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2 novembre 2014

cucchi

Gli ultimi giorni di Stefano Cucchi
Cinzia Gubbini su Internazionale | 1 novembre 2014

Giovedì 15 ottobre 2009

21.00 Stefano Cucchi saluta i genitori e esce dalla casa in cui è cresciuto in via Ciro D’Urbino, a Roma: ha appuntamento col suo amico Emanuele. Il progetto è di far fare una passeggiata a Dafne, il cane setter che ha preso al canile e a cui è affezionatissimo.

22.30 Stefano e Emanuele fermano le auto davanti alla chiesa di San Policarpo, ma non fanno neanche in tempo a scendere che due carabinieri in divisa bussano sul finestrino delle rispettive macchine. “Documenti”. Nel frattempo arriva un’altra macchina che non ha i colori di istituto, dentro ci sono tre militari in borghese. Comincia la perquisizione delle auto. In quella di Stefano vengono trovati 12 pezzi di hascisc e 2 grammi di coca. Addosso gli trovano delle pasticche. “Sono di Rivotril, le prendo per l’epilessia”, dice Stefano. I militari non gli credono e scrivono “ecstasy”. Le analisi di laboratorio diranno che si tratta effettivamente di Rivotril.

23.20 circa Stefano e Emanuele vengono condotti alla caserma dei carabinieri di via Calice per la raccolta delle “sommarie informazioni”.

1.30 Viene perquisita la casa dei genitori di Stefano, alla presenza del ragazzo. 

2.30-3.00 Stefano torna alla caserma di via del Calice. È qui che cominciano gli errori: nel verbale risulterà arrestato alle 15, di nazionalità albanese e senza fissa dimora. 

3.30 Stefano viene portato dalla caserma di via del Calice a quella di Tor Sapienza dove passerà la notte. 

5.00 circa Secondo le testimonianze dei carabinieri, Stefano suona il campanello per comunicare di non sentirsi troppo bene. Viene chiamata un’ambulanza. Il ragazzo è a letto, i medici annotano solo un arrossamento sotto le palpebre. Nella scheda del 118 si legge “schizofrenia”, forse solo un altro errore materiale.

Venerdì 16 ottobre 2009

8.30 circa Stefano Cucchi arriva in tribunale e viene chiuso nelle celle di sicurezza.

9-12.00 Stefano sta male, numerosi testimoni sostengono che gridava: “Sto male, quando mi hanno arrestato mi hanno tolto la terapia, dovete darmi il metadone”. Ma nessuno gli dà delle medicine, neanche i volontari di Villa Maraini che quella mattina erano in servizio nelle celle di sicurezza. Secondo alcune ipotesi, il fatto che Stefano, inesperto di gergo carcerario, chiamasse i poliziotti “guardie” avrebbe creato qualche tensione. Qui, secondo il pm della procura di Roma che ha rappresentato la pubblica accusa al processo di primo grado in corte d’assise, Stefano avrebbe subìto il pestaggio da parte degli agenti della polizia penitenziaria. Il testimone chiave era un detenuto originario del Gambia, Yaya Samura, che era rinchiuso nella cella di sicurezza numero 5, mentre Cucchi nella cella numero 3.

12.30 C’è l’udienza di convalida. È l’ultima volta che suo padre, Giovanni Cucchi, lo vede. Nota un gonfiore che non era presente la sera prima. Finita l’udienza Stefano lo abbraccia con le manette ai polsi e dice: “Mi hanno incastrato”. Cucchi verrà visitato dal medico del tribunale su disposizione del giudice che si accorge di qualcosa di strano. È il primo che rileva ecchimosi e dolore al sacro e agli arti inferiori. Stefano dirà di essere “caduto dalla scale”.

14.30 Stefano viene portato a Regina Coeli. Qui viene visitato dal dottor Degli Angioli che ne dispone subito un ricovero in ospedale “con estrema urgenza”. L’infermiera che lo spoglia dice di aver notato “ecchimosi”.

19.00 Stefano viene visitato dai medici del Fatebenefratelli, gli vengono riscontrate due vertebre fratturate.

0.00 Cucchi rientra nel carcere di Regina Coeli, ha rifiutato il ricovero proposto dai medici del Fatebenefratelli.

Sabato 17 ottobre 2009

7.00 Stefano si sveglia, in realtà si è lamentato tutta la notte. Sta male. 

10.00 Il medico di turno lo invia di nuovo al Fatebeneratelli. I medici dispongono il ricovero, ma trovare un posto non è facile. Anzi, è impossibile. La soluzione più veloce è far ricoverare Stefano nella struttura carceraria che si trova all’ospedale Sandro Pertini. Ma è sabato pomeriggio e mancano le necessarie autorizzazioni. Tuttavia si trova un funzionario del Prap disposto a recarsi al Pertini per apporre le necessarie firme. 

19.45 Cucchi viene ricoverato al Pertini. 

Domenica 18-lunedì 19-martedì 20 ottobre 2009

Esami, richieste di visite oculistiche (che Stefano rifiuta) e ortopediche (che invece accetta), emocromo, rilevazione di un atteggiamento poco collaborativo. Intanto la sua salute peggiora: i tassi di azotemia sono sempre più alti. I suoi genitori si recano in ospedale, ma non hanno le autorizzazioni per entrare e quindi non riescono a vedere il figlio. La madre lascia un ricambio, ma forse suo figlio non lo ha mai ricevuto. Di certo Stefano quando muore aveva ancora indosso i vestiti del giorno dell’arresto.

Mercoledì 21 ottobre 2009

È l’ultimo giorno di vita del ragazzo. Sulla cartella clinica viene annotato che Stefano rifiuta la reidratazione perché vuole vedere un avvocato. È lui a insistere perché venga scritto, nero su bianco. Quella sera una dottoressa si consulta con il primario, preoccupata per la crescita dei valori di azotemia. Decidono di scrivere una relazione al magistrato e di spedirla il giorno dopo. Ma sarà troppo tardi. Nella notte Stefano chiede una cioccolata calda che non c’è.

Giovedì 22 ottobre 2009

6.00 Nessun segno di vita. Cominciano le manovre rianimatorie, ma non c’è niente da fare, il corpo è già rigido. La sentenza di primo grado aveva condannato sei medici a due anni di reclusione per omicidio colposo. Secondo i giudici Stefano era morto di fame e di sete: pesava ormai solo 37 chili.


Da Stefano Cucchi ai migranti: la caccia ai deboli che tutti dobbiamo temere
Furio Colombo su il Fatto Quotidiano | 2 novembre 2014

È una situazione da fiaba malefica, quella che ti trovi di fronte con il caso Cucchi. E non ha niente a che fare con il diritto e la procedura penale. Dunque: c’è un corpo martoriato di botte, lesioni, denutrizione, abbandono, complicazioni curabili ma non curate, e questo Cucchi muore per tutte queste ragioni, da solo. Ma non nel senso della solitudine, che è sempre una brutta cosa. E noi sappiamo che non può essere morto di sua iniziativa perché uno non può picchiarsi da solo, non può essere morto per denutrizione (e relative conseguenze fisiche) perché è sempre stato ospite di istituzioni (polizia di Stato, polizia carceraria, ospedale) e non può essere morto per mancanza di cure perché intorno al suo caso si alternavano ben sette medici in una rispettabile Azienda ospedaliera italiana. 

Adesso una sentenza d’appello, che segue una sentenza di parziale condanna, decide le seguenti tre cose: primo: Cucchi è certamente morto nelle tragiche circostanze descritte. Secondo, Cucchi è stato certamente ospite detenuto di diverse strutture pubbliche. Terzo, Cucchi è morto nelle condizioni fisiche descritte (dunque non suicida ma per grave e indotto deterioramento fisico) mentre era scortato e “assistito”. Però non ci sono colpevoli. Per esempio, non uno dei medici, che erano tutti sul luogo della sua morte e responsabili del suo corpo da vivo, lo hanno visto passare da vivo a morto senza avere la minima nozione dell’evento e del che fare. 

Il vento gelido della morgue per pestaggio, poi per abbandono, poi per celebrazione, ultimo scandalo (sentiamo dire: “vedete? Accuse ingiuste! Siamo tutti innocenti!” frase che implica: “Adesso chiedeteci scusa”) si sente in queste ore in Italia.

Una cosa capisci, o almeno intravedi: l’abbandono crudele e totale che ha provato, morendo, Cucchi. E ti rendi conto che non una sola voce politica (ovvero a nome e in rappresentanza dei cittadini) si sente in giro, né dal “partido blanco” né dal “partido colorado” (federati insieme, dicono, causa “riforme”) per dire che l’indignazione, ma anche lo stupore, non è sul diritto della sentenza, ma sul fatto, che si spiega solo con un rito voodoo contro il povero Cucchi.

Qui mi tocca ricordare, come spesso in questi casi, che i diritti umani e civili non sono apprezzati dagli apparati politici italiani di tutti i tipi, tranne quegli strani personaggi del partito Radicale e delle sue associazioni, che in questi giorni sono riuniti a congresso e di Cucchi parlano. Come parlano, da soli, dei campi di prigionia e di abbandono degli immigrati o delle carceri. Ma del loro congresso, opportunamente, per non scomporre la grande armonia, non parla nessuno.

È giusto ricordare gli immigrati accanto a Cucchi. Restiamo nella categoria dei deboli, che sta diventando gran moda mettere subito e disinvoltamente sotto i piedi. Gli immigrati, infatti, se li soccorrete costano troppo (e nessuno nelle istituzioni ha speso una parola per il lavoro solitario della Marina italiana, che ne ha salvati a decine di migliaia in pochi mesi), se arrivano vivi portano tubercolosi, nella mite visione della Lega Nord. E possono essere infetti da Ebola, nella più vigorosa descrizione di Grillo, che moralmente si è messo sul piano di Salvini, ma scientificamente è più informato.

Ricordiamoci però che, proprio mentre stavo scrivendo e mentre voi state leggendo, è stato posto fine all’unico impegno internazionale davvero di pace che ha onorato l’Italia in molti anni: l’operazione “Mare Nostrum”. Non ho visto invadere l’emiciclo di almeno una delle Camere da deputati o senatori decisi a denunciare che si è trattato di un delitto. All’operazione italiana di vasto soccorso a persone morenti, tra cui molti bambini e molte mamme, è infatti subentrata una molto più economica operazione di sorveglianza delle coste con bandiera europea, con un modesto finanziamento che consente di fare la guardia alle coste ma non di salvare.C’è un documento rigorosamente narrato e scrupolosamente provato su come l’Italia tratta chi soppravvive al deserto e al mare credendo di trovare rifugio nel nostro Paese. È un libretto di Donatella Di Cesare, ‘Crimini contro l’ospitalità’ (Il Melangolo). L’autrice è docente di Filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma. Ma in questo testo esemplare è implacabile investigatrice e cronista di uno dei più malfamati “centri di identificazione e di espulsione” che il crollo della nostra cultura ha costruito come un bunker di massima sicurezza guardato da mezzi militari blindati, in località Ponte Galeria, periferia di Roma. È importante leggerlo per capire come è stata devastata la cultura italiana in alcuni suoi aspetti che il mondo riteneva tipici, e che persino l’ultimo conflitto aveva confermato: accoglienza, tolleranza e un aiuto, almeno un aiuto, ai più deboli.

Ecco spiegate le botte violente, ingiuste, inspiegabili con cui sono stati accolti a un ministero di Roma gli operai di Terni in cerca di solidarietà e di salvezza per il loro lavoro. Tutti sappiamo che i poliziotti non picchiano per gusto. Ma nessuno (certo non Alfano) ha confessato da dove è venuto un ordine così incivile.

E come non provare disorientamento di fronte a sindacati di polizia che, invece di difendere (come merita) l’onore della divisa, si schierano con chi picchia, come se fosse un gesto volontario dei poliziotti, e non una strategia imposta dall’alto e da altri, per ragioni che noi (e gli agenti di polizia) non sappiamo. È una brutta epidemia dei periodi peggiori, la caccia ai deboli. Come dimostrano gli eventi, questo è il contagio che dobbiamo temere di più.


La Storia non si fa con un uomo solo al comando
Eugenio Scalfari su Repubblica | 2 novembre 2014

Ho scritto più d'una volta nelle scorse settimane che abolire l'articolo 18 come il governo si propone di fare ritenendolo della massima importanza per il nostro prestigio a Bruxelles, non interessa invece né gli altri Stati dell'Unione né il Parlamento di Strasburgo né la Germania. Che l'articolo 18 esista oppure no è un fattore del tutto irrilevante per quanto riguarda la politica estera e il prestigio italiano in Europa. Così scrivevo ma mi rendo conto che sbagliavo. Ed infatti: "Ai sensi dell'articolo 30 della Carta dei diritti, ogni lavoratore e quindi anche quelli extracomunitari ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato e incompatibile al diritto dell'Ue e alle legislazioni e prassi nazionali". Pertanto dell'articolo 18 il governo e addirittura il Parlamento italiano non possono decidere alcun provvedimento perché la legislazione europea fa premio su quelle nazionali di ciascun Paese, sempre che ovviamente i Parlamenti nazionali abbiano approvato e ratificato le disposizioni europee, ciò che da tempo è ovunque avvenuto. È strano che neppure la Cgil e la Fiom, che portano avanti combattendo a mani nude la loro battaglia, ricordino l'articolo 30 della Carta europea; basterebbe invocarla per bloccare qualunque provvedimento nazionale in merito. Ed è altrettanto strano che neppure l'opposizione interna del Pd richiami quelle disposizioni di Bruxelles. Così si dimostra a sufficienza che il Pd si è trasformato in un partito personale guidato da un uomo solo. Del resto ciò sta avvenendo in tutta Europa, dove il partito personale prevale su ogni altra forma fin qui applicata o almeno ostentata.

Esiste ancora un ostacolo al partito interamente personale ed è rappresentato dalle Istituzioni che esercitano la tutela della vigente Costituzione: il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, l'Ordine giudiziario. Quest'ultimo non è neppure definito un potere e la ragione è evidente: si tratta di un potere diffuso del quale ciascun membro dell'Ordine è titolare. Il potere diffuso non è un potere costituzionale perché manca una gerarchia democratica che lo renda tale. Il Consiglio superiore della magistratura sì, è depositario di un potere attivo di autogoverno e lo esercita infatti avvalendosi di una gerarchia democratica, ma ovviamente non può e non deve entrare nel merito dei singoli processi, sia nella fase inquirente sia in quella giudicante. La gerarchia esiste ma è molto debole. Le conseguenze si vedono e non sono particolarmente confortanti. In particolare non è confortante la contrapposizione costante tra magistratura ordinaria e magistratura amministrativa.

Accade sempre più frequentemente che i Tar intervengano sull'operato della magistratura ordinaria, la quale è strutturata su una triplice struttura organizzativa. Questo dovrebbe costituire un apparato garante del diritto delle parti in causa: ma il fatto che a questa gerarchia si aggiunga anche l'intervento della magistratura amministrativa non accresce anzi indebolisce quelle garanzie, come del resto ha già notato qualche giorno fa il presidente Napolitano. L'esempio più recente e calzante riguarda il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. È probabile che la magistratura ordinaria avesse male applicato la legge Severino, ma esistevano appunto gli altri gradi di giurisdizione per correggere; invece è intervenuto il Tar con una sospensiva, neppure con una sentenza di merito. La sospensiva ha reintegrato il sindaco con tutti i suoi poteri, rendendo in tal modo inevitabile l'intervento della Corte costituzionale. Tutto ciò non accresce le garanzie ma accresce la confusione e la perdita di tempo, uno dei fattori di debolezza non solo della giurisdizione ma anche dell'economia italiana e della sua competitività. Quanto all'ostacolo di chi tutela la Costituzione nei confronti del partito personale, esso ha un solo modo per ottenere un risultato: aumentare il ruolo del potere legislativo nei confronti dell'esecutivo. Purtroppo in questo caso, come già abbiamo più volte osservato, il presidente della Repubblica ha manifestato il suo appoggio alla proposta di diminuire la presenza del Senato nel potere legislativo e alla sua nuova funzione di organo amministrativo, per di più nominato o eletto in secondo grado dagli stessi organi e persone che spetterà al Senato controllare, correggere ed eventualmente sanzionare.

Da questo punto di vista mi torna in mente una recente immagine estremamente efficace di papa Francesco. La Chiesa, ha detto Bergoglio, è un castello fornito di un ponte levatoio. Se il ponte non è abbassato consentendo l'entrata e l'uscita delle persone, ma è costantemente elevato e il castello non ha conoscenza della società esistente, la Chiesa morirà. Un Papa non aveva mai detto una simile perturbante verità che se è vera per un organismo che rappresenta addirittura una religione, vale mille volte di più per un organismo amministrativo che ha fatto parte finora del potere legislativo. Se così non sarà più, la forza del potere legislativo decadrà pesantemente e contribuirà al predominio del potere esecutivo. Non è certamente un bel vedere il fatto di assistere ad una così profonda trasformazione del sistema.

***

C'è ancora un tema che desidero esaminare brevemente e che è diventato di attualità tra le persone riunite per tre giorni alla Leopolda. Una riunione di fatto di molti politici renziani, di data antica o recente. Ad un certo punto di quella riunione Renzi ha detto una battuta piuttosto feroce nei confronti dei cosiddetti intellettuali che vengono spesso applauditi. Ed è giusto farlo, ha aggiunto il leader leopoldiano, ed ha battuto tre o quattro volte le mani. Era evidentemente un motto di spirito e come tale è stato interpretato dai presenti i quali hanno anche essi tributato agli intellettuali un ampio applauso-sberleffo e subito dopo l'hanno trasformato in una lunga orchestra di fischi e lazzi di vario genere. Che avessero ragione? Che gli intellettuali siano dei vecchi o dei giovani bacucchi, delle impettite e spesso inutili presenze e supponenze? Che non siano mai stati loro a fare la storia, a prevedere un imprevedibile futuro e a sostenere a proprio vantaggio un passato che meriterebbe di essere collocato in soffitta o in cantina? Questo, per quel che vale, hanno detto Renzi e i suoi accoliti e su questo sono stato indotto a riflettere.

In effetti, tra le due guerre del secolo scorso e poi con sempre più opere e approfondimento conoscitivi, nacque a Parigi L'École des Annales, di cui maggiori ispiratori furono Bloch e Febvre e alla quale collaborarono Levi-Strauss e Foucault. Questa scuola  -  ovviamente fatta di intellettuali  -  sosteneva la tesi che comunque non fossero i singoli, le persone con un nome illustre, gli eroi, i poeti, gli scrittori di tragedie o commedie, i letterati a fare la storia, ma piuttosto i ceti sociali, le numerose etnie, i ricchi, i poveri. Bisognava aver letto Ricardo e Malthus e magari Marx ed Engels per capire chi e come fa la storia. Fossero anche i renziani, che considerano il presente come la sola vera realtà. Attenzione: non Renzi (che è il nome di un singolo) ma i renziani che rappresentano la cornice di un quadro dentro al quale ciascuno può fare un segno, disegnare un paesaggio, ravvivare un colore. È questa la realtà? E coloro che si pretendono e sono intellettuali non si amareggiano d'esser fischiati o tutt'al più ignorati? Ci ho pensato a lungo e poi mi sono chiesto: chi sono gli intellettuali? Quelli che intelligono, cioè capiscono. Capiscono se stessi e gli altri, tengono abbassato il ponte levatoio tra il dentro e il fuori. Fanno la storia. Sì, la storia la fanno loro e sono di parola. Vogliamo dirne i primi nomi? Vogliamo cominciare da Omero? Da Esiodo? Da Solone? E poi avanti, fino a Dante, Petrarca, Boccaccio, Marlowe, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Montaigne; e finendo il nostro elenco che potrebbe durare chissà quanto, con Einstein, Freud, Nietzsche? Ce ne sarebbero pareti e pareti della Leopolda dove stampare alcuni di questi nomi. Forse perfino quello di Renzi. Lui è convinto di essere l'uomo della storia di oggi. Attento però: la storia si può far bene oppure male. Da soli si fa male. Ci vuole una squadra. Una squadra senza un nome non ha senso. Un nome senza squadra meno ancora.


  2 novembre 2014