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IN CISGIORDANIA
Coloni
Negli insediamenti di Gush Etzion i proclami estremisti non sono più tabù, la gente per strada parla di una seconda Nakba: «Gli arabi vanno deportati» Il 37 % dei residenti è ultraortodosso, il 35 sionista religioso, solo il 28 laico. «È la nostra terra per diritto divino»
Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera



Gush Etzion (Cisgiordania) «Deportiamo i palestinesi». Sino a soltanto pochi anni fa era un tabù, anche i coloni ebrei più estremisti evitavano di parlarne ad alta voce e senz'altro non con i giornalisti stranieri. Ma dal 7 di ottobre è caduta qualsiasi barriera, non ci sono più paraventi o ritrosie. Ciò che prima era nascosto è diventato opinione comune, anzi, viene guardato con sospetto chiunque non la condivida. « Nakba shtaim », la chiama qui la gente per la strada con un misto di arabo ed ebraico. La « Nakba » per i palestinesi è sempre stata «la catastrofe», l'espulsione di oltre 700.000 persone dalle terre del neonato Stato di Israele nel 1948. « Shtaim » in ebraico significa due. Dunque, «seconda Nakba»: la seconda cacciata degli arabi dalle terre dell'Israele biblica a completare l'opera iniziata 75 anni fa.

«Non abbiamo più alternative: noi o loro. Il pogrom islamo-nazista di Hamas ha messo in luce ciò che davvero pensano gli arabi di noi. Ci vogliono tutti morti. Impossibile la coesistenza, assurdo pensare al compromesso politico, suicida contemplare l'ipotesi di due Stati paralleli nati dalla partizione della regione. Assieme non possiamo più stare e, dato che adesso noi siamo molto più forti, abbiamo il dovere di prevenire un nuovo Olocausto. I palestinesi devono andarsene non solo da Gaza, ma anche da Giudea, Samaria e Valle del Giordano», dicono all'unisono gli abitanti delle colonie ebraiche costruite progressivamente nei territori conquistati dall'esercito israeliano nella guerra del giugno 1967.

Siamo arrivati nell'area delle 22 colonie di Gush Etzion, sulla dorsale tra Gerusalemme e Ramallah, mentre ieri in tutta la Cisgiordania giungeva l'eco dei gravi scontri tra manifestanti palestinesi, militari e coloni israeliani, specie nelle province settentrionali. La radio militare già nel primo pomeriggio segnalava 14 morti palestinesi nel campo profughi di Jenin (sono circa 180 dal 7 ottobre in Cisgiordania). I comandi israeliani hanno fatto ricorso ai bombardamenti aerei. Manifestazioni anche a Nablus, Ramallah e diversi centri minori. Abbiamo visto molti villaggi palestinesi totalmente circondati e sotto coprifuoco sulle colline verso Hebron, parecchie strade secondarie per la zona di Betlemme erano state chiuse con barricate di pietre spostate dai bulldozer. Gruppi di soldati e coloni pattugliavano le campagne.

Ad accoglierci c'è Hanan Grenwood, un giornalista 39enne residente nella colonia di Efrat, che adesso fa il militare da riservista. Il suo discorso sarà alla prova dei fatti il più moderato di tutti. «Noi avremmo voluto convivere con gli arabi. Sono loro che non ci vogliono. Nel 1948 hanno rifiutato la partizione della Palestina proposta dall'Onu; nel 1967 Nasser voleva distruggerci e noi l'abbiamo prevenuto; nel 1987 c'è stata l'Intifada seguita dagli attentati kamikaze; nel 2005 Sharon ha smantellato le colonie ebraiche a Gaza e in cambio cosa abbiamo ricevuto? Il pogrom assassino di Hamas. Adesso ha ragione Netanyahu: dobbiamo rioccupare Gaza per almeno 10 anni. Chi tra la popolazione locale non l'accetta è giusto che se ne vada», dice mostrando l'infilata di colline declinanti verso il mare. «Vedi? Più a sinistra c'è la parte settentrionale di Gaza. Il nostro è un Paese minuscolo. Se qui ci fosse Hamas, bombarderebbe le nostre vie di comunicazione principali. La sera vediamo nel cielo le scie dei loro razzi che sparano su Tel Aviv, impossibile cedere queste terre, che tra l'altro erano nostre già nel 1948», spiega.

Qui si ritiene che oggi vivano i più moderati tra i circa 506.000 coloni distribuiti in 150 insediamenti della Cisgiordania (oltre ai 230.000 residenti nei quartieri orientali di Gerusalemme). Gush Etzion venne ricostruito sulle macerie delle abitazioni che erano state prese dall'esercito giordano. Nei piani di partizione avanzati ai tempi degli accordi di Oslo nel 2003, sia questa zona che Ariel e i quartieri di Gerusalemme est avrebbero dovuto restare in mano israeliana.

Ma da allora il cambiamento demografico e sociale è stato radicale. Oggi il 37 percento dei coloni sono ultraortodossi, il 35 sionisti religiosi e solo il 28 laici. «Gli arabi vanno tutti deportati. Non c'è altra soluzione. Questa terra è nostra per diritto divino, loro sono ospiti, ma visto che non ci vogliono è giusto mandarli via, dove non mi interessa», esclama Esther, una 42enne che lavora nella scuola locale. Il ragionamento religioso va per la maggiore. «La Bibbia spiega chiaramente che questa è la patria degli ebrei. Sono state le sinistre israeliane a illudere gli arabi di poter restare. Anche loro citano il Corano per ribadire che questa è terra islamica. E dunque il compromesso è impossibile», dice Aharon Yokel, che è nato 50 anni fa nel quartiere religioso di Bnei Barak, a Tel Aviv, e da 18 anni vive nella vicina colonia di Tekoa. Da tre settimane porta sempre con sé il mitragliatore con il colpo in canna. «Noi siamo i padroni di casa e possiamo decidere chi parte e chi resta».

  10 novembre 2023