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Ahlan wa Sahhlan - Benvenuta in Palestina
Barbara Schiavulli per Radio Bullets per gentile concessione


RAMALLAH – La guardia di frontiera israeliana si rigira il passaporto tra le mani. Dove vai? A Gerusalemme. Che fai? La giornalista. Si consulta con un collega. Alle loro spalle Israele, la Palestina, la guerra, il dolore e la rabbia, alle mie la Giordania dove ad un'oretta sorge un'Amman invernale con dei sprazzi di sole e la solita confusione sonnacchiosa di una città trafficata, ma non troppo. Ci vuole pazienza a passare il confine. 

Prima il tassista che mi ha portato da Amman, come tutti i tassisti del mondo che hanno un'opinione su qualsiasi cosa, mi ha spiegato quanto questa guerra tra Israele e Hamas, sia unica.
“Niente di tutto questo è mai avvenuto in 75 anni, è riduttivo parlare di Israele e Hamas, questo è un momento storico perché niente sarà mai più come prima”. Sostiene e neanche troppo a torto che i leader dei paesi occidentali si sono schierati contro i palestinesi come non era mai accaduto, ma anche quelli arabi. Un totale scollamento tra i poteri e la gente che invece, cova una rabbia e un dolore senza precedenti.
“Sono un beduino, ma i palestinesi sono fratelli”.
Poche ore prima invece, il tassista dell'aeroporto era palestinese. “Sono di Jenin, la mia città è stata distrutta e continua ad essere assaltata, io sono qui per lavorare, ma la mia famiglia resta lì perché mia madre non ha nessuna intenzione di lasciare un'altra volta la sua casa”.

Il confine giordano.
Al confine giordano la situazione è fluida, ma caotica: vai qui, vai lì, siediti là, il passaporto lo portiamo noi. “Lo shuttle per andare dalla parte israeliana è tra dieci minuti” che poi diventano 25. Mi guardo intorno, quasi invitata con un cenno da una signora, mi siedo, combattendo con un nugolo di mosche. Accanto un'altra ragazza, che legge un libro della scrittrice palestinese Adania Shibli, riconosco la copertina dell'edizione italiana. “Siete italiane?”. La prima è una religiosa e lo avevo già capito dalla gonna, la seconda lavora per una Ong.
Dove abito c'è il muro che ha cambiato tutto, prima per arrivare al villaggio vicino dovevo fare poche centinaia di metri, ora ci vogliono almeno 17 km per fare tutto il giro. Racconti di occupazione che coinvolge gente con vite che sarebbero normali da qualsiasi altra parte.

Il confine israeliano.
Il bus corre verso l'altra parte del confine e lì ci aspetta una bolgia umana carica di bagagli, sacchetti, donne e bambini. Piano, piano la fila procede, fino alla guardia israeliana che deve decidere se farci passare. Le mie nuove amiche passano, io resto indietro. I giornalisti hanno un trattamento riservato, ma tutto sommato me la cavo con poco, c'è troppa confusione alle mie spalle per potersi concentrare troppo su un'altra tra le centinaia di giornalisti che sono arrivati negli ultimi 89 giorni per coprire quello che sta accadendo.
C'è qualche problema? Dico quasi infastidita. “Nessun problema”, passo un altro controllo e la guardia mentre guarda il passaporto, mi dice sei italiana? Si di Roma, ero lì qualche settimana fa, una città bellissima, e come si mangia, e che ragazze. Beato te che hai un passaporto e puoi viaggiare, penso senza dire nulla, sorrido e vado a prendere la valigia.
Ritrovo fuori le mie nuove amiche, ci promettiamo di risentirci, loro vanno verso Gerusalemme, io a Ramallah, nel cuore della Cisgiordania. Cerco il bus che mi porterà a Gerico e poi da lì uno shuttle verso Ramallah. Mi godo il sole e il caldo del Mar Morto, quella distesa di deserto giallo di rocce e sbuffi di verde. Sembra tutto così pacifico ad osservare le colline morbide che sorgono a più di 300 metri sotto il livello del mare.

Sullo shuttle cinque donne e due uomini. Un ragazzo e un signore. Il ragazzo studia medicina ad Amman, torna a casa una volta al mese per stare con la famiglia e resterà fino a domenica, in un campo sfollati vicino a Ramallah, diventato ormai dopo decenni un vero e proprio villaggio. Vuole fare il dottore per aiutare le persone. In Palestina i medici sono diventati eroi, la resistenza, umanità e infaticabilità che hanno dimostrato nella Striscia di Gaza, è ormai entrata nella storia.
Persone che, come i giornalisti locali e gli operatori umanitari, hanno continuato a lavorare per settimane, anche quando scoprivano di aver perso la loro famiglia, anche quando i medicinali finivano, anche quando erano troppo stanchi per andare avanti.

“Questa guerra non finirà fino a quando gli israeliani non saranno andati via”, mormora Amjad che ha studiato anche a Cuba e mi racconta che ha cucinato per i suoi amici lì una pecora che ha personalmente ucciso. Faccio una smorfia e domando, non sarebbe meglio vivere in pace? Due stati? Come avrebbe dovuto essere. “Con quello che sta succedendo non è più possibile, sono finiti quei tempi. Ora è noi o loro e vinceremo noi, perché questa terra è parte di noi, non di loro. Veramente qualcuno da voi crede che sia solo una questione tra Israele e Hamas?”.
Una frattura insanabile è l'emozione che trasmette la sua voce mentre mi elenca i villaggi che attraversiamo. È solo un ragazzo e non vede speranza. Non conosce pace e ormai sembra così deluso che neanche la vuole. Gli anziani dovrebbero essere senza speranza, non i giovani.

Sciopero generale
Non c'è traffico, i negozi sono chiusi nessuno in giro, sembra ancora più rammaricata la Palestina sotto questo cielo uggioso. “C'è sciopero generale. Sono tutti a casa”, mi spiega Amjad.
I palestinesi sono sconvolti dall'ultimo attacco sferrato da Israele che anche se nega ufficialmente, nessuno ci crede, neanche gli israeliani stessi. Ieri un drone ha sparato tre razzi nella periferia di Beirut in Libano contro un palazzo uccidendo Salah Arouri, il numero due del ramo politico di Hamas. Un attacco che solleva lo spettro che la guerra di Gaza si possa espandere in altri paesi.
Arouri, originario di un villaggio vicino a Ramallah, è stato ucciso a Dahieh, roccaforte densamente popolata di Hezbollah, gruppo politico libanese allineato all'Iran. Un portavoce di Hezbollah ha detto al Washington Post che l'attacco drone è stato lanciato da Israele. Daniel Hagari, portavoce dell'Idf, le forze armate israeliane, ha detto che sono “in uno stato di massima allerta. Siamo preparati a qualsiasi scenario”.

Danny Danon, un membro della Knesset, il parlamento israeliano si è congratulato con l'IDF e con le agenzie di intelligence. Una delle signore sul nostro shuttle in un comprensibile inglese, dice di essere preoccupata per quello che potrebbe essere la ritorsione per la morte del leader di Hamas. Le donne sono pratiche, devono pensare alle conseguenze di ogni cosa che accade.
Ramallah ci accoglie con un diluvio. Amjad è sceso quindici minuti prima, sbracciandosi in saluti affettuosi, il signore che mi è accanto, apre un cartone pieno di dolci. Piccoli cannoli ripieni di pistacchio, immersi nel miele. Me li offre con la gentilezza di chi ha capito che c'è qualcuno venuto ad ascoltare le loro storie. Le mie dita si appiccicano mentre mi sbriciolo addosso, ma non avrei mai potuto rifiutare. Incalzo nel mio arabo che affiora a parole sorprendendomi ogni volta: wen shai? E dov'è il tè, gli dico e lui scoppia a ridere. A Ramallah, risponde mettendosi una mano sul cuore.

A Ramallah scendiamo tutti, ognuno diretto verso la vita che l'aspetta. Le tre donne velate salgono su un taxi, un'altra ha una macchina in attesa. Io cerco di capire quale strada devo prendere per raccontare questa storia. Intanto, tra le pareti dei palazzi bianchi sporchi di smog, si è perso il calore pacifico del mar Morto, diluvia e a tratti esce qualche raggio di sole.
C'è gente, donne, uomini, giovani e anziani solo a Manara Square, spuntano bandiere, slogan e rabbia per la morte di Arouri, per i bombardamenti incessanti su Gaza, per le incursioni in Cisgiordania: “Non c'è più speranza di poter convivere insieme, mormora più di qualcuno, tutto questo è troppo. Arouri è solo il nostro ultimo martire. Possono provare ad ucciderci tutti, ma la Palestina non morirà mai”.
E intanto, Ahlan Wa Sahlan fi Falestin. Benvenuta in Palestina.

  3 gennaio 2024