prima pagina pagina precedente




sulla stampa
6 giugno 2018


Lega-M5S, promesse e realtà di un governo di cambiamento
Governare non significa solo attuare un programma, ma affrontare imprevisti, adeguarsi alle circostanze, confrontarsi con i partner stranieri e i mercati, e soprattutto interpretare l'opinione pubblica
Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera


L'avvocato degli italiani, come si è presentato, ha tenuto la sua prima arringa. Il linguaggio è appunto giuridico, un po' da principe del foro un po' da professore che dice «lessema» per «parola», e cita studiosi non notissimi introducendoli però agli studenti, «il filosofo Jonas», «il sociologo Beck». Giuseppe Conte ha tratteggiato se stesso come l'esecutore del Contratto, nuovo Graal della politica, stipulato dai suoi danti causa, Di Maio e Salvini.
Ma è evidente che sarà anche altro, e per fortuna. Perché il contratto, così com'è scritto, è impossibile da realizzare: non ci sono i soldi per il reddito di cittadinanza, la flat tax e l'abbassamento dell'età pensionabile (e infatti il premier ha già iniziato a prendere tempo). E perché governare non significa solo attuare un programma, ma affrontare imprevisti, adeguarsi alle circostanze, confrontarsi con i partner stranieri e i mercati, e soprattutto interpretare l'opinione pubblica.
Sotto l'ultimo profilo — la sintonia con gli elettori —, questo governo è il più forte degli ultimi anni. Poco importa che il suo capo e alcuni ministri importanti fossero fino a ieri sconosciuti. Di questi tempi, l'esiguità di esperienza (si vorrebbe dire di curriculum) non è considerata un limite, anzi può essere un vantaggio. L'aspettativa popolare per un cambiamento vero è grandissima. Il sostegno all'esecutivo nascente è ampio. I sondaggi sono unanimi, danno i Cinque Stelle sopra il 30% e la Lega poco distante; ed entrambe le fazioni sentono questo governo come proprio. E Conte ha badato ieri a non presentarsi come il rappresentante del movimento che l'ha scovato nella sua università fiorentina, ma a dar voce anche alle istanze leghiste, dalla legittima difesa alla linea dura sull'immigrazione.
La popolarità — iniziale — del governo non è però una buona ragione per rinunciare a seguirlo con spirito critico. Anzi. Al suo esordio politico, ieri in Senato, Conte ha fatto ambiziosi riferimenti alla salute pubblica («il popolo si è espresso, ora tocca a voi» è un'eco di Robespierre), ha evocato una condivisibile palingenesi morale, ma è stato generico sugli obiettivi da raggiungere. Ha scaldato i «suoi» senatori, ma non ha dato le rassicurazioni precise che un grande Paese industriale si attende da una maggioranza inedita: dall'esecutivo infatti sono esclusi sia i rappresentanti del Ppe sia quelli della famiglia socialista e democratica, che in Germania governano insieme. Conte non ha chiarito se si farà l'alta velocità, non solo la Torino-Lione quanto soprattutto la Brescia-Verona-Venezia; se chiuderà l'Ilva; se si andrà avanti con la Pedemontana; se l'Alitalia sarà venduta, come sarebbe logico, o ri-nazionalizzata, ovviamente a spese dei contribuenti. Né ha spiegato con precisione quale sarà la collocazione internazionale dell'Italia: con l'America «ma anche» con la Russia, con Bruxelles «ma anche» con Orbán. Un governo si giudica dai fatti, non dalle parole del primo giorno. Mario Monti, accolto nel 2011 come il salvatore della patria, ieri è intervenuto in un brusio di disapprovazione, poi mutato in brivido di paura quando ha ammonito che, con i cento miliardi tra spese e mancati introiti previsti dal mitico Contratto, la trojka respinta a fatica può sempre tornare. Enrico Letta tenne un ambizioso discorso di legislatura; durò meno di dieci mesi. Matteo Renzi annunciò con una mano in tasca che il suo era l'ultimo governo cui il Senato avrebbe votato la fiducia; la fine è nota. Paolo Gentiloni volò basso fin dal decollo e ha proseguito per un anno e mezzo, in una navigazione tranquilla che ha rassicurato gli italiani più delle discese ardite del predecessore, ma senza grandi risultati.
Conte ha il vantaggio di contare su una forte spinta nel Paese e di non avere quasi un'opposizione in Parlamento: il partito della Meloni si è offerto invano alla maggioranza; le truppe di Pd e Forza Italia sono deboli e divise. Se Lega e Cinque Stelle si riveleranno davvero la coalizione di domani, come prevede Renzi, il governo durerà. Se Salvini tornerà nella casa del centrodestra che lui stesso ha distrutto, come auspica Berlusconi, si tornerà al voto. Gli italiani si attendono moltissimo; ma Berlino, i mercati internazionali, il mondo globale — a partire dal G-7 imminente — non saranno benevoli. Possono esserci antipatici; però esistono; e il cambiamento ieri annunciato dovrà tenerne conto.

  6 giugno 2018