operaio sincronizzato»), ma negli stabilimenti era già stata introdotta la lavorazione «a isola», che integrava il rispetto dell’autonomia artigiana del singolo dipendente con l’esigenza di contrarre gli organici.

È il periodo in cui il capitalismo nostrano comincia a interrogarsi sulle conseguenze della globalizzazione e la sinistra di opposizione, al contrario, si rifiuta di farlo. Errore imperdonabile, che condizionerà tutto il decennio successivo, quello in cui sulle macerie della Prima Repubblica arriva a sorpresa Berlusconi. E il Pci, poi Pds e Ds, invece di competerci sul piano dei programmi di  governo, decide di combatterlo e basta, magari a ragion veduta, ma senza porsi il problema di cosa accadrà se e quando ad andare al governo sarà la sinistra. Così che quando succede, nei sette anni complessivi dei governi Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi, il partito ha cambiato nome varie volte, ma sotto sotto è ancora quello «di lotta e di governo»: pro e contro i magistrati,  secondo se se la prendono con Berlusconi o con i primi gravi casi di corruzione che affiorano all’interno del centrosinistra; pro e contro le riforme economiche, se è al governo o all’opposizione;  e addirittura pro e contro la tv privata, con D’Alema che in campagna elettorale va a Cologno Monzese a elogiare Mediaset come parte importante del patrimonio culturale del Paese, ma poi  cambia idea quando il Cavaliere torna a Palazzo Chigi.

Per questa strada si arriva alla grande manifestazione del 23 marzo 2002, contro la cancellazione dell’articolo 18 decisa da Berlusconi. Tre milioni di persone a Roma, nel catino del Circo Massimo, Cofferati sul palco e il governo di centrodestra, spaventato dalla prova di forza, che fa marcia indietro. È l’ultima foto di gruppo della generazione post-comunista, prima della confluenza nel Pd e della diaspora correntizia. Da quella radiosa «giornata di lotta», alla malinconica chiusura della campagna elettorale del 2013, quando Bersani si rivolge ai suoi dal palcoscenico dell’Ambra Jovinelli, un teatro romano di cabaret, sembra passato un secolo. A riempire la piazza del Primo maggio, una San Giovanni traboccante, è arrivato Grillo. È la vigilia della terribile sconfitta, pardon, della «non vittoria», come sarà definita, del 25 febbraio, che porterà Renzi alla guida del partito e poi a Palazzo Chigi, e riporterà Napolitano al Quirinale.

Ma se tutto era finito da un pezzo, viene da chiedersi cosa c’entri ancora questo con l’articolo 18 e l’accelerata impressa dal premier al Jobs Act. In fondo in fondo, quasi niente. Bersani e D’Alema lo sanno, anche se vorrebbero che questo pezzo di storia, il passato che non passa mai e gli errori di questi anni, venissero archiviati con un po’ più di cura. Senza i calci nel sedere e le maniere spicce con cui Renzi li ha trattati finora.



I sindacati rimasti all'età della pietra
L'articolo 18 è il dogma intoccabile secondo secondo i sacerdoti della sinistra archeologica
Vittorio Feltri su il Giornale | 20 settembre 2014

Devo fare un dispetto a Matteo Renzi. Mi accingo a parlare bene di lui, ovvero a parlare male dei suoi oppositori interni, i quali pertanto diranno: visto, se Il Giornale appoggia il premier vuol dire  che Matteo è di destra, quindi noi compagni facciamo bene a combatterlo.

Le solite scemenze. Ieri sulla Stampa di Torino c'era un articolo di Federico Geremicca, vecchia pantegana - quasi come me - del giornalismo politico. Titolo significativo, direi esaustivo: «Nel Pd  rivolta di un mondo, buttiamo via i nostri valori». Precisiamo. Quello in rivolta è un piccolo mondo (rosso) antico. Quali siano i valori buttati lo dice Sergio Cofferati, già segretario della Cgil e già  sindaco di Bologna, distintosi per l'antipatia suscitata perfino nei cittadini che lo avevano eletto, al punto che costoro lo avevano soprannominato «sceriffo».

Cofferati ora è un alieno. Traduco: non conta più nulla. Egli comunque è tutt'altro che stupido. Tanto è vero che, assunto alla Pirelli nella notte dei tempi, non ha mai lavorato essendosi dedicato al sindacato il giorno dopo essere entrato nell'aziendona milanese. Quali sono i valori cui si riferisce Cofferati e che Renzi avrebbe cominciato a gettare nel cassonetto dell'immondizia? Riassumo: i picchetti organizzati davanti alle fabbriche allo scopo di bloccare all'ingresso gli operai che non intendevano scioperare, contravvenendo agli ordini indiscutibili del divino e cavernicolo sindacato socialcomunista.

I citati picchetti erano fuori legge, dato che la Costituzione prevede il diritto di sciopero, ma anche quello di liberamente lavorare. Ma questa per Cofferati e i suoi illustri predecessori era una  sfumatura trascurabile. La Cgil era Dio e il segretario generale era il Verbo, la voce del Padreterno. Cosicché coloro che non scioperavano, disubbidivano all'Onnipotente, erano considerati eretici meritevoli di essere respinti a calci nel didietro dagli attivisti che presidiavano i cancelli degli stabilimenti. Botte da orbi ai crumiri. Ecco uno dei valori che stanno a cuore agli ex comunisti  ancora presenti nel Pd e contrari alla linea modernizzatrice (si fa per dire) di Renzi.

Altro dogma dei nostalgici del Comitato centrale (centralismo democratico sovietizzante): difendere fino alla morte l'articolo 18 di brodoliniana ispirazione, che in pratica vieta il licenziamento di  qualunque dipendente, inclusi i farabutti, i fannulloni (meglio detti fancazzisti), coloro che boicottano, gli assenteisti eccetera. L'articolo 18 era ed è il Piave dei tribuni del popolo, tanto è vero che da vent'anni si parla invano di eliminarlo. Chiunque abbia concretamente tentato di abrogarlo ha fatto una brutta fine. Cosa che sta accadendo anche all'ex sindaco di Firenze. Il quale, non appena ha osato dichiarare in Parlamento di essere contrario all'iniqua legge in questione, è stato ricoperto di insulti equiparabili a minacce.

La norma, il dogma, è intoccabile secondo i sacerdoti della sinistra archeologica.

C'è poi un residuato bellico a cui i compagnuzzi tengono assai, da buoni conservatori delle abitudini risalenti all'età della pietra: lo sciopero generale, strumento adottato dalla Cgil e caro ancora ai fantasmi del Pci non per rivendicare qualcosa, ma per abbattere o almeno intimidire i governi espressione della volontà popolare attraverso il voto democratico. Mi fermo qui nella convinzione che ce ne sia abbastanza onde dimostrare che i valori cui si appella Cofferati, a nome della genia cui appartiene, sono arcaici, superati, da seppellire in quanto trasformatisi in disvalori alla luce della realtà.

Il mondo è cambiato, l'economia non è più quella delle miniere di carbone e del padrone delle ferriere, e la liturgia conservatrice dei marxisti falliti non ha più senso di essere osservata. Di modo  che il tentativo di Renzi di accantonarla, e di adeguare la politica della sinistra alle esigenze attuali, non è un atto controrivoluzionario, ma di buon senso. D'altronde il premier, mutando la rotta del  partito, sbarazzandosi cioè delle anticaglie che lo avevano caratterizzato, è riuscito rapidamente a recuperare consensi, a vincere le primarie e a ottenere un risultato elettorale (alle europee di  primavera) strabiliante. Segno che gli italiani ne avevano piena l'anima dei valori evocati da Cofferati (e soci), giudicandoli sorpassati e indegni di sopravvivere. Rimpiangerli e fare il diavolo a  quattro per riproporli a soluzione dei problemi italiani è come suggerire una terapia a base di camomilla a chi sia malato di cancro.

Colori i quali nel Pd fanno la fronda a Renzi sono informati male quanto quei giapponesi che a guerra finita da vent'anni seguitavano a imbracciare il fucile persuasi che il conflitto fosse ancora in  corso. Oddio, i conflitti non mancano anche ora, ma il campo di battaglia è diverso da quello del 1950, quando i ragazzi a 14 anni prendevano il libretto di lavoro, andavano a imparare un  mestiere nell'officina sotto casa ed erano pagati 2mila lire la settimana; se si lagnavano o non erano proni, li licenziavano in tre minuti.

Allora i sindacati misero un po' di ordine nel lavoro, oggi mettono solo disordine, tutelano i peggiori, appiattiscono le paghe, sono incapaci di capire. E quella del sindacalista è diventata da decenni una professione di tutto comodo: non richiede di sgobbare, ma di parlare; la paga arriva lo stesso. Ogni tanto il sindacalista proclama uno sciopero e pensa di fare bella figura, invece fa quella del fesso, perché chi occupa un posto di lavoro sa di avere un tesoro e se lo conserva. Un Cofferati che entra in ditta a poco più di 20 anni e, anziché badare al prodotto, si getta nella lotta sindacale, evitando con cura di sporcarsi le mani, e nonostante ciò predica in materia di lavoro e di giustizia sociale, ricevendo lo stipendio del padrone a cui dà addosso, è un'offesa alla storia e all'attualità.

Non è Renzi a deambulare sulle nuvole, ma chi vorrebbe che egli ricalcasse le orme dei comunisti d'antan. A me non garba nemmeno la nuova sinistra renziana, ma le riconosco di essere sul punto di ritrovare, ora che è sotto tiro delle Procure, un minimo di garantismo e di rispetto per il diritto e la libertà dell'individuo, accantonando il collettivismo spersonalizzante tanto amato dalla religione proletaria dei padri e dei nonni.

Caro Matteo, ti sono vicino, ma stai alla larga da quelli come me. Ti conviene. Se poi tu vincessi, smetteremmo in ogni caso di fare il tifo per te e daremmo il via agli attacchi. Non per altro: abbiamo l'impressione che non combinerai niente neanche da vincitore.

 

  20 settembre 2014