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30 aprile 2018

Afghanistan
Barbara Schiavulli su FB

foto di Steve Mc Curry

Qualche giorno fa qualcuno davanti a una limonata a Trastevere, mi ha detto, “non ho mai sentito parlare dell'Afghanistan come hai fatto tu, perché ami tanto quel posto?”. Forse esistono parole per descrivere un luogo, ma non esistono quelle per spiegare l'amore verso un posto che non è necessariamente vincolato dagli schematici confini decisi da qualcuno. Non amo l'Afghanistan per il suo nord, sud, est o ovest, lo amo per quello che rappresenta.

L'Afghanistan non è situato esattamente in quel posto geografico dove basta puntare un dito su una cartina per intrappolarlo. L'Afghanistan per me è un colore, un'emozione, qualcosa che non si definisce ma si sente, c'è dentro Kabul, ma anche Gerusalemme, c'è Caracas e Sanaa. Ha la barba curata di un tagico, gli occhi dolci di un azara, lo sguardo fiero di un pashtun. Ha le mani di una donna che fa il pane, ha la rabbia di una gazzella che combatte contro un leone. Ha la ragione delle cause perse ma che non si mollano perché arrendersi non è un'opzione. L'Afghanistan è quel ramo che non si piega, è quella risata che si spalanca davanti a una battuta inattesa. L'Afghanistan è il dolore delle storie non raccontate. E' la mia terra gemella, se ne esiste una per ogni persona.

E' duro, crudele, implacabile e a volte spaventoso, ma è anche il rosa delle montagne tinte al tramonto. E' lo scroscio violento dei fiumi nelle foreste del Panshir che poi si calmano a Jalabad dove la campagna diventa saggezza. L'Afghanistan è analfabeta con l'intelligenza di chi non sa che se ne avesse l'opportunità sarebbe più intelligente di molte persone che hanno i mezzi. L'Afghanistan brucia, esplode, ha la terra intrisa del sangue dei miei amici passati e futuri, ma non muore, perché si lascia raccontare. Con il suo mormorio, che sa di brezza, non permette a nessuno di dimenticare. Ha il suono della musica che volevano vietare e l'immagine degli aquiloni che volano legati ad un cordino tirato da un bambino. Ha il colore azzurro dei burqa modellati dal vento, e lo spessore della polvere che ti si appiccica addosso, è la terra del mondo che ti imprigiona.

Non ci sarà bomba, razzo, scontro a fuoco, che potrà fermarla per un'istante. Chi è stato in Afghanistan, non sui mezzi militari o trincerato negli edifici super protetti delle organizzazioni internazionali o nelle ambasciate, sa di cosa parlo. Sa cosa significa camminare per le viuzze di Kabul, essere costretti a scacciare i bambini che ti si gettano addosso perché ti vogliono vendere un quadratino di carta igienica e invece poi ti siedi sul marciapiedi e fai boccacce davanti ai loro sguardi che traboccano di sorpresa. Chi è quasi inciampato negli scoli a cielo aperto lungo i marciapiedi, chi è entrato nelle case, nelle scuole, negli ospedali, nei manicomi, nei centri antiviolenza, sotto al ponte dove ogni braccio ha una siringa infilata, nei cimiteri, nelle carceri, negli orfanotrofi, nelle prigioni, nei campi, nei rifugi, nei parchi, nei mercati, nei ristoranti, nelle grotte, nei negozi, sa.

In queste persone, memorie di immagini, di storie e di parole, risiede la forza e il dovere di raccontarlo, di far sapere che l'Afghanistan non è solo il kamikaze che si fa esplodere in un lunedì qualunque, ma la sposa che passava per quella piazza al momento dell'attentato e sognava il suo grande amore spezzato. Non è il talebano che odia la sua terra e le sue donne, ma è la ragazzina che vuole studiare, che vuole andare a Parigi e che dovrebbe essere protetta dalla conoscenza di tutti noi. Le armi non proteggono, le armi non difendono, le armi non risolvono, lo fa la conoscenza.
Sapere è proteggere, combattere, è giustizia. O almeno ne è il principio. E per tutti quelli che mi chiedono perché continuo a fare questo maledetto mestiere, perché non ho mai accettato il compromesso di una scrivania, perché continuo a farmi spezzare il cuore ogni volta che Kabul, Baghdad o Gaza esplode, è perché amo quella terra dei confini miei, quel cielo, quelle stelle basse e soprattutto quelle persone e perché amo scrivere, anche se sono l'ultima ruota del carro del giornalismo nostrano, anche se penso che essere liberi sia più importante dei compromessi finanziari, anche se poi piango perché non li ho fatti e vorrei partire e non me lo posso permettere e maledico i giornali per quello che avrei voluto pur sapendo che un posto per me in realtà c'è mai stato. Un po' come l'Afghanistan, anzi, io sono l'Afghanistan e l'Afghanistan è le mie parole come un affamato che si spezza le unghie per scavare nella terra e trovare quella radice che non c'è.


  30 aprile 2018