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13 marzo 2020


Coronavirus, cosa sta succedendo a Bergamo. Remuzzi: «È un dolore enorme vedere i tuoi amici cadere. Serviva la zona rossa»
«Se dovessi ammalarmi direi a chi mi assiste di intubare un paziente giovane, non me»
Marco Imarisio sul Corriere della Sera

Giuseppe Remuzzi ha fretta. «Dobbiamo trovare entro domani almeno cento posti per i malati di Covid-19 che non hanno ancora bisogno di cure intensive, così liberiamo letti per quelli più gravi». Sta parlando del Papa Giovanni XXIII, l'ospedale del quale è stato direttore del dipartimento di Medicina, un posto che per lui è casa, con il quale continua a collaborare anche oggi che guida l'Istituto di ricerca Mario Negri. I malati normali, tutti gli altri insomma, sono chiusi nel reparto di nefrologia che lui, uno degli studiosi italiani più conosciuti e pubblicati nel mondo, ha diretto fino al 2018. Ogni altro angolo di uno dei più grandi ospedali lombardi, e sono 50 blocchi, è riempito dai pazienti colpiti dal coronavirus. «Lei mi chiede come sto». Lunga pausa. «Mi sento come un soldato che perde i suoi compagni. Un mio amico dottore ricoverato in pneumologia in situazione critica, altri due intubati. Quando vedi queste cose, con le persone che sono cresciute con te in questi anni, che cadono mentre il nemico avanza, ti viene da piangere, non ce la fai. Mentre parliamo vedo le ambulanze che continuano a passare, e su ogni ambulanza c'è un essere umano che non respira. Ecco come sto».

Professore, cosa sta succedendo a Bergamo?
«Qualcosa di enorme. Due martedì fa erano tre morti. Sette giorni dopo, 33. Oggi, 58. Avranno anche avuto altre malattie, ma senza virus sarebbero ancora qui. E le polmoniti di questa settimana sono più gravi di quelle della settimana scorsa».
Come se lo spiega?
«La gente è terrorizzata di andare in ospedale. Resta a casa finché ce la fa, con tachipirina e antibiotico. Il 113 ci porta solo quei malati che proprio non ce la fanno a respirare».
Ma perché un numero così alto di vittime?
«Tra i tanti coronavirus che ci troviamo ad affrontare, questo è mutato in fretta. Fatichiamo a trovare una risposta immune. Fatichiamo a curare».
Quale è la verità?
«Questa non è una malattia benigna. Non è una influenza. È una malattia di cui si muore. Non solo anziani, ma anche giovani. E ha colpito molte più persone di quante siamo in grado di trattare».
Ma come si spiega questa virulenza?
«Come ormai tutti sanno, abbiamo due zone colpite. Nembro e Alzano. Già a dicembre i medici di base di quest'ultimo comune si sono trovati di fronte a polmoniti mai viste. Ma hanno pensato che fosse una evoluzione del ceppo annuale dell'influenza».
Hanno sbagliato?
«È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo se non l'hai mai visto prima. Anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo».
Poi cosa è successo?
«Alzano Lombardo è una piccola capitale industriale. Contatti di ogni tipo. Vai e vieni da ogni parte del mondo. Nembro è una delle città più vive e frequentate della zona. Un posto da movida, a farla breve».
Nessun'altra spiegazione?
«Le potrei raccontare la storia del dottore tedesco che lavora a Shanghai e a Monaco, che ha avuto contatti con un cinese di Shanghai che sembrava fosse sano, invece non lo era, e lavorava per una compagnia con filiale anche a Codogno. Ne ha parlato il New England Journal of Medicine, la pubblicazione di settore più importante del mondo».
E perché non lo vuole fare?
«Perché non serve a niente. Non ora almeno. Da fine ottobre, quando il virus è comparso anche in Europa, fino a gennaio, quando ce ne siamo accorti, c'è stato uno scambio continuo di milioni di persone. Con la Cina, con la Germania, con tutto il mondo».
Dove vuole arrivare?
«Chissà chi è andato, chissà chi è venuto. Il paziente zero non ci serve. Adesso ci servono posti in rianimazione».
C'era qualcosa di diverso che si poteva fare?
«Una zona rossa. Subito, come a Codogno».
Perché non è stata fatta?
«Non lo so. Dico solo che l'assenza di una zona rossa ha peggiorato una situazione già grave».
Le testimonianze che arrivano dagli ospedali bergamaschi fanno paura.
«Ormai sono tutte simili. Dicono che la gente muore. Che anche chi lavora negli ospedali si ammala. Che non c'è posto. Questo virus ci sta facendo capire cose che in tempi normali si fatica a far capire».
Ad esempio?
«Nelle ultime due settimane abbiamo formato 1.500 infermieri e medici. Abbiamo un disperato bisogno di personale. Abbiamo oculisti e dermatologi che stanno imparando l'assistenza respiratoria».
In tempi normali i neolaureati avrebbero dovuto entrare subito in corsia?
«L'ho detto e anche scritto spesso. Il mestiere, lo imparano meglio in ospedale. Ma nessuno ha mai voluto ascoltare. Se l'avesse fatto, oggi avremmo un esercito di “riservisti” prezioso a dir poco».
Torno a chiederle come sta.
«Come tutti, vivo con l'idea che possa capitare a me».
Se dovesse accadere?
«Direi a chi mi assiste di intubare un ragazzo, e non me. Io ho settant'anni».


  13 marzo 2020