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12 ottobre 2014

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Immagini
Giovanni De Mauro su Internazionale | 10 ottobre 2014

Domenica scorsa il giornale londinese Independent on Sunday è uscito con la prima pagina nera e un breve testo in cui annunciava che non avrebbe pubblicato nessuna foto dell’esecuzione di Alan Henning, il cooperante britannico rapito in Siria. Sono immagini terribili quelle che arrivano in queste settimane dal gruppo Stato islamico: decapitazioni, crocifissioni, esecuzioni di massa. Servono a spaventare e a impressionare. Sono propaganda. Ma vengono da regioni in cui per i giornalisti e gli osservatori indipendenti è diventato impossibile lavorare, quindi sono spesso le uniche disponibili. È giusto farle vedere?

“Tutti devono sapere”, è l’argomento usato da chi le pubblica. La realtà è che si tratta di trovare il punto di equilibrio tra il dovere d’informare, il rispetto della dignità delle vittime, il tentativo di evitare di essere usati come veicolo di una propaganda odiosa e violenta. “Perché c’è voluto così tanto tempo prima che i mezzi d’informazione riconoscessero gli enormi problemi etici legati al mostrare queste immagini? Come giornalisti abbiamo la responsabilità di parlare di queste uccisioni, ma non dobbiamo riprodurre in modo automatico la peggiore propaganda”, ha scritto Joan Smith, di Hacked Off, sull’Independent on Sunday. Sono immagini talmente violente che, raccontano all’agenzia di stampa France-Presse, i giornalisti che devono esaminarle ne sono sconvolti.

Non c’è un’unica risposta giusta, ma ogni mezzo d’informazione è chiamato a dare la sua e possibilmente a renderla pubblica. Internazionale quindi si unisce alla decisione dell’Independent on Sunday: continueremo a informare sul gruppo Stato islamico, ma non pubblicheremo più quelle immagini.


Kobane: Bring the war home
Gab Carrol su connessioniprecarie.org | 10 ottobre 2014

Ogni volta che si scrive di Kobane si teme di arrivare troppo tardi, che il tempo della città nel frattempo sia scaduto. Ma la città resiste ancora. Un motivo è sicuramente l’aumento di raid aerei della «Coalizione anti-Isis» negli ultimi giorni. Ma il fattore determinante continua a essere la feroce resistenza delle YPG/YPJ che, pur subendo e perdendo tanto e senza rinforzi da quasi un mese, non hanno smesso di combattere l’avanzata jihadista. Notizie degli ultimi due giorni parlano di un blocco parziale dell’avanzata dell’ISIS, che controllerebbe il 15-20%  (altri dicono un terzo) della città. Le YPG/YPJ riportano scontri anche in un altro villaggio del cantone, Dehma. La Turchia rimane ferma nel suo rifiuto di stabilire un corridoio umanitario-militare che, attraversando il suo confine, permetterebbe ai rinforzi (anche eventualmente, secondo alcune fonti, ai peshmerga iracheni) di raggiungere la cittadina assediata, insieme agli aiuti umanitari. Mercoledì la polizia turca ha arrestato 5 membri del PYD vicino al confine, accusandoli di appartenere a un’organizzazione terrorista. Diverse dichiarazioni ufficiali turche hanno sostenuto la necessità che Kobane non cada in mano «di gruppi terroristi». Il plurale è chiaramente riferito alle YPJ/YPG, indicando un’equidistanza politicamente inaccettabile, ma per niente sorprendente. Sembra proprio che l’autodeterminazione di Rojava faccia paura quanto, se non più dell’avanzata dello Stato Islamico.

L’appello di Salih Muslim (presidente del PYD) del 6 ottobre non è però caduto nel vuoto. Le comunità curde di mezzo mondo si sono mobilitate e in Turchia è esplosa una vera e propria rivolta. Non solo nelle zone curde, manifestazioni e scontri stanno avvenendo anche a Istanbul e Ankara e come pure in altre città, con la partecipazione e il sostegno di pezzi consistenti della sinistra radicale turca e dei movimenti studenteschi. Gli scontri (che in più di un’occasione sono stati scontri a fuoco) hanno visto già almeno 30 morti (compresi membri della polizia turca). Il livello dello scontro e il numero di morti non sono dovuti solo alla risposta brutale della polizia turca (immortalata in più di un caso mentre scandisce slogan pro-ISIS durante le sue azioni repressive), ma anche agli scontri (anche qui armati) con squadracce islamiste (sia curde che turche) e nazionaliste. Di fronte all’intensità del conflitto in Turchia, le decine e decine di manifestazioni, le occupazioni (come quella del parlamento olandese) e i blocchi realizzati dalle comunità curde in Europa e i primi cenni di una risposta armata del PKK, viene in mente uno slogan, una tattica per niente nuova, ma evidentemente sempre efficace: Bring the war home. Rojava-2-700x325Le forze curde del KCK, vedendo le YPG/YPJ assediate militarmente e mediaticamente a Kobane, e vedendo gli altri cantoni di Rojava a rischio, hanno voluto portare nei quartieri e nelle città turche la realtà dell’assedio di Kobane, mettendo a nudo le contraddizioni dello Stato turco e della «Nuova Turchia» di Erdogan. Quest’ultimo ha voluto isolare e far morire le rivendicazioni di Rojava nella Kobane assediata dallo Stato Islamico, e invece se le è trovate sotto casa. Le divisioni che emergono in questi scontri non sono assolutamente di natura etnica, tra turchi e curdi, ma politica, tra un movimento di massa multietnico, incarnato dall’HDP e da altre realtà nate o rafforzate dall’esperienza di Gezi Park – che sostiene la lotta a Kobane scendendo in strada, traducendo notizie, facendo appelli, organizzando manifestazioni, creando comitati di sostegno – e una destra reazionaria, in cui convergono interessi islamisti, nazionalisti e neoliberisti, che purtroppo ha anche un discreto sostegno popolare (come dimostrato dalle ultime elezioni). Entrambi i protagonisti di questo scontro esibiscono caratteri globali: sia il movimento di massa sia il governo, infatti, non esprimono solamente una specificità turca, ma evidenziano caratteri che emergono con intensità diverse in ogni scontro politico tra i movimenti contemporanei e i governi neoliberali siano essi di destra o di sinistra. Le mobilitazioni in Europa hanno perciò assunto forme più pacifiche o legate alla disobbedienza civile, riuscendo però nell’intento di diffondere la notizia e la rabbia dell’assedio e della resistenza in atto. Di fronte queste manifestazioni si può dire che qualcosa si sta muovendo al di qua di Kobane.

Purtroppo sembra però ancora improbabile che le YPG/YPJ riescano a impedire la caduta di Kobane. Detto questo, si può ribadire, senza rischio di cadere in romanticismi, che la resistenza armata di Kobane non è un gesto inutile, disperato o vano, ma carico di un significato globale: storico, politico e materiale. Ogni giorno, ogni ora di resistenza, offre speranza ai cantoni liberi di Rojava, ma anche a tutte le forze laiche, socialiste e rivoluzionarie della regione, e non solo. Lo Stato Islamico ha dichiarato guerra a ogni forma di autodeterminazione e di pluralismo, e le YPG/YPJ hanno risposto alla guerra con la guerra, dimostrando che anche chi combatte e muore per il «qui e ora» può resistere a chi mira al paradiso, che è possibile vivere e lottare insieme nonostante differenze etniche e religiose. Un appello diffuso ieri dalla Rete Kurdistan faceva intuire le potenzialità di una coalizione popolare internazionale contro ISIS, che trova espressione nella rivoluzione di Rojava, la resistenza di Kobane e tutte le realtà, a livello transnazionale, che li sostengono e che si riconoscono in essi. Ciò significa che il contrasto all’Isis non è il monopolio di una coalizione tra Stati che improvvisamente si sono accorti che la civiltà è in pericolo. Soprattutto le combattenti di Rojava rendono evidente che i barbari che loro combattono non sono proprio gli stessi affrontati da una coalizione che ieri per salvaguardare i suoi equilibri interni ha dichiarato Kobane un obiettivo non strategico. Per i movimenti globali, invece, Kobane è strategica: non per la posizione che occupa nel teatro di guerra, ma per ciò che la tiene in vita e la muove, per ciò che fa esistere fuori Kobane, per il «qui e ora» che ci chiama a vivere.

Il processo politico avviato a Rojava, prima ancora di diventare oggetto di discussione e di confronto (cosa auspicabile ma al momento resa difficile da altre contingenze), dev’essere difeso. Le mobilitazioni che si stanno moltiplicando in questi giorni in Europa sono importanti per il qui e ora e guardando in avanti. È importante che queste mobilitazioni si coordinino con le comunità curde già presenti e attive nei territori, seguano le indicazioni politiche delle YPG/YPJ, e si mettano in contatto con i comitati locali turchi (come quelli del HDP) che stanno già organizzando campagne di sostegno materiale, politico e umanitario. La necessità di un corridoio umanitario/militare a Kobane è urgentissima, ha senso diffonderla e portarla nelle piazze dove si dà voce e forma al sostegno per Kobane.


 Jobs Act, nel Pd scatta la resa dei conti
Walter Tocci è graziato: «il suo è un comportamento inappuntabile». I renziani però sono imbufaliti con chi non ha votato la fiducia al provvedimento sul lavoro. Per Giachetti «bisogna prendere atto della fuoriuscita dal Pd» di Mineo e compari. Carbone richiede una direzione: «non basta decidere nei gruppi parlamentari»
Luca Sappino su l'Espresso | 9 ottobre 2014

Per Walter Tocci, si sceglierà la clemenza. Con ogni probabilità le dimissioni saranno respinte dall’aula, come da prassi, e anche nel Partito, avendo Tocci votato comunque la fiducia sul jobs act, non ci saranno provvedimenti disciplinari. La ratio la spiega Roberto Giachetti: «Conosco Walter Tocci da tanti anni ed ero certo che anche in questa occasione avrebbe avuto modo, nella difficile situazione nella quale si è trovato, di confermare la sua integrità e la sua moralità politica». Anche il renzianissimo vicepresidente della Camera quindi dice «nel mio piccolo, lavorerò affinché si realizzino le condizioni politiche per il superamento delle sue dimissioni».

All’Espresso anche Ernesto Carbone, membro della segreteria Pd, dice «non possiamo che apprezzare la condotta di Tocci». Tocci è salvo, dunque. Certo dovrà trovare il modo di restare nel Pd, convivendo con il maldipancia, «ma sulla fiducia si è comportato in maniera impeccabile».

Per gli altri, invece, per Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Corradino Mineo la situazione è più complessa. E Casson e Ricchiuti imparano così ad accompagnarsi a Corradino Mineo, che - è noto - sta assai poco simpatico al premier e ai suoi: «Specularmente» dice infatti Giachetti, «appare chiara la scelta di uscire dal Pd compiuta da chi non ha votato la fiducia». Per Giachetti la questione è seria: «Qui non è in discussione la pur grave decisione di non votare secondo le decisioni assunte a maggioranza in direzione e nel gruppo al Senato». «Qui» dice, «si è scelto di non votare la fiducia mettendo a rischio la tenuta stessa del governo». Per Giachetti, insomma, cacciare i dissidenti è dunque l’unica via: «Se non si prendesse atto, con una decisione formale, della fuoriuscita dal Pd di chi ha compiuto questa scelta il Pd diventerebbe un partito sciolto più che liquido».

Giachetti fa quindi un passo in più del vicesegretario democratico Lorenzo Guerini per cui il tema dei dissidenti «sarà affrontato nell'assemblea del gruppo Pd al Senato», che quindi deciderà. Certo è che, anche per Guerini, «non partecipare a un voto di fiducia, che è politicamente molto significativo, mette in discussione i vincoli di relazione con la propria comunità politica». Anche Carbone sottolinea il punto: «Mineo aveva già avuto motivi di attrito con la maggioranza» spiega all’Espresso, «ma questa volta si tratta di un voto che è l’atto più importante che può fare un parlamentare».

Si tratta soprattutto, «del nostro governo» dice Carbone. E se gli fai notare che il governo, in realtà, è anche di Angelino Alfano e Maurizio Sacconi, e che questo non è certo il governo per cui gli elettori hanno votato il Pd, e quindi anche Mineo, Casson e Ricchiuti, lui ti risponde che «sì», in effetti è così, «ma noi di questo governo siamo gli azionisti di maggioranza».

Il comportamento di Casson, Mineo e Ricchiuti (e con loro quello di chi non voterà alla Camera, come ad esempio dovrebbe fare Pippo Civati), «dovrà esser discusso nei gruppi ma anche in direzione». Una sorta di processo, o almeno un confronto «per stabilire come si sta in una comunità», e per capire cosa succede a chi infrange le regole: «decideremo» dice Carbone, che non vuole anticipare la sentenza. Una cosa comunque è certa, non vale, come attenuante, dire che nel programma del Pd non ci fosse questa riforma del lavoro: «I programmi cambiano, i partiti decidono cosa fare di volta in volta» dice ancora Carbone, «la direzione e gli organismi dirigenti del partito esistono proprio per questo».


Più che Thatcher, ricorda Garrincha
Alessandro Gilioli su Piovono Rane | 8 ottobre 2014

Tendo a diffidare delle analogie storiche. Tipo il “Berlusconi come Mussolini” che andava qualche tempo fa. Tendo a diffidarne perché invece tutto è sempre diverso: e l’analogia storica è spesso una pigrizia mentale. È un modo per ricondurre il presente al passato, quindi per autoconfermarsi nei propri paradigmi, nelle proprie ortodossie. Come Giampaolo Pansa, che ogni volta che vede quattro antagonisti in piazza strilla al ritorno delle Brigate Rosse, per capirci.

Tre anni fa Eugenio Scalfari diceva che Renzi gli ricordava Craxi. Adesso Camusso lo paragona a Thatcher.

Ecco, anche qui si tratta di intendersi, credo.

Il paragone con Craxi era dettato dai modi bruschi per raggiungere il potere: il famoso decisionismo; e dall’apologia mediatica sfrenata verso il modernismo e il nuovismo. Quindi un po’ ci sta, il confronto, okay. Ma si parla di una somiglianza soprattutto cognitiva e prepolitica, più che programmatica. Craxi – prima di diventare semplicemente il capo di una banda di arraffoni – aveva un’idea: quella di affrancare l’Italia dal dualismo tra le due chiese, quella cattolica e quella comunista. Rappresentate da Dc e Pci. Immaginava se stesso come leader laico e socialdemocratico in una sorta di capitalismo dal volto umano. Il nuovismo di facciata del suo Psi (a volte ridicolo, come per le famose discoteche di De Michelis) aveva insomma dietro uno straccio di progetto politico. Che in qualche modo, viste le difficoltà del Pci a emanciparsi dalle sue radici sovietiche, aveva perfino un senso. Poi i socialisti sono diventati un’associazione per delinquere, ed è finita lì.

Pure Thatcher aveva un progetto politico, cacchio se ce l’aveva. Liberare gli spiriti animali del capitalismo, togliere le tutele a chi stava nei gradini più bassi, smantellare lo stato sociale in favore di un individualismo purissimo. Nemmeno la parola “società” era più tollerata. Ma non c’è bisogno di descriverlo troppo, quel progetto, perché si è quasi tutto avverato. E non solo nel Regno Unito.

Ho un po’ schematizzato, su entrambi. Ma era per ricordare che quelli avevano (Dio mi perdoni) una visione.

Renzi no.

Renzi è uno straordinario ed efficace improvvisatore. Capace di cambiare idea su tutto. In poche ore. A seconda del vento, della convenienza, del consenso. Soprattutto del consenso.

Un giorno sta con la grande impresa e le banche, un altro giorno con la piccola impresa strozzata dalle banche. Un giorno coi precari, un giorno coi dipendenti. Un giorno con i laici, un giorno coi cattolici. Un giorno con Landini, un altro con Marchionne. Un giorno con il ‘basta casta’, un giorno con il ceto politico. Un giorno con i boiardi di Stato, un giorno contro. E così via, all’infinito.

È uno zigzag ubriacante. Neanche Garrincha.

Privo non solo di qualsiasi ideologia (e questo si sa) ma anche di qualsiasi visione di contenuto. A parte il “nuovo” e il “cambiamento”. Qualsiasi cosa contengano. E a parte il consenso, naturalmente: scopo ultimo. Unico, probabilmente.

I miei amici di sinistra che simpatizzavano per lui, ancora un anno fa, dicevano che questo era proprio il suo lato positivo. Perché era «una scatola vuota che si poteva riempire con i nostri contenuti». Ricordo discussioni lunghissime in merito, a tavola e altrove. Erano convinti che lo si potesse direzionare nei contenuti sul lato dei diritti sociali e civili, acquisendo a quei diritti un consenso che andasse molto oltre i voti abitualmente presi dalla sinistra in questo Paese. Quindi ne parlavano come di un’occasione d’oro. E consideravano i miei dubbi – allora erano solo tali – i borbottii di un pessimista.

Mah. Ora si sta vedendo come va, questa cosa qui. Altro che riempirlo di contenuti di sinistra.

Perché il risultato inevitabile, in un contesto così, è che invece il suo governo faccia in prevalenza cose di destra. Non perché lui lo sia, “di destra”: lui è solo “di Renzi”. Ma perché nel frattempo la politica ha perso potere. Tanto potere. C’è il “pilota automatico” di cui parlava Draghi. E quello, invece, è un pilota sicuramente di destra. Per fare qualcosa di diverso da ciò che vuole quel pilota, per modificarne almeno un pochino la rotta, servirebbe – appunto – una visione. Un progetto. Una direzione opposta.

E non è questo il caso.

Il caso invece è quello di una silenziosa divisione dei compiti. Da un lato il pilota automatico, che è quello che davvero impatta sulle nostre vite, che impone le sue regole su di noi. Dall’altro lui, che corre a zig zag ubriacando tutti in favore di telecamere, in cerca di un gol che si chiama solo consenso.


  12 ottobre 2014