Openpolis,
Parlamento di transfughi: 155 cambi di casacca in
meno di 2 anni
Peggio della
XVII
legislatura solo la precedente, quella dei responsabili Razzi e
Scilipoti, che
segnò 160 spostamenti. Ma durò 5 anni. A guadagnare di più il Pd che
segna un
saldo positivo di 18 parlamentari. Mentre Forza Italia lascia per
strada 58 persone.
Il record personale invece a Luigi Compagna, con 4 cambi di gruppo.
Giuseppe
Alberto Falci su il Fatto Quotidiano
| 1 dicembre 2014
Altro
che Scilipoti e Razzi, la diciassettesima legislatura
si accinge a battere ogni record di trasformismo. Dal marzo del 2013 ad
oggi,
stando ad un dossier diffuso nei giorni scorsi da openpolis, sono stati
155 i
cambi di casacca in poco più di due anni di legislatura. Numeri da
capogiro se
pensiamo che nella precedente, quella dal 2008 al 2013, quella della
campagna
acquisti di Silvio Berlusconi e della fuoriuscita di Gianfranco Fini e
dei suoi
fedelissimi dal Pdl, i voltagabbana si fermarono a quota 160. Questa
volta,
invece, il fenomeno appare fuori controllo e investe personaggi come
Angelino
Alfano, Fabrizio Cicchitto e Beatrice Lorenzin – che nel dicembre dello
scorso
anno in occasione del voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi
lasciarono il
partito dell’ex Cavaliere e fondarono Ncd – fino ad arrivare all’ultimo
dei
parlamentari.
Cifre
alle mano in cima all’elenco dei transfughi con ben
quattro spostamenti spicca il nome del senatore Luigi Compagna (Ncd).
Docente
universitario, alla quarta legislatura, da sempre definitosi un
liberale,
Compagna oggi milita nel Ncd di Angelino Alfano dopo esser stato eletto
nella
lista del Pdl, essersi iscritto per un solo giorno, il 19 marzo del
2013, al
gruppo “Misto”, avere abbracciato “Grandi Autonomia e Libertà”(Gal) per
otto
mesi, avere annusato per poche settimane il gruppo di Alfano ed essere
ancora
(ri)-tornato fra le fila del Gal. Oggi “l’ascaro di Berlusconi” – si
definì
così più di un anno fa in
un’intervista
al Messaggero – non ci sta a passare per “voltagabbana” e si giustifica
così:
“Dal Gal sono andato al Ncd per votare con convinzione la fiducia al
governo
Letta”.
La
medaglia di argento spetta invece a Paolo Naccarato. Lo
storico collaboratore di Francesco Cossiga eletto fra le fila della
Lega Nord,
passa quasi subito a Grandi Autonomie e Libertà per poi trasferirsi nel
Ncd e
ora ancora nel Gal. Conoscitore delle dinamiche del palazzo come pochi,
in
queste ore esorcizza nel segno della “responsabilità” il ritorno alle
urne:
“Oggi Farinetti dice: ‘Fatta la legge elettorale, Renzi vada al voto
nel
2015′”. Io dico no,
sto con Napolitano,
le elezioni
anticipate sono un’anomalia
italiana”.
Poco
sotto ottiene la medaglia di bronzo la deputata Fucsia
Nissoli. Folgorata dall’ex premier Mario Monti, ha militato fino ad
oggi in tre
gruppi diversi: Scelta Civica per l’Italia, il “Misto”,“Per l’Italia”.
E,
secondo le malelingue di Montecitorio, sarebbe attratta dal nuovo corso
renziano di Largo del Nazareno. La lista continua e annovera ex
comunisti come
Gennaro Migliore, che da vendoliano di ferro è rimasto folgorato sulla
strada
della Leopolda. E oggi è fra gli animatori del fronte dei renziani
della
seconda ora. Per non parlare del siciliano Giuseppe Compagnone. La sua
è una
storia nel segno della “responsabilità e dell’autonomia”. Da
fedelissimo di
Raffaele Lombardo è stato candidato ed eletto nelle liste campane del
Pdl. Nel
marzo del 2013 aderisce al Misto, ma dopo qualche giorno comprende che
il suo
habitat naturale risiede nel gruppo del Gal.
Ad
ogni modo analizzando dettagliatamente il dossier di
openpolis si scopre che dal rimescolamento dei gruppi parlamentari ci
guadagna
maggiormente il Pd di Matteo Renzi. Tra Camera e Senato Largo del
Nazareno
segna un saldo positivo di più 18. In questi mesi il gruppo democrat è
cresciuto maggiormente, e, secondo le rilevazioni del centro studi, gli
acquisti sono tutti avvenuti dopo la scalata di Renzi a Palazzo Chigi.
Forza
Italia, invece, è il partito con il saldo negativo maggiore – il termometro segna meno
58 – in virtù della
fuoriuscita della compagine alfaniana che fra Monetcitorio e Palazzo
Madama
annovera circa 60 parlamentari. Saldo negativo anche per il Movimento
Cinque
Stelle che da inizio legislatura ha perso ben 22 parlamentari. Un saldo
negativo che rischia di peggiorare giorno dopo giorno. In virtù dello
tsunami
interno al movimento di Grillo e Casaleggio.
Legge di
stabilità, ecco chi ci guadagna
Nelle pieghe
del
bilancio dello Stato approvato alla Camera ce n'è per tutti. Dai 100
milioni di
euro per i lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo alle
detrazioni per
i politici che finanziano i propri partiti. E perfino imposte
cancellate su
misura, nonostante la multa della Guardia di finanza.
Michele
Sasso
su l'Espresso
| 1 dicembre 2014
Domenica
30 novembre: la Camera approva il disegno di legge
di stabilità con 324 voti favorevoli e 108 voti contrari. Dopo le tre
fiducie
di sabato sera, ora la legge è all’esame dei senatori che devono
approvarla
entro metà dicembre per il via libera definitivo di Montecitorio entro
Natale.
In ballo ci sono 36 miliardi di euro da spendere , soddisfando una
serie di
voci.
Come sempre in
Parlamento, il percorso della legge viaggia
su due binari: l’attività politica con il tour de force dei
parlamentari
impegnati per tutto lo scorso week-end, e parallelamente l’attività di
lobby,
la ricerca di corsie preferenziali e i movimenti sotto traccia. Con
l’assalto affannoso
al carro degli emendamenti cuciti su misura.
Puntuali,
ecco che dal bilancio dello Stato spuntano norme
ad hoc: finanziamenti, detrazioni fiscali, imposte aggirate. Basta la
manina
giusta che le inserisce nelle pieghe della legge e il gioco è fatto:
dai
lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo fino alle detrazioni
per i
politici che aiutano il proprio partito.
CENTO MILIONI
PER I
SOCIALMENTE UTILI
Per aiutare i
lavoratori socialmente utili (i cosiddetti
Lsu, nati negli anni novanta con l’intento di inserire soggetti
svantaggiati
nel mercato del lavoro) ogni anno servono cento milioni di euro.
Risorse che
finiscono direttamente ai comuni di Napoli e Palermo per tenere in
piedi un
sistema assistenziale.
La
legge di stabilità prevede la costituzione di un fondo
destinato alla stabilizzazione e al finanziamento di nuovi progetti.
Senza
questi soldi dello Stato a Palermo rischierebbero il posto ben 2.356
addetti
tra cui amministrativi, vigili urbani e collaboratori dei servizi
scolastici.
In Campania sono 1.300 persone.
La
sopravvivenza del fondo non è però scontata. A fine
ottobre era saltato per volere dei leghisti della commissione Bilancio
della
Camera. Ed ecco che un mese dopo rispunta come emendamento: stanziare
100
milioni di euro ogni anno dal 2015 e quindi 100 milioni di euro annui
“a
decorrere dal 2018” per stabilizzare i lavoratori socialmente utili
«previa
convenzioni con i comuni interessati». In pratica assunzione senza
concorso
dopo anni di battaglie, picchetti e precarietà.
«Non
è cedendo ai ricatti che cambieremo verso» commenta il
deputato di Scelta Civica Irene Tinagli: «Così si stabilizza una
pratica figlia
di una cattiva politica. Chiedo ai colleghi del Pd di chiarire e
intervenire.
Che questa misura di stabilizzazione venga dal governo Renzi, che
proprio nei
giorni scorsi nel Jobs Act ha ribadito che i lavori socialmente utili
non
devono creare aspettative di stabilizzazione mi pare una contraddizione
profonda».
Due
pesi e due misure per accontentare i compagni di governo
del Nuovo centrodestra, che infatti esultano.
«Siamo
soddisfatti per l'ok da parte del governo al nostro
ordine del giorno sui lavoratori Lsu e progetti socialmente utili» ha
spiegato
Dore Misuraca, responsabile degli enti locali degli alfaniani.
PRIMA IL PARTITO
Nel capitolo
detrazioni fiscali spunta un regalino per i
politici stessi: sconto sulle tasse pari al 26 per cento per chi
finanzia il
proprio partito.
Come
previsto dalla legge del Governo Letta sul finanziamento
pubblico ai partiti le “erogazioni liberali” alle formazioni politiche
possono
essere detassate. Un anno dopo le “erogazioni liberali” si trasformano
in
detassazioni su misura.
Il
motivo è semplice: non si tratta per nulla di contributi
volontari da parte degli eletti, ma di obbligo vincolante scritto nero
su
bianco nello statuto del Partito democratico e di Forza Italia. Così
con la
legge di stabilità le due formazioni più grandi trovano una soluzione
che non
scontenta nessuno.
A
scoprire l’auto-aiuto il movimento cinque stelle, come
spiega il questore grillino Laura Bottici: «Alcuni senatori scaricano i
versamenti al partito nella rendicontazione quadrimestrale come spese
per
l'esercizio del mandato. I rimborsi spese sono esenti dalle tasse e
quindi non
è obbligatorio inserirli nella dichiarazione dei redditi. Se si
ricevono i
rimborsi (anticipati) per i soldi spesi e non si devono dichiarare, e
allo
stesso tempo si possono dichiarare le stesse somme spese godendo delle
detrazioni siamo di fronte ad un doppio vantaggio».
L'obiettivo
implicito dei partiti è recuperare dagli eletti
inadempienti che si rifiutano di versare periodicamente l'obolo,
garantendo
loro meno tasse e un altro privilegio.
Per
contrastare questa brutta pratica i senatori grillini hanno
presentato un disegno di legge che chiede l'obbligo di rendicontazione
per
tutti gli eletti dei rimborsi spese e per la parte eccedente non spesa
è
prevista la restituzione o la tassazione come normale reddito. Per ora
finito
su un binario morto.
ITALIA
MARITTIMA
SALVATA
Il
Parlamento e i democratici friulani non si dimenticano di
Italia Marittima. Un aiutino “ad aziendam” inserito in fretta e furia
nella
legge di Stabilità per la compagnia di trasporto marittima (erede
dell’ex Lloyd
Triestino e braccio italiano della taiwanese Evergreen) che ad ottobre
ha
ricevuto una multa da 60 milioni di euro per errata applicazione della
“tonnage
tax”, il regime fiscale forfettario per le navi a tratta internazionale
che
viene applicato in tutta Europa.
Il
presidente di Italia Marittima, Pierluigi Maneschi, non
si era fatto trovare impreparato e aveva dichiarato, in caso di
conferma della
sanzione, a di essere pronto a «spostare la sede legale e le attività
in altro
Paese comunitario».
Immediata
la presa di posizione dei parlamentari democratici
del Friuli Venezia Giulia Lodovico Sonego, Francesco Russo e Giorgio
Brandolin,
che hanno promesso di «muoversi sia in sede parlamentare che nei
confronti del
governo».
Non
c’è stato bisogno di nessun trasloco e mercoledì sera in
commissione Bilancio è spuntato un emendamento del relatore Pd Mauro
Guerra:
esonero per le navi italiane in acque internazionali dalla ritenuta
fiscale del
30 per cento sul suo noleggio o sul noleggio di attrezzature.
Cioè
proprio l’imposta che, secondo la Guardia di finanza,
Italia Marittima non ha pagato per i periodi in cui si spostava in
acque
internazionali.
«A
perderci sono di sicuro le casse dello Stato italiano» ha commentato
Daniele
Pesco, deputato grillino che si è opposto alla proposta di modifica.
Ovviamente
senza successo.
Il governo
della mobilità 1: Libertà condizionata e mobilità
vigilata
Lavoro
insubordinato su Connessioni precarie
| 1 dicembre 2014
Recentemente il primo ministro britannico David Cameron ha
affermato che «la libertà di movimento non è un diritto
incondizionato». Detta
in altri termini, la libertà di movimento può essere limitata. Le
parole di
Cameron esprimono chiaramente lo spirito dei tempi. In vari paesi
europei,
infatti, si assiste non solo a un’erosione dei diritti sociali
parallela a una
generalizzata precarizzazione del lavoro, ma anche – in particolare in
paesi
che a partire dalla crisi sono diventati mete di un crescente flusso
migratorio
di cittadini comunitari, come Regno unito e Germania – a una
tendenziale
restrizione delle possibilità di accesso ai diritti di welfare da parte
dei
migranti, interni ed esterni. Le misure nazionali adottate per
restringere la
libertà di movimento non contraddicono le dichiarazioni dell’Unione
Europea,
che considera la mobilità interna come un elemento positivo per
omogeneizzare
lo spazio dell’Unione in quanto permette di colmare gli scarti tra
domanda e
offerta di lavoro, i differenziali di «capitale umano» e dei tassi di
disoccupazione. Si tratta piuttosto di due facce di uno stesso governo
della
mobilità che, mentre favorisce gli spostamenti funzionali al profitto e
in
linea con l’organizzazione regionale della produzione, contrasta la
pretesa che
milioni di migranti interni ed esterni hanno di non servire come forza
lavoro
usa e getta e di potere effettivamente scegliere dove andare e dove
stare. Dopo
che per anni, soli e inascoltati, i migranti extraeuropei hanno
rivendicato la
libertà di movimento, ora il problema comincia a investire anche i
cittadini
dell’Unione Europea. Anche chi da tempo sostiene che la condizione dei
migranti
avrebbe anticipato quella degli europei non ha però particolari motivi
di
soddisfazione. Lo spazio della libera circolazione di merci e persone è
ormai
solcato da gerarchie e differenze che ogni giorno colpiscono milioni di
uomini
e donne. La specifica condizione dei migranti extraeuropei non viene
per questo
cancellata, ma milioni di altri lavoratori iniziano a fare esperienza
dell’inclusione parziale e temporanea che essi subiscono
quotidianamente.
Durante la
crisi, la mobilità interna all’UE è nel complesso
cresciuta sebbene in maniera disomogenea, differenziandosi secondo gli
squilibri salariali e il rapporto tra domanda e offerta di lavoro.
Rispetto
agli anni prima della crisi, cioè dal 2004 al 2008, il flusso dai paesi
del Sud
dell’Europa è aumentato del 38%. I migranti dall’Europa centrale e
dell’Est
continuano però a costituire la quota maggiore di migranti interni
(58%) mentre
quelli dal Sud dell’Europa costituiscono il 18% del totale. Nel
complesso, i
migranti interni sono circa 13 milioni. Parallelamente all’aumento
della
mobilità interna, si è diffusa la retorica del turismo sociale, cioè
l’idea
secondo cui le migrazioni verso i paesi più ricchi dell’Unione siano
motivate
dall’intenzione di sfruttare il loro sistema di welfare: d’altronde si
sa che
con questa crisi nessuno ha il tempo e la possibilità di farsi una
vacanza
decente. Quindi perché non andare a farsi sfruttare più o meno
regolarmente in
qualche bar di Londra? Dicono che con i soldi dei sussidi di
integrazione al
reddito si fa la bella vita. Ma chi è che ottiene davvero il premio
vacanze? La
retorica del turismo del welfare, come viene anche chiamato, è smentita
dai
dati che mostrano che il tasso di occupazione dei migranti è superiore
rispetto
a quello dei residenti nel paese ospitante. Essa, tuttavia, si
comprende solo se
la si inserisce nel contesto della radicale scissione tra lavoro e
diritti che
si sta affermando nella cornice europea e che la crisi ha contribuito
ad
approfondire. Più che di un’erosione dei diritti legati al lavoro,
dovuta alla
diffusione generale della precarietà, si tratta di un’intermittenza dei
diritti, che i migranti non europei vivono sulla loro pelle da decenni
ben
sapendo che il prezzo dei diritti è la coazione al lavoro. Sia che si
tratti di
benefici riconducibili al pagamento dei contributi, sia che si tratti
di
prestazione assistenziali i diritti tendono sempre più a essere
presentati come
privilegi che devono essere di volta in volta acquistati impiegando
porzioni di
reddito. I diritti incondizionati sono ormai molto pochi. Proprio per
questo,
su scala nazionale e continentale la regolamentazione dell’indennità di
disoccupazione è una delle chiavi di volta del governo della mobilità.
In una
situazione in cui la disoccupazione non è una condizione eccezionale,
ma
strutturale dato il frequente passaggio da un lavoro a un altro, negare
l’indennità di disoccupazione significa negare la possibilità materiale
di
godere del diritto alla libertà di movimento e promuovere una libertà
completamente piegata alle esigenze del mercato del lavoro
transnazionale.
In questo
quadro si inseriscono i tentativi, in particolare
di Belgio, Germania e Gran Bretagna (ma si ricordino anche le
espulsioni dei
rom dalla Francia nel 2010) di negare il godimento dei diritti di
welfare ai
migranti interni, tentativi che hanno aperto un dibattito sulla loro
conformità
alle direttive europee. Oltre agli accordi di Schengen, sono due le
fonti
principali di diritto che disciplinano il sistema interno della UE: la
direttiva 2004/38 e il regolamento 883/2004. La direttiva afferma «la
libertà
di circolare e soggiornare liberamente all’interno degli Stati membri»
e lega
il godimento dei diritti di welfare alla presenza di un rapporto di
lavoro,
alla dimostrazione che si sta cercando un lavoro e che si è
potenzialmente
occupabili oppure alla dimostrazione di un reddito sufficiente. Sotto i
tre
mesi e sopra i cinque anni il soggiorno è senza condizioni. Questa
direttiva,
in altri termini, vincola il diritto di residenza dei cittadini UE alla
disponibilità di risorse economiche sufficienti affinché i migranti
interni non
diventino un onere a carico dell’assistenza sociale del paese
ospitante. Il
regolamento dello stesso anno mira, invece, a promuovere la
«totalizzazione»
dei periodi di pagamento dei contributi, ovvero un calcolo globale dei
contributi versati, in modo tale che vengano calcolati anche quelli
pagati nel
paese di provenienza per valutare il diritto o meno a determinate
prestazioni
di welfare. L’indennità di disoccupazione, ad esempio, dovrebbe essere
elargita
tenendo conto dei periodi di lavoro maturati nei due o più Stati membri
in cui
il singolo si è trovato a lavorare.
L’11 novembre
scorso la Corte di Giustizia Europea,
esprimendosi su un caso che ha avuto luogo in Germania, ha confermato
che i
benefici assistenziali devono essere negati a chi non sia alla ricerca
di
lavoro e non abbia un reddito sufficiente a mantenersi. Del resto a
settembre
la Commissione ha espresso in un report il proprio favore per
l’introduzione in
Germania di misure volte a limitare gli «abusi» da parte dei cosiddetti
«turisti sociali». L’obiettivo è quello di «limitare gli ostacoli
esistenti
alla libera circolazione dei lavoratori, tra cui la scarsa
consapevolezza delle
norme UE da parte dei datori di lavoro sia pubblici sia privati e le
difficoltà
incontrate dai cittadini mobili nell’ottenere informazioni e assistenza
negli
Stati membri ospitanti». In quest’ottica, è ammessa la negazione del
diritto di
soggiorno a cittadini europei che abbiano mentito per ottenere i
benefici
nonché la possibilità di rifiutare i diritti di welfare ai figli di
migranti
che non risiedono in Germania. Nel report in questione, tuttavia, non
ci si
pronuncia sulla legge che proprio in questi giorni il parlamento
tedesco sta
votando in cui si prevede di limitare a 6 mesi il tempo in cui un
migrante
comunitario può godere dell’indennità di disoccupazione una volta perso
il
lavoro. Come è evidente, il welfare diviene uno strumento per governare
la
libera circolazione in funzione della domanda di lavoro. Per questo, la
sentenza della Corte di Giustizia, anche se non è di per sé innovativa
e si
attiene al quadro normativo esistente, è stata salutata come
un’importante
vittoria nella lotta contro il turismo sociale. L’interpretazione
restrittiva
delle norme sulla libertà di movimento è considerata uno strumento per
abbattere il tasso nazionale di disoccupazione senza contrastare
l’allargamento
del bacino di lavoratori precari, part-time e sottopagati e l’obbligo
di
accettare ogni lavoro a ogni condizione. Se come abbiamo detto i dati
smentiscono
la retorica del turismo sociale, è invece evidente che il premio
vacanze in
questa fase se lo godono gli Stati, facendo un turismo sfrenato sulle
prestazioni lavorative dei migranti, interni ed esterni, che pagano
contributi
che non vedranno mai, ma anche su quelle dei cittadini ai quali, mentre
si
riducono i salari all’osso, si può sempre raccontare la storia, ormai
un
best-seller, che i migranti rubano loro il lavoro.
Nel caso
tedesco, il compito di verificare l’effettiva
ricerca di lavoro da parte dei migranti comunitari è affidata ai job
center,
che tanto interessano al governo Renzi come modello per l’Agenzia Unica
prevista nel Jobs Act. Si apre così un altro capitolo delle politiche
relative
al turismo sociale, che riguarda l’aumento dei controlli sui migranti
per
testare il loro grado di «occupabilità» e la disponibilità ad accettare
le
proposte di lavoro che vengono loro fatte. Coerentemente con un governo
della
mobilità orientato alle esigenze momentanee del mercato, gli enti di
controllo
hanno ampi margini di discrezione quando si tratta di definire una
condizione
di «inattività» o «inoccupabilità». Attenzione, il messaggio è questo:
non è
più tempo di andare in un altro paese per costruirsi una vita, o fare
un’esperienza, o sfuggire al ricatto della precarietà: se ti sposti non
avrai
scampo, perché l’Europa promuove la libertà di sfruttamento. Se non sei
disposto a farti sfruttare, puoi stare a casa tua. Questo è evidente
nel caso
belga. Il Belgio è stato richiamato nel 2013 da una nota della
Commissione
perché ha espulso negli ultimi anni più di 7000 cittadini comunitari
secondo il
principio che, se sei disoccupato da più di sei mesi e hai lavorato
meno di
dodici mesi, sei un inutile peso per le casse dello Stato. Per
individuare tali
«fardelli», sono stati attivati dei controlli sistematici,
espressamente
vietati dalla Commissione, per verificare l’attuale situazione
lavorativa di
migliaia di uomini e donne, in un contesto in cui i parametri
dell’occupabilità
non sono chiari e dunque si lascia ampio spazio all’interpretazione. Un
altro
significativo esempio riguarda il criterio adottato per ottenere il
«credito
universale» che, in alcune parti del Regno Unito, ha sostituito il
sussidio di
disoccupazione: esso è vincolato per i migranti, tanto esterni quanto
interni
alla EU, all’esistenza di «realistiche prospettive» di ottenere un
lavoro e al
possesso di determinati requisiti, tra cui la conoscenza della lingua
inglese.
A ciò si accompagnano, in Gran Bretagna, controlli settimanali per
verificare
che si stia effettivamente cercando lavoro e che non si rifiutino
offerte di
lavoro, di qualsiasi tipo esse siano. Insomma, non si sputa nel piatto
in cui
si mangia, anche se la cucina inglese fa discretamente schifo, in
particolare
quella che paghi con uno stipendio da fame lavorando per i manager
incravattati
della capitale finanziaria.
Tornando al
caso belga, i provvedimenti del governo che
hanno condotto alle espulsioni si scontrano anche con il regolamento
che
prevede la totalizzazione dei contributi nei vari Stati in cui si è
lavorato,
che è ignorato considerando solo la residenza in Belgio. La
trasformazione dei
diritti in privilegi non riguarda, dunque, solo il welfare
assistenziale, ma
anche il welfare contributivo nel suo complesso. Non stupisce che nei
discorsi
sul turismo sociale raramente vengano menzionati i contributi che i
migranti
pagano e che spesso, o perché vengono espulsi o perché se ne sono
andati, non
vengono più restituiti in nessuna forma. Il governo inglese, che ha
salutato con
particolare favore la sentenza della Corte di Giustizia, non considera
probabilmente il fatto che il 60% dei migranti interni che arrivano in
Gran
Bretagna sono laureati, ma soprattutto che essi beneficiano, secondo le
stime,
solo del 64% di ciò che hanno versato come contributi, e costituiscono
perciò
una fonte netta di ricchezza per il paese ospitante, non certo una
forma di
«parassitismo». Rispetto al decennio precedente, oggi i migranti
interni ed
esterni hanno il 43% delle possibilità in meno di godere di benefit
sociali,
anche perché la prassi di chiedere loro sempre più documenti per
dimostrare la
loro «regolarità» crea sempre nuovi ostacoli alla possibilità di godere
del
welfare. Anche se si pagano i contributi, pare che una volta perso il
lavoro, condizione
sempre più frequente in un contesto in cui la precarietà è diventata la
norma,
si debba semplicemente togliere il disturbo. La vita del turista
sociale è
piuttosto dura per essere quella di un vacanziere: dovrebbe essere
disposto a
farsi sfruttare in qualsiasi impiego per qualsiasi salario e a regalare
i suoi
contributi allo Stato che gentilmente lo sfrutta e che non gli dà un
soldo
finché non è in grado di dimostrare che è lì davvero, con entusiasmo,
per
vendersi la pelle. A queste condizioni, i diritti di welfare più che il
premio
vacanze inseguito dai migranti in giro per l’Europa sembrano briciole,
pane
secco, che gli Stati vendono a prezzo d’oro.
Nel
contesto di una generale riduzione dei servizi di welfare sono infatti
riconoscibili tendenze che vanno verso una regionalizzazione della
cittadinanza
europea. Un processo che però non segna il ritorno del vecchio Stato
sociale
nazionale, della sua cittadinanza e del suo regime di inclusione ed
esclusione.
L’azione di confini spaziali – come quelli nazionali – e di confini
temporali –
come quelli definiti dalla coazione all’occupabilità – sui movimenti di
questa
forza lavoro transnazionale produce una ridefinizione degli spazi e dei
tempi
della cittadinanza sociale in Europa che la rende definitivamente
intermittente. La negoziazione quotidiana delle prestazioni del welfare
è la
forma più violenta e diffusa di espropriazione. Come se non bastasse lo
sfruttamento del salario, ogni giorno milioni di lavoratrici e di
lavoratori
vengono espropriati amministrativamente di una quota del loro reddito,
essendo
loro negato ciò che è loro dovuto e in quanto gli si fa pagare a caro
prezzo
ciò che è necessario. I diritti negati sono l’espropriazione materiale
delle
possibilità di organizzare autonomamente la propria vita e la propria
mobilità.
La pratica della libertà di movimento è il modo attraverso il quale
migliaia di
uomini e donne cercano individualmente di sottrarsi al regime del
salario,
anche accettando di lavorare in condizioni di irregolarità che sono
meno
esposte ai nuovi controlli e possono rivelarsi più redditizie in quanto
non
comportano il versamento di contributi a fondo perduto. Tuttavia, è
necessario
creare le condizioni affinché questa risposta sia organizzata sulla
stessa
scala dell’attacco che abbiamo di fronte. Contro queste spinte la
rivendicazione di un welfare europeo e di un salario minimo europeo
significa
la materiale conquista della libertà di movimento e la possibilità di
sottrarsi
alle condizioni e agli ostacoli che il governo della mobilità mira a
imporle.
Un welfare europeo e un salario minimo europeo sono necessari per
sottrarsi
alla libertà di sfruttamento e di espropriazione imposta dall’Europa
degli
Stati. Welfare e salario minimo devono perciò avere una portata europea
non solo
per rispondere a un attacco che, pur articolandosi su differenti
livelli e
scale di potere, ha una portata europea, ma anche e soprattutto perché,
se
pensati in chiave nazionale, diventerebbero un nuovo strumento per
produrre
vecchie gerarchie e intollerabili discriminazioni.
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