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17 novembre 2014

sciopero

Sciopero!
Giacomo Pisani su alfabeta2 | 13 novembre 2014

Il Jobs act ha liberalizzato definitivamente il lavoro precario e sottopagato, ricattabile e intermittente, quel lavoro che già da anni costituisce la sola (o quasi) prospettiva sul mercato. La precarietà non è soltanto un fenomeno legato alla produzione, è un dispositivo che incide sulla vita, segna la temporalità dei nostri progetti, costringe continuamente a ripensarsi in un contesto lavorativo nuovo e ad affrontare ricatti e periodi lunghi di disoccupazione. La precarietà è uno dei dispositivi di assoggettamento per eccellenza, che influisce anche sul modo di rapportarsi agli altri e al mondo e di riconoscersi in esso. Soprattutto quando ad una affermazione così netta della centralità del lavoro a tempo determinato non corrisponde una rimodulazione del welfare che garantisca delle tutele universali – innanzitutto un reddito di esistenza incondizionato – in una costellazione così variegata di condizioni di vita e di lavoro. 

Di fronte al jobs act non basta la mediazione sindacale classica. I processi di sfruttamento non investono esclusivamente il posto di lavoro, ma si estendono alla vita in generale e al suo dispiegarsi in una società sempre più attraversata da dispositivi di sussunzione e di messa a valore delle capacità cognitive e di neutralizzazione delle possibilità di relazione. Eppure oggi c’è una generazione che preme alle porte del mondo, è una generazione altamente scolarizzata, composta di giovani in grado di reinventarsi continuamente nei contesti lavorativi a più alto tasso di ricattabilità, disposta ad attraversare lunghi periodi di disoccupazione e a resistere a una società in cui è sempre più difficile trovare spazi di cittadinanza. Il neoliberismo conosce benissimo le capacità di questo soggetto così frammentato ed eterogeneo e isola ogni singolo individuo costruendo percorsi differenziati di sfruttamento e alienazione che impediscono la socializzazione del disagio e la costruzione collettiva di percorsi di messa in discussione dei rapporti di produzione.

Lo sciopero sociale è un momento di rottura, è l’inizio di un percorso di riappropriazione. In un momento in cui la vita stessa è messa a lavoro e il prodotto di una moltitudine precaria caratterizzata da grandi capacità creative è funzionale ad un sistema che non riconosce neanche la cittadinanza sociale dei singoli individui, questi incrociano le braccia e si riprendono il loro tempo. Non è lo sciopero classico, contro il padrone nel posto di lavoro, che detta le condizioni comuni dello sfruttamento costruendo contemporaneamente il proprio nemico. È uno sciopero meticcio, variegato, eterogeneo, che comprende precari, lavoratori della conoscenza, studenti, migranti, lavoratori autonomi a partita iva ecc.

In Italia si sta costruendo un soggetto indisponibile al ricatto, che non fa distinzione fra lavoratori e disoccupati, cittadini e migranti, ma che non appiana le differenze in un soggetto astratto. Lo sciopero sociale parte proprio da questa eterogeneità, che è per il capitale finanziario una risorsa ma al contempo la più grande minaccia alla sua stabilità. Perché è questo soggetto quello che produce, quello che ha il più alto potenziale creativo, il vero motore del capitalismo cognitivo. Il Jobs act, anziché porre davvero la questione del mutamento del modello di produzione, della necessità di valorizzare le funzioni cognitive e di investire su questa generazione, ha degradato in forme ancor più mortifere il lavoro che c’è condannando tutti a inseguire posti di fortuna, dove per tre mesi si darà il meglio di sè con l’acqua alla gola, per poi essere nuovamente risucchiati nelle mille peripezie della vita al tempo della precarietà.

C’è un mondo di vita, di emozioni, di capacità e di continua riproduzione di valori e significati che batte alle porte del mondo e che vuole dirsi in tutte le forme del vivere sociale. È un’energia che rompe le gabbie della precarietà, che non è più contenuta dalle maglie dei ricatti e della sopravvivenza, che vuole attraversare il mondo, lo vuole riempire di passioni e di ciò che sa fare. Perché il futuro non è più arrestabile ed è questa la temporalità in cui viaggia una generazione che venerdì inizia a riprendersi tutto. Il 14 Novembre è il giorno dello sciopero sociale.


Sciopero sociale: il Paese (finalmente) diviso
Francesco Raparelli su Huffington Post | 15 novembre 2014

"È stato calcolato e progettato un disegno in queste settimane per dividere il mondo del lavoro, farne terreno di scontro. [...] Ma non esiste una doppia Italia, esiste un'Italia unica e indivisibile, che si faccia il lavoratore o l'imprenditore, e questa Italia non consentirà di scendere nello scontro". Sono queste le parole di Renzi, utilizzate per scaldare la platea di Confindustria a Brescia, il 4 novembre, mentre fuori procedevano le contestazioni da parte di movimenti e metalmeccanici. La CGIL, sentendosi chiamata in causa, ha subito precisato che il Paese lo divide il Governo, di certo non lo fa il sindacato. Figurarsi. 

Poi, il 14 novembre, è arrivato lo sciopero sociale e generale e il Paese, finalmente, è stato diviso. È emersa in primo piano, cioè, la disuguaglianza insopportabile, tra chi vive di lavoro precario, con 500-600 euro al mese, e chi, dopo aver fatto affari in Italia, sposta i suoi profitti miliardari nei paradisi fiscali europei, Lussemburgo o Irlanda. E dunque la frattura e il conflitto tra nuovi e vecchi poveri, da una parte, e le corporation multinazionali, le banche d'investimento, i fondi pensione, gli agenti dello sfruttamento e della rendita, dall'altra. L'unità dei produttori senza distinzioni di classe, il sogno e l'obiettivo del Partito della Nazione, da ieri è meno solida.

Così come è ancora più chiaro che Renzi, nonostante la forza della sua narrazione tossica, non parla a nome di precari e partite Iva. Anzi, in oltre 40 città, tra picchetti, cortei, blocchi della circolazione e molto altro, decine di migliaia di giovani e meno giovani, studenti e disoccupati, lavoratori autonomi di nuova generazione e Neet, hanno urlato con forza: "non in nostro nome"! Se è vero che i sindacati confederali (CGIL in testa) non hanno fatto nulla nell'ultimo ventennio per impedire il processo di precarizzazione selvaggia e impoverimento di un'intera generazione, è altrettanto vero che la Legge Poletti e il Jobs Act hanno come obiettivo principale quello di rendere il lavoro irreversibilmente più ricattabile, docile, sotto-pagato, servile.

Esistono divisioni buone e divisioni cattive. Le divisioni cattive sono quelle che abbiamo visto drammaticamente in scena a Tor Sapienza, dove lo scontro è tra poveri e segue la linea del colore. Queste divisioni non preoccupano Renzi, perché sono funzionali alla governance neoliberale, la stessa che distrugge le periferie tra tagli al welfare e privatizzazione dei servizi. Ci sono poi le fratture buone, quelle capaci di unire, in particolare di connettere le diverse figure del lavoro segnate da salari da fame, insicurezza, sofferenza. I tanti Laboratori per lo sciopero sociale, nati un po' ovunque in Italia e anche in alcune metropoli europee (Berlino e Parigi ad esempio), hanno reso possibile le straordinarie mobilitazioni del 14 novembre a partire dalla connessione tra precari e lavoratori dipendenti, sindacati di base e nuovi dispositivi sindacali, movimenti per la difesa dei beni comuni e studenti. Unità nel conflitto, unità per il conflitto.

Tra le cose che più spaventano il Partito della Nazione e i poteri costituiti, da Bagnasco al Viminale, dal Corsera a Confindustria, è che lo sciopero sociale sia un processo di inedita sindacalizzazione diffusa. Non è possibile ridurlo, nonostante non manchino i tentativi, al protagonismo di questo o quel partitino antagonista, a questo o a quel leader, ma è stato piuttosto l'esito di una sperimentazione, anche comunicativa, con pochi precedenti. Uno spazio comune - non appropriabile, abitato da tanti e diversi, come tanti e diversi sono i poveri del nostro tempo - capace di mettere al centro, del discorso e delle pratiche, la lotta dentro e fuori il lavoro, per un welfare universale, per il salario minimo e il reddito di base. Lo spazio, al momento, è prevalentemente nazionale, questa la sua insufficienza, ma le azioni di Berlino e Parigi alludono materialmente a una probabile e necessaria estensione europea. Anche in Europa, infatti, ci sono due divisioni possibili: la frammentazione spaziale e monetaria, fatta di violenza razzista, che hanno in testa Le Pen e Salvini; il conflitto tra la moltitudine dei poveri e le tecnocrazie neoliberali che solo uno sciopero sociale europeo può far emergere in primo piano.

Il 14 novembre è stato un debutto, un successo al di sopra delle aspettative, ma di certo un debutto. Ora si tratta di trasformare la sorpresa in forza e organizzazione capace di estendersi e durare nel tempo. È la catastrofe non congiunturale della nostra epoca a richiedere tanta ambizione.


#Italiastaiserena
Alessandro Gilioli su Piovono Rane | 16 novembre 2014

Il ministro del lavoro Giuliano Poletti – peraltro uno degli esponenti di questo governo non ascrivibile alla compagnia dei lanzichenecchi renziani – oggi su Repubblica rilascia una lunga intervista in cui tra l’altro sostiene che «non vi sono ragioni valide a spiegare il conflitto che si è instaurato nelle piazze».

Il messaggio, come si evince dal contesto dell’intervista, è indirizzato a Maurizio Landini, accusato di contestare un po’ troppo il Jobs Act e più in generale l’esecutivo.

A mio avviso la proposizione di Poletti, nell’Italia del 2014, è di grave lontananza dalla realtà.

Sbagliato, a mio avviso, è pure il destinatario. Credo proprio che la Fiom, così come il Movimento 5 Stelle, in questa fase andrebbero invece ringraziati per la loro stessa esistenza da tutti coloro che hanno a cuore la tranquillità nelle città e il confronto pacifico nel Paese (avversari compresi sia di Landini sia di Grillo): proprio perché entrambi sono tra i pochissimi a svolgere ancora, bene o male, il ruolo di rappresentanza democratica e non eversiva di opposizione sociale e politica.

Contrapporsi a Fiom e M5S sui contenuti politici, per i loro eventuali errori, è del tutto lecito – ci mancherebbe – in democrazia.

Quello a cui tuttavia abbiamo assistito negli ultimi otto-nove mesi è stato qualcosa di più: è stata proprio una lapidazione sbeffeggiante e arrogante dell’opposizione democratica e sociale da parte degli hooligans di Palazzo Chigi. E qui non sto più parlando di Poletti, come detto, ma di molti altri, a iniziare dallo stesso presidente del Consiglio. Tra i primi altri nomi che mi vengono in mente, quelli di Pina Picierno, Debora Serracchiani e Davide Serra; tralascio la pur nutrita artiglieria minore chiamata Pdcommunity che in questi mesi si è diffusamente esercitata al tiro al bersaglio sui social tutto indirizzato contro la sinistra, il M5S e il sindacato, rimanendo per contro cerimoniosa o silente verso i soci del Patto del Nazareno.

Conosco bene l’obiezione, e cioè che questo linguaggio aggressivo, minaccioso, beffardo e spesso triviale ha costituito la cifra distintiva proprio di Beppe Grillo.

L’argomentazione è fondata. Tuttavia faccio presente che è buona prassi, in democrazia, che all’opposizione (quale che essa sia) venga concessa un’ampia dose di impetuosità in più, in quanto forza controllante; mentre al governo, in quanto Potere da controllare, è richiesto un maggior rispetto verso la minoranza e un’attenzione rivolta soprattutto alla difesa argomentata dei suoi atti, non all’aggressione dell’opposizione. Un po’ come avviene o dovrebbe avvenire nella dinamica giornalista-ministro: se un giornalista scrive che un ministro evade le tasse, il compito del ministro è dimostrare che invece non le evade, non quello di attaccare il giornalista perché una volta ha rubato un disco in un negozio (e qui tralascio come questa grammatica di base della democrazia sia stata distorta da vent’anni di berlusconismo e di conflitto d’interesse, tracimando cognitivamente ben oltre i berlusconiani). 

Inoltre, la tesi secondo cui Renzi e i suoi hanno il diritto a comportarsi con l’opposizione da ultras perché così faceva e fa Grillo non sta in piedi anche per un motivo più pragmatico, che è quello a cui accennavo all’inizio di questo pallosissimo post.

E cioè che il risultato di questa delegittimazione procurerà forse un discreto successo ai suoi autori nell’indebolimento dei soggetti nel mirino (nel caso, sindacato e M5S), ma produrrà anche un travaso di opposizione sociale verso altri elementi che non auguro a nessuno di avere come protagonisti forti della politica: non solo la “Lega Nazionale” di Salvini che oggi Ilvo Diamanti dà già oltre il 10 cento, ma anche e soprattutto verso il fiorire di associazioni locali e comitati rabbiosi che sono composti per lo più da ceto medio proletarizzato, da persone che non avvertono di essere rappresentate da alcuna forza politica o sindacale, che sono quasi sempre analfabeti della democrazia e che – a dispetto di quanto pensa Poletti – hanno invece spesso diverse “ragioni valide” per instaurare il conflitto: ragioni che si chiamano crisi economica, disoccupazione, scarsissima fiducia nel futuro, prosciugamento dei risparmi, quindi appunto proletarizzazione; tutti elementi a cui va aggiunta, decisamente, una acuita concorrenza all’interno un welfare sempre più ristretto anche grazie ai continui tagli dei governi agli enti locali, da Tremonti a Renzi stesso. 

Ah, a proposito. Io vivo in un quartiere di Roma multietnico ma non periferico e, sostanzialmente, ancora pacifico. 

Tuttavia parlo, parlo molto con tutti, usando allo scopo soprattutto quell’ora in cui mia figlia corre tra lo scivolo e l’altalena dei giardinetti, vuoi di via Carlo Felice vuoi di piazza Vittorio. Beh, mentirei se dicessi che la tensione non è cresciuta anche qui, e parecchio. E, al netto di qualche individuo di idee razziste che pure esiste, il problema di fondo che mi pare registrare è proprio l’accresciuta concorrenza nei minori servizi di welfare e nelle possibilità di sopravvivenza. Nulla di nuovo, s’intende, ma nuova è forse la misura in cui questo avviene, quindi maggiori sono le contrapposizioni. Sto riferendomi alle code per un esame negli ospedali e per un posto negli asili nido, è ovvio. O, semplicemente, per il carnaio sugli autobus – e non parliamo nemmeno delle case popolari. Ma non sottovaluterei neanche quella specie di dumping che la liberalizzazione degli orari dei negozi ha causato, ad esempio, tra italiani e cinesi (ma ultimamente anche bangladeshi): avendo questi gruppi asiatici una struttura organizzativa allargata che consente loro aperture 7-24 impossibili o quasi per un commerciante italiano. A proposito, credo che tutti sappiate che molti cinesi – almeno quelli qui sotto, quelli che conosco io – talvolta non hanno bisogno di rivolgersi a una banca per aprire un esercizio commerciale, avendo efficaci sistemi di credito informali interni alla loro comunità. Non male, come differenza d’opportunità, in un periodo di stretta creditizia.

Forse l’ho fatta lunga, e me ne scuso. E so che ho messo insieme molte cose, anche troppo diverse. Ma in questo Paese sfilacciatissimo, e che mi fa pure un po’ paura, se anche il meno rozzo tra i ministri «non vede le ragioni valide a spiegare i conflitti», e per questo se la prende con Landini, ecco, non è che ci aiuti a stare più sereni.




  17 novembre 2014