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11 settembre 2016


FALLINGH MAN
foto  Richard Drew/dapd

La storia della foto del “Falling man”
La storia della foto più famosa e impressionante scattata l'11 settembre 2001: un uomo che precipita in maniera composta, quasi come in un tuffo
su ilpost.it

La storia delle stragi dell'11 settembre è un'immensa storia di immagini, riempita a sua volta di mille storie diverse, entrate nella memoria collettiva in una serie di scatti e dirette e video di quel giorno. E dentro ha le storie delle persone morte quel giorno, molte delle quali si mescolano nel numero complessivo delle vittime, e una delle quali è raccontata in una fotografia divenuta simbolo di un sacco di cose, non solo di quel giorno ma anche dei modi con cui gli americani reagirono a quel giorno.
È la fotografia del “Falling Man”, l'uomo che cade.
La scattò l'11 settembre alle 9 e 41 minuti e 15 secondi Richard Drew, un fotografo dell'agenzia Associated Press che aveva visto passare altri momenti della storia durante la sua carriera. Quando aveva 21 anni si trovava accanto a Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza, nel momento in cui venne ucciso in un albergo di Los Angeles, nel 1968. Il sangue gli finì addosso, e lui scattò le immagini di Kennedy mentre moriva, mentre Ethel Kennedy lo abbracciava e chiedeva ai fotografi di non farlo, di non scattare. La mattina dell'11 settembre Drew era stato mandato al Bryant Park di Manhattan – una cinquantina di isolati a nord del World Trade Center – per fotografare una sfilata di moda premaman: c'era anche una troupe della CNN, e un cameraman ricevette in cuffia la comunicazione che un aereo si era schiantato contro una delle torri gemelle. Subito dopo l'agenzia chiamò Drew e gli disse di andare là. Drew prese la metropolitana che funzionava ancora e scese alla fermata di Chambers Street, da dove sbucò per trovarsi di fronte le due torri avvolte nel fumo: il secondo aereo aveva centrato la torre Sud. La gente guardava in alto e urlava: si vedevano persone saltare giù dalle torri.
Drew cominciò a scattare.
In quei momenti un aereo centrava il Pentagono. Dopo poco la torre Sud crollò, seguita dalla Nord: Drew, scattando ancora, capì che doveva togliersi di lì e rientrò negli uffici di Associated Press.
Tra le foto che aveva fatto alle persone in caduta libera dalle torri, alle persone che andavano a morire schiantandosi a terra in fuga da altre morti, una lo colpì subito per la sua potenza formale e simbolica: sullo sfondo di linee verticali delle due torri, precisamente a separare il profilo di una da quella dell'altra, la sagoma di un uomo verticale e capovolta, con le braccia allineate al corpo e una gamba compostamente piegata, come in un tuffo, come una freccia, era stata bloccata nella fotografia, ferma e rivelatrice di velocità insieme. Era una foto pazzesca. Uscì sui giornali di tutto il mondo il giorno dopo.


BOATS

La storia dell'armata di barche che portò in salvo i "naufraghi" dell'undici settembre
Anna Guaita su Il Messaggero

NEW YORK – Per anni, ricordando l'Undici Settembre, abbiamo pensato alle vittime, agli eroi che tentarono di salvarli, agli assassini che avevano pilotato gli aerei, ai passeggeri portati a schiantarsi contro le pareti delle Torri Gemelle. Ma negli occhi abbiamo anche altre immagini, quelle di coloro che sfuggirono alla carneficina, quelle di migliaia e migliaia di persone rimaste bloccate nell'isola di Manhattan, i "naufraghi" dell'Undici Settembre. Ricordiamo la file di donne e uomini che camminavano sul Ponte di Brooklyn per tornare a casa, molti ricoperti di polvere bianca, fantasmi con gli occhi pieni di orrore. Ma per tutti coloro che dovevano tornare nel New Jersey, al di là del fiume Hudson, o a Staten Island, al di là della Baia, la storia fu diversa. Erano rimasti bloccati: se per tornare a Brooklyn c'era il ponte, i tunnel erano chiusi, le metropolitane bloccate, la stazione sotto le Torri Gemelle distrutta. Solo ora, e grazie allo studio di due professori dell'Università del Delaware, capiamo quanto gigantesco, spontaneo e coraggioso sia stato lo sforzo di centinaia di volontari per riportare a casa i “naufraghi” di Manhattan.  Mezzo milione di persone riuscì a tornare a casa grazie a un'armata improvvisata di traghetti, rimorchiatori, barche a vela, motoscafi. Quasi mille imbarcazioni si diressero verso Battery Park, la punta sud di Manhattan, sfidando il fumo nero e il caos. Fu – dicono James Kendra e Tricia Wachtendorf, codirettori del Disaster Research Center della Università del Delaware – una missione epica, da paragonare a quella di Dunkirk nella seconda guerra mondiale, quando 300 mila soldati britannici intrappolati sulle spiagge francesi furono salvati da un'armata di piccole imbarcazioni di volontari.
 
“American Dunkirk”, l'affascinante e impegnativo studio dei due ricercatori,  ricostruisce dopo 15 anni quella massiccia evacuazione via acqua. Avvenne spontaneamente, non appena la Guardia Costiera lanciò un unico e straziante messaggio: «Catastrofe al World Trade Center, ogni imbarcazione disponibile è chiamata in soccorso». Niente altro: senza ordini, senza piani di navigazione, senza una organizzazione, scattò una “reazione creativa e pragmatica” da parte della comunità marittima, che seppe muoversi senza una guida dall'alto, che non ebbe timore di tuffarsi verso il centro della catastrofe invece che scapparne.
 
Le barche erano di ogni tipo: c'erano i traghetti che fanno normalmente servizio fra  Manhattan e Staten Island e Manhattan e il New Jersey. C'erano i rimorchiatori che guidano le navi e le chiatte dentro la Baia, le imbarcazioni degli operatori turistici che organizzano minicrociere intorno a Manhattan, c'erano i motoscafi di centinaia di comuni cittadini, e perfino una storica barca a vela, di proprietà del capitano Patrick Harris, che per l'appunto era attraccato al porticciolo sotto le Torri Gemelle. Harris si mise subito in moto, e ricorda che era immerso nel fumo, e non vedeva a dieci metri. Navigava lentamente, quando il vento cambiò direzione e di colpo ebbe la vista chiara: «Vidi sei rimorchiatori che stavano avanzando verso Manhattan, stava cominciando la mobilitazione».
 
Il capitano Rich Naruszewicz, che pilotava il traghetto sull'East River fra Brooklyn e l'attracco della 34esima strada, si diresse subito verso sud, e vede i primi scampati: «Sembravano in trance, uscivano da una nuvola di polvere bianca e grigia, erano smarriti, confusi». Alan Michael, capitano di una imbarcazione turistica, ha raccontato «Non avevamo ordini di nessuno, ci arrangiavamo fra di noi, comunicavamo con i megafoni». Così le barche furono attraccate dove capitava, non solo ai moli, ma talvolta ai pali della luce, agli alberi: giusto quei pochi minuti per lanciare la passerella, far salire i “naufraghi” e ripartire.
 
Presto nel caos si trovò un ordine: i capitani di ogni singola nave tenevano un cartello con su scritto la loro destinazione, o la gridavano nel megafono: Hoboken o Jersey City nel New Jersey, o Bay Street a Staten Island. La gente si metteva in fila e ordinatamente saliva a bordo. Dall'altra parte dell'Hudson e della Baia intanto anche gli autisti di autobus e tassi si erano mobilitati, insieme a migliaia di altri volontari.  Ai luoghi dell'attracco c'erano persone con catini d'acqua, spugne, magliette pulite. Tanti poterono lavarsi di dosso la polvere, indossare un capo pulito, e poi ottenere un passaggio a bordo di automobili o autobus che li portavano a casa.
 
Una volta scaricati i naufraghi, le imbarcazioni caricavano invece vigili del fuoco, volontari, infermieri, medicinali, tutto quel che serviva ai soccorritori che stavano lavorando alle rovine delle Torri. «Non ci fu nessun piano – scrivono i due ricercatori – ma l'immediata comprensione di cosa si poteva fare». La catastrofe fu di fatto frantumata in tanti piccoli “bocconi”, masse di volontari aiutarono in mille piccole iniziative, e le autorità non pretesero di dettare legge. La flotta improvvisata contò fra le 900 e le mille imbarcazioni. Negli anni che seguirono, furono date 900 medaglie al valor civile ai piloti che sfidarono il caos, il fumo acre, la paura di nuovi attacchi. E non ci fu neanche un singolo incidente, un taglio, una gamba rotta, uno scontro. Tutti filò liscio. Nell'immane disastro, il sangue freddo e la solidarietà della comunità marittima fu davvero eroica: «E' la legge del mare – ha spiegato un capitano di un traghetto -. Se qualcuno è in difficoltà, vai ad aiutare».

  11 settembre 2016