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Gaza: un trauma collettivo
Barbara Schiavulli per Radio Bullets (per gentile concessione)

Ramallah foto di Barbara Schiavulli


RAMALLAH (Cisgiordania) – Detenzioni arbitrarie, omicidi mirati, occupazione, attacchi, incursioni, sfollamenti, umiliazione, totale impunità. La vita di chi vive in uno stato di occupazione, non è mai facile. Bisogna fare i conti con qualcuno che decide del tuo spazio, del tuo tempo, a volte di quello che dici e di quello che puoi avere.
Qualcuno che incide sui tuoi sogni come sui tuoi spostamenti, dove ogni giornata è scandita da quello che puoi o non puoi fare. Perfino partorire, se devi passare un posto di blocco, diventa complicato, se il soldato decide che non ha voglia di farti passare.
Chiunque in Palestina sa cosa significa vivere con l'acqua contata, con un figlio che, se maschio, potrebbe finire in prigione o morire, solo perché nato dalla parte sbagliata del muro, della recinzione o di quella idea che questo spazio dove persone hanno vissuto generazione dopo generazione, non gli appartiene.

Il 7 ottobre è stato un evento che ha segnato una spaccatura o comunque ha messo un segnalibro nella storia del conflitto israelo-palestinese. Per i palestinesi il 7 ottobre, è stato un atto di resistenza, un diritto garantito dal diritto internazionale. 16 anni di blocco totale è stato infranto dall'attacco.

La risposta del governo israeliano nei giorni successivi è stata di una portata così devastante da lasciare il mondo con il fiato sospeso. Quasi 1200 morti e 250 ostaggi da una parte e 23 mila dall'altra, di cui 10 mila minorenni. 109 giornalisti, un milione e 800 mila sfollati in una striscia con 2 milioni e trecentomila persone. Decine di migliaia feriti.
Senza contare la distruzione delle case, delle infrastrutture, delle strade, delle scuole, degli ospedali. La fame, la sete, le malattie e quella morte pronta a colpire ovunque. Non c'è una sola persona che non abbia perso una persona della propria famiglia, c'è anche chi ha perso tutti. Genitori senza figli, figli senza genitori. Gente sepolta sotto le macerie.
Tutto quello che è accaduto, è avvenuto sotto gli occhi del mondo che grazie ai social e ai giornalisti locali, ha potuto vedere in diretta la distruzione della più grande prigione a cielo aperto. Ma quali sono le ripercussioni psicologiche di tutto?

Prima o poi, la fine della guerra
Prima o poi, i bombardamenti finiranno. Sono già passati 100 giorni. E quando il silenzio prenderà il sopravvento, le emozioni e i traumi esploderanno. Ora la priorità è sopravvivere, domani sarà rimettere a posto le macerie di Gaza e quelle della loro vita.
“Quello che sta succedendo a Gaza non ha precedenti. Nelle guerre che si sono vissute prima, una parte della popolazione veniva colpita, un'altra no. E quest'ultima parte sarebbe diventata quella che avrebbe aiutato l'altra a guarire. Questo non è il caso ora. Tutti sono stati colpiti”, ci spiega Samah Jabr, psichiatra, direttrice dell'Unità di Salute mentale del Ministero della Salute dell'Autorità Palestinese e autrice del libro Dietro Fronti.
Non si può parlare per tutti naturalmente, i palestinesi sono una galassia frammentata come la sua terra. Ma per decenni hanno subito traumi e sofferenze, i quali contribuiscono all'intensità delle loro reazioni emotive.

Le opinioni su Hamas sono diverse: molti la considerano un'organizzazione di liberazione e sostengono i suoi sforzi di resistenza, altri si oppongono ai suoi metodi e temono la vendetta israeliana e che approfittino per perpetrare l'intento, più volte manifestato da membri del governo di estrema destra, di cacciarli.
Come chiunque i palestinesi hanno prospettive politiche e ideologiche diverse, a seconda di dove abitano, di quello che hanno vissuto, dell'età che hanno.
“In Cisgiordania, la repressione, l'impotenza, rabbia, la mancanza di potere politico è sicuramente aumentata, ma a Gaza la situazione è devastante. In questo momento, è talmente grave che l'intera comunità è in modello sopravvivenza, la capacità di connettersi con le proprie emozioni, è bloccato”.
Non c'è spazio per altro, è un modo per poter andare avanti per non essere sopraffatti, l'ammontare del dolore che queste persone sono costrette ad attraversare, è immaginabile. Non c'è  tempo neanche per gestire una perdita che ne arriva un'altra, oppure tante altre. Perdere familiari, amici, persone che si conoscono per settimane, segnerà tutti quelli che hanno vissuto a Gaza.
Rielaborare il trauma
Che cosa accadrà ai sopravvissuti quando la guerra finirà, quando tutti saranno più interessati a chi governerà o a chi ricostruirà piuttosto all'impatto sulla sanità mentale delle persone?
“La prima cosa da fare sarà ricostruire le scuole e il sistema sanitario. I bambini, che rappresentano il 50 per cento di Gaza, hanno bisogno di routine. Sarà importante preparare le persone, ma non solo medici, psicologi, terapeuti, ma anche insegnanti, genitori, operatori, per esempio, considerando che anche loro saranno traumatizzati”.
“Ci vuole un intervento comunitario. Non è qualcosa che si curerà in ospedale, o in una clinica. Certo alcune persone avranno bisogno di una terapia personale. Ma qui non parliamo di persone con una patologia, la patologia semmai è fuori. Ci vorrà una riabilitazione sociale, le persone dovranno elaborare i traumi parlandone insieme, attraverso rituali, l'arte, scrivere, raccontare, dovranno riprocessare il trauma e dovranno farlo insieme per poterlo superare”.
Jabr ci racconta come nel 2002, dopo l'incursione a Jenin in Cisgiordania, dove per 10 giorni le persone vissero sotto assedio, con decine di morti e case distrutte, un artista tedesco creò un cavallo che rappresentava la forza dei residenti del campo sfollati. In mezzo a una piazza, era come se racchiudesse le loro emozioni e le persone ne hanno fatto un simbolo (di recente gli israeliani hanno distrutto l'opera).
“Non si tratta tanto di terapia quanto di guarigione collettiva attraverso rappresentazioni altamente allegoriche”.
Gaza soprattutto, è il simbolo della fermezza, della resilienza e della determinazione di fronte alle avversità. Gli abitanti di Gaza tenaci e vengono visti forti, nel perseguire il loro obiettivo di autodeterminazione e giustizia. E allo stesso modo li vedono i residenti della Cisgiordania che si nutrono della loro forza per resistere alla loro quotidiana agonia, e forse mai come ora il paese è unito.
Questa guerra, a chiunque si chieda non è più una questione di Hamas, è diventata una questione di esistenza palestinese.

Barbara Schiavulli da Ramallah per Radio Bullets



  14 gennaio 2024