La questione è
la violenza contro i rom, non il parabrezza
Christian
Raimo su Internazionale
| 10 novembre 2014
Alle
14.57 di domenica 9 novembre Salvini manda questo
tweet:
In
un calmo weekend autunnale in cui il massimo del
dibattito politico è la non-notizia del futuro avvicendamento al
Quirinale, il
leader della Lega incassa il massimo risultato con il minimo sforzo: la
foto
del vetro della sua macchina sfondato campeggia in homepage ovunque.
L’aggressore si è trasformato in vittima in un’oretta scarsa.
La sua provocazione è talmente infantile,
rudimentale e
meschina che non viene nemmeno da commentarla. Sono mesi che ha capito
che il
consenso che può lucrare sull’odio anti-rom è persino più cospicuo di
quello
anti-immigrati. Probabilmente ha già programmato un tour per le
prossime
domeniche.
Quello che occorre commentare è invece la
reazione dei
politici, in un coro bipartisan a stigmatizzare sì la becera propaganda
salviniana, ma anche a condannare la reazione stizzita di quattro
ragazzi
venuti a contestare il pogrom simbolico di Salvini.
Delrio: “Quella di Salvini è un’iniziativa a
fini elettorali
e io prendo sempre le distanze da iniziative propagandistiche fatte
sulla vita
delle persone. Detto questo la violenza è inaccettabile perché Salvini
ha
diritto a manifestare dove vuole”.
Questa dichiarazione segna il bonus nel
risultato ottenuto
dalla Lega: visibilità e riconoscimento. Il campo del discorso l’ha
disegnato
Salvini: e dunque la questione non è più il razzismo insostenibile nei
confronti dei rom, l’aberrante segregazione dei campi nomadi (in
Italia,
quarantamila persone), il fatto che a più riprese l’Italia sia stata
redarguita
da tutte le organizzazioni internazionali per quanto poco fa. No,
quello che va
difeso è il diritto di Salvini a manifestare dove vuole, ciò che va
ribadito è
che la violenza sia comunque da condannare.
Così, mettiamo che io domani con tre miei amici
vestiti da
laziali andiamo a un club romanista e comincio a urlare “Roma merda!” e
“Dovete
morire tutti al rogo!” (il tono del discorso pubblico della Lega nei
confronti
dei rom), non è forse prevedibile – foss’anche la maggior parte capisca
che non
c’è da cadere nella provocazione – che qualcuno reagisca cercando la
rissa?
E allora? E allora semplicemente Delrio o
qualcuno del
governo poteva liquidare il gesto demente di Salvini spostando
l’attenzione
sulla questione delle politiche a favore dei rom invece che sul
parabrezza
rotto. O è troppo controproducente in termini di consenso politico?
Un bel libro di Daniele Giglioli di un paio di
anni fa
uscito per Nottetempo, Critica della vittima, faceva il punto su un
dibattito
che ha almeno un ventennio: il protagonismo assoluto delle vittime
nella scena
politica.
Salvini l’ha capito e sta trasformando
l’immagine
celodurista della Lega in quella più spendibile dei padani vittime
dell’illegalità, dell’invasione immigrata, addirittura dei rom e dei
centri
sociali. Dove Borghezio si presentava davanti agli asili degli
immigrati e
organizzava ronde, Salvini aspetta che sia lui a essere aggredito. La
sua
felpetta da gita fuori porta, l’abbandono dell’immaginario
folkloristico del
dio Po, la telecamera sempre a portata di mano, dicono molto su quanta
strategia ci sia nel suo atteggiamento finto dimesso.
Domenica prossima sarebbe bello ci fosse una
presenza
istituzionale (Alfano? Renzi? Napolitano?) in un campo rom. A
dimostrare che
non è questione di propaganda elettorale ma di semplice rispetto per le
persone. Forse troncherebbe quella che altrimenti sarà un’escalation.
Dal patto del
Nazareno a quello dell'Ebetino
Con i Cinque stelle in campo cambia tutto
Renzi si
presenta come
uomo del futuro, ma in Parlamento muove le sue pedine con la scaltrezza
degli
antichi maestri del passato. Ora, con i 5S disponibili ad accordi, il
Pd non è
più costretto ad allearsi con Berlusconi
Marco
Damilano su l'Espresso
| 7 novembre 2014
«Il futuro è
solo l'inizio», recitava due settimane fa lo
slogan della Leopolda renziana, chissà dunque se è stata solo una bomba
d'acqua
autunnale o l'annuncio di una nuova stagione quanto accaduto in
Parlamento alla
fine della settimana.
Parlamento
svuotato, Parlamento esautorato mai come in
questa legislatura, perché mai era successo nella storia che i leader
dei
quattro partiti più forti fossero extra-parlamentari: Matteo Renzi,
Beppe
Grillo, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini. Ma, nonostante questo, a
Costituzione
vigente, come si dice, tocca ai deputati e ai senatori l'approvazione
delle
leggi (la Stabilità, il pacchetto giustizia) e le nomine istituzionali:
il Csm,
la Corte costituzionale. E il Quirinale.
La
legislatura inaugurata il 15 marzo 2013, dopo il voto
schock di febbraio, si è retta finora su un doppio dogma: mai un
accordo con
gli altri partiti (e con il Pd) del Movimento 5 Stelle, vero vincitore
delle
elezioni, obbligo di accordo del Pd con il restante campo del
centrodestra
nell'impossibilità di poter contare sul dialogo con il movimento di
Beppe
Grillo. Una legge ferrea che finora ha portato a un'inevitabile
conseguenza: il
potere di ricatto del partito di Berlusconi (e quello del partitino di
Alfano),
rendita di posizione, la chiamano i politologi, se una metà del campo è
inutilizzabile conta chi nell'altra metà riesce a occupare quella zona
(micro-zona, a volte) che fa la differenza. Così era nella Prima
Repubblica,
con la Dc impossibilitata ad allearsi con i comunisti la rendira era
stabilmente
occupata dal Psi di Bettino Craxi che faceva il pieno degli incarichi e
delle
poltrone.
Fu
allora che Giulio Andreotti coniò la teoria dei due
forni: se il forno socialista mi fa pagare caro il pane, perché non
fornirsi
anche dal forno comunista, almeno quando si parla di maggioranze
istituzionali
e non di maggioranze governative? Chissà se Renzi ci ha pensato. L'ex
Bimbaccio
di Firenze si presenta come uomo del futuro, ma in Parlamento muove le
sue
pedine con la scaltrezza degli antichi maestri del passato. Il più
sveglio a
fiutare che qualcosa stava cambiando è stato in M5S il vice-presidente
della
Camera, ragazzo veloce nell'apprendere e nel cambiare gioco. E così su
una
delle due nomine alla Consulta che attendevano da mesi si è creata per
la prima
volta una maggioranza Pd-M5S alternativa a quella del Patto del
Nazareno. Patto
oggi paurosamente a rischio. Anche perché i parlamentari di Forza
Italia sono
allo sbando e lì, vistosamente, non comanda più nessuno.
Un fatto nuovo
che supera i dogmi del passato. Ora il
Movimento è in campo e il Pd non è più costretto ad allearsi con
Berlusconi
(non ha più neppure l'alibi di doverlo fare perché i grillini non
dialogano,
però). La fine dell'auto-emarginazione di Grillo e dei suoi, se dovesse
resistere alle prossime nuove, è potenzialmente dirompente. La
sostituzione del
Patto del Nazareno con il Patto dell'Ebetino, come lo ha già chiamato
stizzito
il “Giornale” che finora ha tifato per Renzi.
Un
patto che già da ora condiziona pesantemente la
partitissima che si sta giocando in modo sotterraneo. La posta è il
Quirinale.
Se M5S si fosse mosso un anno e mezzo ora al Quirinale ci sarebbe
Romano Prodi
che era nella lista dei nomi votati dalla Rete. E nei prossimi mesi? Il
futuro
è solo l'inizio.
Juncker
vergogna d’Europa
Alessandro
Gilioli su Piovono Rane
| 7 novembre 2014
Nella
primavera di quest’anno abbiamo assistito a una
campagna elettorale per le Europee tutta ispirata alla comune idea che
la Ue
doveva “cambiare”, affinché i cittadini si sentissero a essa più vicini.
L’Unione
era infatti in forte crisi di popolarità, tanto da
veder crescere in tutto il continente forze molto tiepide o decisamente
contrarie non solo alla moneta, ma anche alle istituzioni comuni: dai
lepenisti
all’Ukip, e altre sigle ancora; mentre il Movimento 5 Stelle e la
sinistra
d’area Tsipras proponevano risposte diverse ma comunque critiche verso
l’attuale Ue “tecnocratica”.
A
queste contestazioni, e alla loro complessiva crescita nel
continente, le forze politiche più tradizionali hanno reagito
promettendo –
appunto – “cambiamenti” che avvicinassero le istituzioni alle persone.
Con
questo slogan, il “cambiamento”, si è particolarmente
distinto il raggruppamento dei socialisti europei, capeggiato da Martin
Schulz
e sostenuto in Italia dal Pd di Matteo Renzi. Tutta la campagna del Pd
è stata
impostata su questo tema: e non a torto, visto il malessere diffuso
verso le
istituzioni europee.
Tutto
ciò è durato fino al 25 maggio, quando si è votato. E
quando si è visto che, nonostante l’ondata euroscettica, tutto sommato
il muro
delle forze tradizionali aveva tenuto: 220 seggi ai popolari, 189 ai
socialisti
(tra cui il Pd), 67 ai liberali. Ne è conseguito, anche a livello
europeo, un
accordo di “larghe intese” che ha portato alla presidenza della
Commissione Ue
il democristiano lussemburghese Jean-Claude Juncker e ha confermato
alla
presidenza del Parlamento il socialista tedesco Martin Schulz.
Vedremo
se, in termini di “cambiamento” rispetto alle
politiche rigoriste del passato, qualcosa appunto cambierà, quindi se
qualche
promessa della campagna elettorale, in questo senso, verrà rispettata:
improbabile, visti i commissari scelti, ma il nuovo governo europeo si
è appena
insediato.
Quello
che è certo invece è che da ieri si hanno le prove –
le prove – che il nuovo presidente della commissione europea
Jean-Claude
Juncker è un signore che per 18 anni, cioè per tutto il tempo in cui è
stato
premier del Lussemburgo, ha aiutato decine di corporation private a
eludere le
tasse nei Paesi europei in cui facevano profitti; e che ciò avveniva
attraverso
accordi segreti con il governo che lui stesso presiedeva, quello
appunto
lussemburghese.
Questi
accordi sono stati scoperti grazie a un network di
giornalisti d’inchiesta che si chiama The International Consortium of
Investigative Journalist.
Il
presidente Juncker non ha commesso nulla d’illegale,
questo è chiaro, avendo agito secondo le leggi del paese-paradiso
fiscale di
cui era premier. La questione quindi non è giudiziaria: è squisitamente
politica. Infatti il presidente Juncker, che oggi incarna il governo di
506
milioni di cittadini europei, per 18 anni ha sottratto a questi stessi
cittadini soldi e servizi per aiutare centinaia di aziende a eludere le
tasse
nei Paesi in cui facevano profitti.
E’
adatto, quindi, Juncker a presiedere il governo
dell’Europa unita? È la persona giusta per “avvicinare i cittadini alle
istituzioni europee”, così come dicevano i diversi partiti delle larghe
intese
in coro, durante la campagna elettorale? Di più: avrà qualche
autorevolezza nel
chiedere ai cittadini europei “sacrifici” e “austerità”, dopo aver
sottratto
loro centinaia di milioni di euro?
Ognuno
dia la risposta che crede.
Intanto però
attorno a Juncker, appena sono stati diffusi i
leaks dell’International Consortium of Investigative Journalist, hanno
fatto
muro non solo i democristiani (gruppo a cui appartiene il presidente
della
Commissione) ma anche i socialisti di Martin Schulz, che evidentemente
non sono
più così interessati al “cambiamento” e ad “avvicinare i cittadini alle
istituzioni europee” come sei mesi fa.
Silenzio anche
da parte del presidente di turno della Ue,
Matteo Renzi. Le uniche (sacrosante) reazioni provengono dalla sinistra
radicale e – più rumorose – dalla destra estrema.
Il
che forse dovrebbe far vergognare un po’ chi si dice di
sinistra e copre questa vergogna.
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