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Il nemico allo specchio
editoriale di Ferruccio De Bortoli su il Corriere della Sera

Il nemico allo specchio

Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante. 
Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L'esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell'Economia, l'ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L'irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.
L'oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l'ex Cavaliere. E qui sorge l'interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c'è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra. 



L'INTERVISTA
Grasso al premier: sulla giustizia stai sbagliando
«La riforma della giustizia non sia fatta contro i magistrati»
Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera

Presidente Grasso, quand'era magistrato quanti giorni di ferie faceva?
«Ha trovato la persona sbagliata. Al maxiprocesso non ho preso un giorno di ferie per tre anni, sono stato 35 giorni in camera di consiglio senza uscire dall'aula bunker e senza comunicare con nessuno, neppure con la famiglia. Mia moglie sapeva che ero vivo perché arrivava la biancheria sporca. Poi sono stato 8 mesi chiuso in casa a scrivere la sentenza. Un isolamento che all'epoca mi costò il rapporto con mio figlio. Si tratta di un caso eccezionale; ma è evidente che il vero problema della giustizia italiana non sono le ferie».

Certo, però 45 giorni sono tanti, o no?
«I giorni sono 30, come per tutti gli statali; se ne aggiungono 15 per la stesura delle motivazioni delle sentenze. Si possono togliere, purché si sospendano i termini di deposito dei provvedimenti. Ma non mi sembra il punto centrale...».

Le ferie dei magistrati come i permessi dei sindacalisti?
«C'è la tendenza a concentrare il dibattito su elementi di consenso popolare immediato, perdendo di vista la complessità delle riforme. Il consenso è importante; ma poi i testi vanno discussi e votati dalle Camere».

Resta il fatto che ogni corporazione è impopolare. Lo è anche la magistratura?
«La magistratura viene raffigurata come una classe che ha potere e privilegi; ma ci sono giudici che non hanno neppure l'ufficio, lavorano a casa. In realtà, la magistratura non può avere consenso, perché è destinata a scontentare sempre qualcuno: l'imputato, i suoi familiari, i suoi avvocati. Anche nel civile, c'è sempre una parte che perde. La prova sono i regali di Natale. I burocrati li ricevono, i politici pure. I magistrati, almeno quelli che conosco io, no».

Ma la riforma della giustizia è urgente, non crede?
«Sono 15 anni che ne discuto. Quand'ero magistrato andavo ai convegni sempre con lo stesso testo. È ancora valido».

La riforma della giustizia civile punta sulle composizioni extragiudiziali, in particolare sui collegi arbitrali formati da avvocati. Lei che ne pensa?
«Non posso entrare nel merito: il presidente del Senato non deve soltanto essere imparziale, deve anche apparire imparziale. Faccio solo notare che si è già tentato di ridurre il contenzioso attraverso il giudice di pace o forme di soluzione extra-giudiziale, come la conciliazione; che però non hanno eliminato i milioni di processi arretrati. Si può anche mettere un termine entro cui decidere: ma se non lo si rispetta, cosa succede? Chi vince la causa, chi la perde? Chi è disposto a cedere alle ragioni dell'altro?».

In Italia ci sono troppi avvocati?
«Temo di sì. Di sicuro ce ne sono molti più che negli altri Paesi. Ricordo un avvocato che mi diceva: “Causa che pende, causa che rende”. Si potrebbe porre un limite, introducendo il numero chiuso agli esami di abilitazione. Ma la riforma della giustizia non può essere punitiva nei confronti delle varie categorie. Non si può fare contro gli avvocati, e tanto meno contro i magistrati».

Come si fa allora ad abbreviare le cause?
«È fondamentale riformare i motivi del ricorso in Cassazione, che troppo spesso oggi viene fatto per ritardare i tempi. Si possono poi semplificare le motivazioni, che altri Paesi non hanno o sintetizzano in forme estremamente concise; mentre in Italia il difetto di motivazione è una delle cause del ricorso in Cassazione, che così diventa un terzo grado di giudizio di merito».

È possibile riformare o anche abolire l'appello?
«Da tempo sostengo che è assurdo consentire di impugnare le sentenze di patteggiamento. Si può pensare di escludere l'appello anche in altri casi. L'importante è che accusa e difesa restino ad armi pari. In passato si tentò di abolire l'appello solo per i pm nel caso di assoluzione, ma la Corte Costituzionale annullò quella legge».

Non pensa a quante condanne di primo grado vengono ribaltate in appello?
«Dobbiamo creare un sistema di pesi e contrappesi che limiti gli errori giudiziari. Nei Paesi anglosassoni la giuria composta da cittadini stabilisce con un verdetto solo se l'imputato è colpevole o no. Ma appena una piccola percentuale dei casi sfocia in un processo e in una sentenza. Soltanto da noi i processi si fanno tutti, perché abbiamo l'obbligatorietà dell'azione penale».

Va eliminata anche quella?
«No, ma la si può rivedere ad esempio per tenuità dei fatti».

Altri punti importanti?
«Interventi seri per colpire la corruzione, l'economia sommersa, l'evasione, i delitti societari e finanziari, il riciclaggio; per rafforzare le indagini finanziarie sui patrimoni illegali; per moralizzare la gestione delle risorse pubbliche; per ostacolare con la presenza dello Stato il radicarsi socio-economico del potere criminale. Il mio primo giorno da senatore avevo presentato un disegno di legge su questi temi: credo sia un modo per dimostrare che la politica interpreta il suo servizio per il bene comune e dei più deboli, non per interessi di parte».

Al Senato Renzi ha espresso l'intenzione di chiudere vent'anni di scontro tra giustizia e politica.
«Concordo. Ma vedo che nelle reazioni popolari e mediatiche, fortunatamente non in quelle politiche, si continua a parlare di giustizia a orologeria…».

Si riferisce all'avviso di garanzia al padre del premier?
«No, al caso Eni. Bisogna considerare che c'è anche un orologio della giustizia, tempi da rispettare, e convenzioni internazionali sulla corruzione cui l'Italia ha aderito».

Sulla Consulta lo stallo continua. Le candidature di Bruno e Violante sono bruciate, non crede?
«Vedremo. Ma non si possono bloccare all'infinito i lavori parlamentari. Ci sono provvedimenti indifferibili e urgenti da esaminare».

Il primo è la riforma del lavoro. Qual è la sua posizione sull'articolo 18? La reintegra deve restare o può essere abolita?
«Mi limito a ricordare che l'articolo 18 di cui si discute oggi non è quello dei tempi di Cofferati; la riforma Fornero l'ha già reso più flessibile. In ogni caso, credo sia essenziale proteggere tutti i lavoratori nei loro diritti, anche quelli che oggi non ne hanno, ma senza ideologismi; a cominciare proprio dal diritto al lavoro che non coincide con il diritto a uno specifico posto di lavoro».

Il secondo provvedimento che arriverà al Senato è la legge elettorale. Cosa pensa del ritorno delle preferenze?
«Le preferenze richiamano tempi segnati dai rapporti clientelari. Nel mondo dei miei sogni ci sono primarie regolamentate per legge e collegi uninominali, con i cittadini che scelgono il loro rappresentante tra candidati che risiedono nel collegio da almeno dieci anni. E che sono candidati solo lì, non altrove».

Nel mondo dei suoi sogni c'è ancora spazio per cambiare la riforma del Senato?
«Molto è già cambiato, e in meglio, rispetto al progetto iniziale del governo. Resto convinto che, per garantire in parte la rappresentanza, sarebbe meglio consentire agli elettori di indicare i consiglieri regionali che andranno a Palazzo Madama, magari con una semplice preferenza».

I dipendenti delle Camere, con le loro decine di sigle sindacali, protestano contro i tagli. Come se ne esce?
«Decideranno gli uffici di presidenza. La proposta mia e della presidente Boldrini è ampia e tocca tutti i dipendenti: se si mette un tetto allo stipendio massimo, è equo prevedere “sotto-tetti”, un meccanismo di gradualità che impedisca ai dipendenti di guadagnare più dei vertici. Penso poi che arriveremo presto, d'intesa con la presidente della Camera, ad unificare organici e servizi, oltre a provvedimenti sugli ex parlamentari».

Quali provvedimenti?
«Togliere i vitalizi ai condannati per mafia, corruzione e altri reati».

Com'è il suo rapporto con i 5 Stelle?
«Gli scontri con loro contribuiscono molto al mio corso di formazione alla politica… C'è in molti una passione autentica. Spero che la usino anche per costruire. Nelle discussioni sul lavoro e sulla legge elettorale garantirò la libertà di espressione di tutti; ma farò rispettare tempi certi. Il Paese non può aspettare sine die».

Il suo rapporto con Renzi?
«Quello istituzionale è ottimo. Per il resto, uso poco sms e twitter. Abbiamo ancora una sfida a calcetto in sospeso».

E com'è oggi il rapporto con suo figlio?
«L'ho recuperato dopo l'assassinio di Falcone. Giovanni non aveva figli e amava stare con i figli degli amici, con Maurilio giocavano a ping-pong. Nel '92 lui capì che si può anche morire facendo il magistrato antimafia, ma senza la ricerca della verità la vita non è degna di essere vissuta. Oggi fa il funzionario di polizia».



L'INCHIESTA
La grande truffa dell'Iva in Italia
per finanziare i gruppi islamici
La Procura di Milano: 1.150 milioni di Iva rubati al Fisco. Gli 007: sono finiti ai fondamentalisti islamici per la jihad
Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella sul Corriere della Sera

Cercavano Osama Bin Laden, trovarono solo un pugno di fatture. Ma per le forze alleate il blitz in un covo dei talebani al confine tra Afghanistan e Pakistan nel 2010 si è rivelato una miniera di informazioni che attraverso Europa, Medioriente e Hong Kong hanno portato sulle tracce di una colossale frode fiscale sui certificati ambientali servita a finanziare anche il terrorismo islamico. Le stesse orme seguite dalla Procura di Milano in un'indagine che, innescata dalla denuncia di una commercialista terrorizzata, con l'incriminazione di 38 indagati e il sequestro di 80 milioni di euro colpisce ora un'associazione criminale anglo-pakistana e una franco-israeliana che dal 2009 al 2012 hanno rubato all'Italia più di un miliardo di euro di Iva.
I documenti scoperti nel rifugio, non lontano dall'area dove il 2 maggio 2011 i Navy Seals americani hanno ucciso Bin Laden, conducevano ad Imran Yakub Ahmed, un pachistano di 40 anni con passaporto inglese residente a Preston (Gran Bretagna), amministratore della milanese “Sf Energy Trading spa”, sulla quale stavano indagando i pm Carlo Nocerino e Adriano Scudieri nel pool guidato dall'aggiunto Francesco Greco. I pm e la Guardia di Finanza si erano mossi dopo che a presentarsi in Procura era stata una commercialista di Milano spaventata dalla facilità con la quale guadagnava soldi a palate lavorando per alcune società intestate a prestanome cinesi e italiani, cartiere che facevano girare milioni di euro vendendo e acquistando migliaia di carbon credit .
Con l'accordo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, infatti, ad ogni Stato è assegnata una quota massima di produzione di CO2. Le aziende che producono meno gas-serra del tetto assegnato possono vendere il rimanente della quota alle imprese meno virtuose emettendo appunto carbon credit , certificati ambientali che possono essere negoziati bilateralmente o in un mercato telematico, scambi sotto la supervisione di autorità pubbliche nazionali quali in Italia il «Gestore dei Mercati Energetici», una spa che fa capo al Ministero dell'Economia.
Le due organizzazioni criminali operavano sia singolarmente che insieme. Acquistavano i certificati in Gran Bretagna, Francia, Olanda e Germania attraverso società fittizie con sede in Italia, vere e proprie «cartiere» che producevano solo fatture e che erano intestate o a prestanome quasi sempre cinesi o a persone estranee ma vittime di furti d'identità. Dopo aver acquistato senza pagare l'Iva, esclusa in questo tipo di transazioni intracomunitarie, le «cartiere» aggiungevano l'Iva al 20 per cento e vendevano i certificati ad altre società, anche queste fittizie, che facevano da intermediari con gli ignari acquirenti finali. Una volta incassata l'Iva, invece di versarla allo Stato italiano la «cartiera» chiudeva i battenti e spariva nel nulla, mentre i soldi, milioni e milioni di euro, venivano dirottati su conti correnti a Cipro e Hong Kong per finire a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Lì le rogatorie avviate dai pm milanesi a caccia di Imran Yakum Ahmed sono cadute nel nulla, mentre i soldi sottratti all'Erario italiano sono stati riciclati in diamanti ed investimenti immobiliari. C'è stato anche qualcuno che non ha resistito e ha comprato due orologi da 50mila euro ciascuno in una prestigiosa gioielleria di Roma.
Ma l'aspetto più inquietante che emerge dalle carte dell'indagine milanese è che dietro le «imponenti operazioni di riciclaggio» legate alla frode fiscale potrebbe celarsi un canale di «finanziamento al terrorismo internazionale» di matrice islamica. A lanciare l'allarme sono stati i servizi segreti americani e inglesi che hanno esaminato la documentazione trovata tra le montagne tra Pakistan e Afghanistan e hanno segnalato tutto alla «Hm Revenue & Custom di Londra», una sorta di GdF inglese, il cui ufficio stampa, contattato dal Corriere della Sera , non ha fornito ulteriori dettagli perché non può «discutere di singoli casi per ragioni legali». Peraltro i pm milanesi non hanno prove dirette su questo profilo, né possono utilizzare le carte dell'intelligence . Questo meccanismo criminale è stato replicato per anni in centinaia di transazioni facendo impazzire le polizie di tutta Europa, fino a quando le due organizzazioni hanno trasferito gli affari in Italia dopo che altri Paesi dell'Ue erano corsi ai ripari con norme che avevano di fatto rotto il giocattolo. Un ginepraio in cui si sono mossi anche gli investigatori della «Bundeskriminalamt» tedesca, della «Service National de Douane Judiciare» francese, ma anche di Belgio e Liechtenstein, tutti coordinati da Europol e Eurojust. La conclusione è che i mercati energetici europei sono «fortemente manipolati e comunque viziati da un numero impressionate di transazioni commerciali effettuate al precipuo scopo di realizzare rilevanti frodi agli Erari». La preoccupazione è alta, tanto che le indagini sono state estese a livello internazionale acquisendo i dati in possesso del «Citl», l'ente di Bruxelles che monitora a livello europeo gli scambi dei permessi di emissione di CO2.
Le indagini della Procura milanese, chiuse in questi giorni in vista della richiesta di processo, solo per il primo filone hanno scoperto una frode da 660 milioni, di cui 80 sequestrati. Trentotto gli indagati di cui 11 ricercati, e un centinaio le perquisizioni eseguite in società e abitazioni. Un'inchiesta parallela, ancora in corso, sta già disvelando un'altra frode del tutto analoga che ha sottratto ai contribuenti italiani altri 450 milioni. 



  24 settembre 2014