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Le nostre vite
a cura di Umberto De Pace

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Ci sono storie di uomini e donne che vale la pena raccontare, leggere o ascoltare. Attraverso le loro semplici e dirette parole scopriamo quello che alle volte si nasconde tra le pieghe delle nostre vite o che accade oltre la siepe delle nostre certezze e paure. Sono storie di vita, fiabe dei nostri tempi, testimonianze irriverenti, poesie sussurrate, lacrime versate, tracce di strade inesplorate. Sono fonti di gioia, dolore, tenerezza, disperazione, felicità e tristezza, specchi in cui è riflessa l'umanità del nostro tempo.
Takeshi Ono
Dall'articolo “Nella terra degli spiriti” di Richard Lloyd Parry London Review of Books Regno Unito
su Internazionale 1/21 agosto 2014



Takeshi Ono
Giappone: terremoto e tsunami del 2011

Al momento del terremoto stava lavorando in un cantiere. Si era aggrappato al suolo per tutta la durata della scossa, mentre perfino il suo autocarro era sembrato sul punto di capovolgersi. Il tragitto verso casa, con le strade senza semafori, era stato angosciante, ma i danni erano incredibilmente pochi. Qualche palo della luce pendente, qualche muretto crollato. Takeshi Ono è il proprietario di una piccola impresa edile: nessuno meglio di lui sa come affrontare i problemi pratici causati da un terremoto. Ha trascorso i giorni successivi alla scossa armeggiando tra fornelli da campeggio, generatori e taniche di carburante, senza fare troppo caso alle notizie.
Quando la TV ha ripreso a funzionare, è stato impossibile ignorare l'accaduto. Ono ha visto trasmessa senza interruzione l'immagine del fumo che si alzava dal reattore nucleare. Ha visto le riprese fatte con i cellulari dell'onda nera che divorava porti, case, centri commerciali, auto ed esseri umani. Erano luoghi che conosceva da sempre, paesi di pescatori e spiagge appena oltre le colline, a un'ora di macchina. Guardare la loro devastazione ha suscitato in Ono un sentimento diffuso in quel periodo, anche tra gli sfollati e tra chi era stato colpito da un lutto. Quello che era successo era innegabile: la distruzione di città e villaggi interi, l'annientamento di una moltitudine di persone. Eppure al tempo stesso impossibile. Impossibile e, di fatto, assurdo. Intollerabile, annichilente, inconcepibile, semplicemente insensato.

“La mia vita è tornata alla normalità”, mi racconta Ono. “Avevo carburante, avevo un generatore, nessuno dei miei conoscenti era morto o ferito. Non avevo mai visto lo tsunami, non con i miei occhi. Mi sembrava di vivere in una specie di sogno”. Dieci giorni dopo la catastrofe Ono, sua moglie e la madre vedova hanno deciso di andare a vedere di persona come stavano le cose oltre le montagne. Sono partiti di mattina, di buon umore, si sono fermati lungo la strada per fare acquisti e hanno raggiunto la costa all'ora di pranzo. Per gran parte del viaggio il paesaggio gli è apparso famigliare; risaie, villaggi di legno e tegole, ponti sopra fiumi ampi e placidi. In collina hanno cominciato a superare un numero sempre più grande di veicoli d'emergenza, non solo della polizia e dei pompieri, ma anche autocarri militari delle forze di autodifesa. Via via che la strada scendeva verso la costa, la loro allegria si è spenta. D'un tratto, prima ancora di capire dove si trovavano, sono entrati nella zona dello tsunami. Non c'erano stati avvertimenti, nessun'area periferica pian piano più danneggiata. L'onda si era abbattuta con violenza, si era esaurita e poi si era fermata, netta come l'orlo dell'alta marea. Al di sotto di quel punto, tutto era cambiato.
Nessuna fotografia avrebbe potuto descriverlo. Perfino le immagine televisive non rendevano la qualità panoramica della catastrofe, la sensazione, in quella pianura della rovina, di esserne circondati da ogni lato. Quando raccontiamo i paesaggi di guerra parliamo spesso di distruzione “totale”. Ma anche il più intenso bombardamento aereo risparmia i muri e fondamenta dei palazzi incendiati, parchi e boschi, strade e sentieri, campi e cimiteri. Lo tsunami non aveva risparmiato nulla, compiendo surreali accostamenti che nessuna esplosione, da sola, avrebbe mai potuto eguagliare. Aveva sradicato foreste intere scaraventandole a chilometri di distanza nell'entroterra. Aveva staccato la pavimentazione delle strade e aveva scagliato quelle lingue accartocciate in ogni direzione. Aveva strappato case dalle fondamenta e aveva sollevato macchine, camion, navi e cadaveri fin sui tetti dei palazzi più alti.

A questo punto del suo racconto, Ono sembra restio a descrivere nel dettaglio cosa ha fatto o dov'è andato. “Ho visto le macerie, ho visto il mare”, racconta. “Ho visto palazzi danneggiati dallo tsunami. Non era solo quello che vedevo. Era l'atmosfera. Erano luoghi dove andavo così spesso. E' stato davvero uno spettacolo sconvolgente. E tutti quei poliziotti e quei sodati. E' difficile da descrivere. C'era una sensazione di pericolo. Il mio primo pensiero è stato che fosse tutto terribile. Poi ho pensato: è reale?”. Quella sera Ono ha cenato come sempre con la moglie e la madre. A tavola ha bevuto due lattine piccole di birra. Poi, senza motivo apparente, ha cominciato a chiamare gli amici. “Chiamavo e dicevo: 'Ciao come va?', cose così”, mi racconta. “Non è che avessi molto da dire. Non so perché, ma cominciavo a sentirmi molto solo”.

Quando Ono si è svegliato la mattina seguente, la moglie era fuori. Lui non aveva nulla da fare e ha trascorso la giornata a casa. La madre entrava e usciva, molto affaccendata, ma sembrava stranamente turbata, perfino arrabbiata. Anche la moglie, di ritorno dall'ufficio, appariva tesa. “C'è qualcosa che non va?”, ha chiesto Ono.
“Voglio il divorzio!”, ha risposto lei.
“Il divorzio? Ma perché? Perché?”.
La moglie e la madre hanno descritto cos'era successo quella notte, dopo il giro di telefonate affettuose. Come Ono si fosse buttato carponi e avesse cominciato a leccare il tatami e il futon, contorcendosi come un animale. Come in un primo momento loro avessero riso nervosamente davanti a quella stranezza, rimanendo poi senza parole quando Ono aveva preso a ringhiare: “Dovete morire. Dovete morire. Dovete morire tutti. Ogni cosa deve morire e sparire”. Poi era corso fuori, nel campo incolto davanti a casa, e aveva cominciato a rotolarsi nel fango, come sbattuto qui e là da un'onda, gridando: “Là, laggiù! Sono tutti laggiù, guardate!”. Si era alzato e avanzava nel campo, dicendo: “Sto venendo da voi. Ora passo dall'altra parte”, prima che la moglie lo costringesse a forza a rientrare in casa. Convulsioni e muggiti, erano proseguiti per tutta la notte finché, verso le cinque di mattina, Ono aveva esclamato:” C'è qualcosa sopra di me”, per poi crollare e addormentarsi.

“Mia moglie e mia madre erano sconvolte e angosciate. Naturalmente ho detto loro che ero molto dispiaciuto. Ma non avevo nessun ricordo di quello che avevo fatto né del perché lo avessi fatto”. La scena si è ripetuta per tre notti. La seconda sera, mentre calava l'oscurità, Ono ha visto passare alcune figure accanto alla casa: genitori e figli, un gruppo di giovani amici, un nonno con un bambino. “Erano coperti di fango” racconta. “Erano a meno di sei metri da me e mi fissavano, ma non avevo paura. Ho solo pensato: 'Perché restano tutti infangati? Perché non si cambiano? Forse hanno la lavatrice rotta'. Erano persone che potevo aver conosciuto in passato o che magari avevo visto da qualche parte. La scena ballava, come la pellicola di un film. Eppure mi sentivo perfettamente normale, e loro mi sembravano persone qualunque”.
Il giorno dopo Ono era fiacco e apatico. La sera è andato a letto, ha dormito per dieci minuti, poi si è svegliato fresco e riposato come se fossero passate otto ore. E' avanzato barcollando, ha guardato torvo la moglie e la madre e ha brandito perfino un coltello: “Crepate!”, ha urlato. “Gli altri sono tutti morti, quindi morite!”. Dopo tre giorni di suppliche da parte dei suoi parenti, ha accettato di andare al tempio di Kaneda (n.d.r. sacerdote di un tempio zen). “I suoi occhi erano spenti”, mi racconta il monaco. “Come quelli di una persona depressa sotto l'effetto dei farmaci. Ho capito subito che qualcosa non andava”. “il sacerdote mi fissava mentre parlavo”, ricorda Ono, “e una parte di me diceva 'Non mi guardare così, stronzo. Ti spacco la faccia! Perché mi guardi così?' “.
Kaneda ha preso Ono per mano e lo ha guidato fino alla sala principale del tempio. “Mi ha detto di sedermi. Non ero me stesso. Ricordo ancora il fortissimo senso di resistenza. Ma parte di me provava anche sollievo, volevo essere aiutato, volevo credere nel sacerdote. La parte di me che era ancora me voleva essere salvata”. Kaneda ha suonato il tamburo del tempio e ha intonato il sutra del cuore.

In seguito la moglie di Ono gli ha raccontato che aveva unito le mani per pregare e che, durante la recitazione del sacerdote, le sue mani si erano sollevate, come tirate dall'alto. Il sacerdote lo ha spruzzato con dell'acqua santa e all'improvviso Ono è tornato in sé, ritrovandosi con i capelli e la camicia bagnati, colmo di un senso di tranquillità e sollievo: ”La mia testa era leggera. In un attimo quella cosa era scomparsa. Mi sentivo fisicamente bene, ma avevo il naso tappato, come se mi fossi risvegliato con un brutto raffreddore”.
Kaneda gli ha parlato severamente. Sapevano entrambi cos'era successo. “Ono mi aveva detto di aver camminato, mangiando un gelato, lungo la spiaggia nella zona devastata”, mi confida Kaneda. “Aveva perfino messo un cartello sul parabrezza dell'auto con la scritta 'soccorso', in modo da non essere fermato. Era andato lì sfacciatamente, senza dare nessun peso alla cosa. 'Sciocco'. Gli ho detto, ' se vai in un posto dove sono morte molte persone, devi farlo con rispetto. Te lo dice il buon senso. Hai subito una specie di castigo per le tue azioni. Qualcosa si è impossessato di te, forse i morti che non riescono ad accettare di essere morti. Hanno cercato di esprimere il loro rimpianto e il loro risentimento attraverso di te”. Kaneda sorride. “E' così innocente e aperto. Anche per questo sono riusciti a possederlo”. Ono ha ricordato tutto. Non era stato posseduto solo dagli spiriti di uomini e donne, ma anche di animali, cani, gatti e altre bestie annegate con i loro padroni. Ha ringraziato il sacerdote ed è tornato a casa. Il naso gli colava, come fosse pieno di catarro, ma al posto del muco usciva fuori una cosa mai vista prima: una gelatina rosa acceso.


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  2 settembre 2014