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Le nostre vite
a cura di Umberto De Pace

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Ci sono storie di uomini e donne che vale la pena raccontare, leggere o ascoltare. Attraverso le loro semplici e dirette parole scopriamo quello che alle volte si nasconde tra le pieghe delle nostre vite o che accade oltre la siepe delle nostre certezze e paure. Sono storie di vita, fiabe dei nostri tempi, testimonianze irriverenti, poesie sussurrate, lacrime versate, tracce di strade inesplorate. Sono fonti di gioia, dolore, tenerezza, disperazione, felicità e tristezza, specchi in cui è riflessa l'umanità del nostro tempo.
La schiava yazide
e i vigliacchi jihadisti
intervista a cura di Pietro del Re
su la Repubblica del 7 settembre


le vittime e i vigliacchi jihadisti

La prego non scriva il mio nome, perché sono così imbarazzata per ciò che mi infliggono. C'è una parte di me che vorrebbe morire all'istante, sprofondare sottoterra e restarci per sempre. Ma c'è un'altra parte che ancora spera di salvarsi e di poter riabbracciare i genitori. È questa la parte che mi dà la forza di parlare con lei. Non so come si chiama la cittadina dove ci hanno portate, perché siamo arrivate di notte e perché da allora siamo rinchiuse in una grande casa, con le finestre sempre sbarrate, da dove non possiamo uscire perché sorvegliate a vista da uomini armati. I primi giorni, quando ci trovavano con il cellulare in mano ce lo sequestravano immediatamente. Poi però i nostri carcerieri hanno cambiato strategia e per ferirci ulteriormente ci dicono di raccontare nei dettagli ai nostri genitori quello che ci fanno. Ridono di noi perché si credono invincibili, perché si sentono dei superuomini. Ma sono soltanto persone senza cuore.

Abusano di noi. Nella grande casa saremo una quarantina. E siamo tutte vittime. I nostri aguzzini non risparmiano neanche quelle che hanno un figlio piccolo con loro. Né salvano le bambine: alcune di noi non hanno compiuto neanche 13 anni. Sono quelle che reagiscono peggio a questo schifo. Ce ne sono alcune che hanno smesso di parlare. Una s'è strappata i capelli e l'hanno portata via. Le violenze avvengono all'ultimo piano della casa. Ci sono tre stanze per le violenze. Le stanze degli orrori. Avvengono anche tre volte in un giorno. Ci trattano come se fossimo le loro schiave. Veniamo date in pasto a uomini sempre diversi. Alcuni arrivano addirittura dalla Siria. Ci minacciano e ci picchiano quando tentiamo di resistere. Spesso vorrei che mi picchiassero abbastanza forte da uccidermi. Ma sono dei vigliacchi anche in questo: nessuno ha il coraggio di mettere fine al nostro supplizio. Non so chi siano. Alcuni sono vecchi, altri giovani. Alcuni sono vestiti come dei militari, altri indossano gli abiti degli arabi, altri ancora sono persone apparentemente normalissime. La notte, anche i nostri carcerieri ci saltano addosso.

La forza di sperare me la dà la memoria di quella che era la mia vita prima che cominciasse questo incubo. E anche l'amore dei miei genitori con i quali riesco a parlare abbastanza spesso. Ma a volte ho l'impressione di non farcela. Sento che se un giorno questa tortura dovesse finire, la mia vita rimarrebbe per sempre segnata da quello che sto subendo in queste settimane. Anche se dovessi sopravvivere, non saprei come cancellare dalla mia mente le scene di questo orrore. È anche per questo motivo che vorrei morire subito. All'inizio chiedevamo ai nostri carcerieri che ci uccidessero, che ci sparassero. Ma siamo troppe preziose per loro. Alcune di noi hanno provato a impiccarsi, ma nessuna c'è ancora riuscita.

Non sapevo che fossimo quasi in mille donne yazide a patire questo calvario. Quanto alla Siria è una delle tante minacce dei nostri carcerieri: ci dicono che se non collaboriamo ci spediscono a Raqqa. Ma dopo quello che scontiamo qui come vuole che ci intimorisca l'idea di finire in Siria? Una settimana dopo il nostro arrivo sono venuti tre uomini molto cattivi che ci hanno esaminate una per una, toccandoci dappertutto davanti a tutti e spaventandoci a morte con un coltello. Dopo un'ora hanno portato via quindici di noi. Non so dove siano finite. Può darsi che ci siano anche alcune donne cristiane, ma non qui, dove siamo tutte yazide e proveniamo tutte da Sinjar. Tutti ci ripetono in continuazione che siamo donne "infedeli", perché non musulmane, e che siamo di loro proprietà come un bottino di guerra. Ci paragonano spesso a delle capre appena acquistate al mercato delle bestie.

Io, la sola speranza che nutro è che i peshmerga vengano a liberarmi. I nostri carcerieri ci dicono che i jihadisti li stanno sconfiggendo ovunque, ma per fortuna mio padre mi tiene al corrente di quanto accade. So, per esempio, dei bombardamenti americani contro di loro. Vorrei solo che gli americani si sbrighino a farli fuori tutti, o che mi centrino con una loro bomba, perché io non so quanto resisterò. Hanno già ucciso il mio corpo. Stanno uccidendo anche la mia anima.



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  10 settembre 2014