Sono arrivato a Palermo subito dopo l'omicidio del mio amico Pio La Torre. Mi trovai al centro di un'opinione pubblica che ad ampio raggio mi dava l'ossigeno della sua stima e nello stesso tempo di uno Stato che affidava la tranquillità della sua esistenza, non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome. Che poi la mia opera potesse divenire utile, era tutto lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttami al vento non appena determinati interessi fossero toccati o compressi.
Occorrevano mezzi e poteri adeguati per vincerla, la mafia, occorreva che gli impegni presi dal Governo nel Consiglio dei Ministri del 2.4.82 fossero codificati. Ero venuto a Palermo per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e precedenze. Invece fui tradito. Vi fu come un ritiro delle mie credenziali e mi trovai isolato.
In quei cento giorni a Palermo, sono andato nelle scuole e nei cantieri navali a parlare con i ragazzi, con i loro insegnanti e con gli operai, ricevendo molto da quegli incontri. In quei cento giorni rifiutai invece, sistematicamente, tutti gli inviti (a cene e galà in mio onore) di ambienti altolocati, intuendo che proprio in quei salotti, ci potessero essere anche contiguità e collusioni.
In quei cento giorni ho capito molte cose, alcune molto semplici ma decisive. Si poteva, e si può ancora, sottrarre alla mafia il suo potere. Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini, non sono altro che i loro elementari diritti: come ad esempio il lavoro e l'assistenza economica. Occorreva e occorre, oggi più che mai, assicuraglieli questi diritti. Così si toglierà potere alla mafia, e i cittadini invece che suoi dipendenti ( sudditi), potranno diventare nostri alleati.
Attenti, perché la mafia non è un «fatto siciliano»: da decenni la mafia sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e industriali. A me interessa conoscere questa «accumulazione primitiva» del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato, e trasformano, in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma deve interessare soprattutto la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci, magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.
È quello che io chiamo il «polipartito», della mafia, per indicarne la profonda compenetrazione con pezzi della politica e dell'economia, una compenetrazioni utile e proficua alla mafia non meno che ai i suoi complici occulti. Un mafia che mostra come sempre - due volti: quello militare e quello della mafia degli affari; che si inabissa per poter meglio consolidare una rete di relazioni al servizio di un business mafioso che avvelena (senza clamore, ma in modo profondo) l'economia e la qualità della nostra vita.
La mafia militare anche quando sembra assopita rimane pronta ad agire. La regola del gioco è sempre la stessa; si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma è isolato.
Regola applicata anche per il generale Carlo Alberto dalla Chiesa il 3 settembre 1982 in via Carini.
2 settembre 2022